Largo alla «divulgazione intelligente»

Il termine «divulgare» sta cambiando significato rispetto alla sua accezione primigenia: oggi il volgo non è più così ignorante, mentre la scienza non è più così chiara e definita. La vera sfida è mettersi in discussione
24 ottobre 2004
Franco Carlini
Fonte: Il Manifesto

Ogni tanto anche all'autore di queste righe danno del divulgatore scientifico e la cosa non è esaltante. Non già perché il divulgare non richieda una buona conoscenza della materia e una qualche capacità di spiegare, quanto perché l'idea è un po' ottocentesca e soprattutto al di sotto di quello che la scienza può dare alla società e che viceversa la società può chiedere alla scienza. Intanto «divulgare» rimanda esplicitamente all'idea che ci sia un volgo, ovvero «una classe sociale economicamente più povera e culturalmente più arretrata» (dizionario Zingarelli). Del volgo incolto sono tipici i pregiudizi e le false credenze, che andrebbero dunque dissipati spiegandogli un corpo di sapere scientifico che si sottintende concluso e definito. Il fatto è che entrambi gli elementi di questa concezione (il volgo ignorante e la scienza ben chiara e definita) non sono più veri. Il volgo non è più tale e non è poi così ignorante di scienza come viene descritto: magari, come avviene in quasi tutti i paesi, la formazione scientifica fornita dal sistema scolastico non è adeguata - e in Italia lo è ancor meno - e tuttavia in qualche modo le masse dei cittadini le loro idee sulla scienza se le sono fatte. Per esempio praticano con assoluta pervicacia quel Principio di Precauzione di cui i ricercatori discutono da anni (ne esistono una dozzina di definizioni diverse) e che molti governanti considerano un fastidioso e reazionario impaccio al progresso della scienza e della società.

Così quelle masse di ignoranti di questi tempi comprano volentieri i cibi che riportano l'etichetta «Ogm free», anche se le aziende dell'agroalimentare e tanti volonterosi ricercatori si affannano a spiegare loro che non c'è rischio alcuno per la salute. Il recente blocco del decreto del ministro Alemanno sugli Ogm è stato fatto in nome della libertà dei produttori, ma negando la libertà dei consumatori. Alemanno ha signorilmente incassato in nome del realismo politico e ha ripreso all'istante l'abito contadino: a Terra Madre, l'incontro mondiale delle comunità del cibo finito ieri a Torino, ha sostenuto tesi eccellenti, almeno alla lettera, ma che diventino azione politica è lecito dubitarne.

Chi si muove nel frattempo, sfruttando le pieghe del fedaralismo, è la regione Toscana: Chiara Boni, assessora, ha presentato una proposta di legge per la salvaguardia di specie vegetali e animali della sua terra, intese come bene collettivo e gratuito. Allo stesso modo gli italiani votarono in massa al referendum contro l'energia nucleare, ma «emotivi che non siete altro!» li rimproverano industriali, tecnologi dell'energia e anche molti fisici riconvertiti. Evitano di spiegare che i progetti di nucleare intrinsecamente sicuro di cui si parla, hanno un orizzonte temporale al 2025, ben che vada.

Quelli citati sono due esempi, i più vistosi, di una crisi di fiducia ormai ben visibile nei rapporti tra scienza e società a cui di solito i ricercatori (non tutti) fanno fronte cavandosela con un problema di comunicazione e di educazione scientifica. In questa visione si suppone che basterebbe spiegare per bene che cosa sono davvero le biotecnologie e la manipolazione dei geni vegetali per dissipare le diffidenze e che una corretta campagna di informazione sui nuovi reattori nucleari intrinsecamente sicuri (altro che Cernobyl) potrebbe finalmente fare accettare i reattori e le loro scorie millenarie ai cittadini di Puglia come a quelli nei pressi di Yucca Mountain nel Nevada.

Tuttavia anche quando queste operazioni di divulgazione sono state fatte (per esempio in Inghilterra e proprio a proposito degli Ogm) i risultati sono stati deludenti per i fautori di tali progetti. E allora i casi sono due. Caso A: si giudica che le masse siano irrimediabilmente refrattarie alla cultura scientifica e al pensiero razionale e allora si rinuncia per non perdere voti, oppure si forza in maniera autoritaria. Caso B: si prende finalmente atto che le domande che la società dal basso rivolge alla scienza sono altre e diverse da quelle delle lobby e di conseguenza ci si ingegna per reinnestare un ascolto e un dialogo fecondo.

Questa evidentemente sarebbe la soluzione auspicabile. Quanto alle domande implicite ed esplicite che il mondo globale pone alla scienza, valga un esempio captato nel gruppo di discussione associato al sito www.e-laser.org: ogni anno negli Stati Uniti l'influenza autunnale uccide in media 26 mila persone e alle ricerche sui vaccini vengono destinati 283 milioni di dollari. In compenso di antrace e simili agenti da guerra chimico-batteriologica è morta ((forse) una persona, ma i fondi per fronteggiare tali minacce ammontano a 5.600 milioni di dollari. E ancora: il recente vaccino contro la malaria sperimentato con relativo successo in Mozambico (il 30% di successi) è stato interamente finanziato dalla Fondazione Bill e Melinda Gates, ovvero da un privato monopolista che comunque ha capito che al mondo ci sono dei problemi più gravi e più importanti che piazzare Windows in ogni casa, mentre i famosi paesi «donatori» latitano clamorosamente nei loro contributi all'Organizzazione mondiale della sanità.

E tuttavia il riscaldamento globale sta estendendo la fascia di paesi esposti alla zanzara Anofele e di conseguenza al Plasmodium falciparum: vai a vedere che come la malaria tornerà a colpire il nord del mondo, allora anche i ricercatori si fonderanno a studiarla e debellarla. E i fondi miracolosamente scaturiranno dai bilanci statali.

Insomma, i segni di crisi ci sono tutti, ma la maggioranza degli operatori di scienza si culla nell'illusione che sia solo una febbriciattola, superata la quale sarebbe possibile ritornare alla felice situazione di una volta, di quando la società nel suo complesso affidava volentieri le sue speranze di progresso alla scienza stessa. La grande e allora plausibile narrazione suonava così: dissipate le nubi dell'oscurantismo e della superstizione, la società nel suo insieme avrebbe potuto fondarsi su verità scientifiche e razionali, solide e incontrovertibili. I successi teorici e pratici della scienza - indubitabili - stavano lì a dimostrare che ciò era possibile.

Tutto questo è stato vero fino alla seconda guerra mondiale: i fisici riuniti a Los Alamos, a costruire le prime bombe atomiche, erano lì per alti fini scientifici (i «misteri» del nucleo), ma anche civili (sconfiggere il nazifascismo). Quelle bombe tuttavia lasciarono un segno incancellabile: con i loro morti indicarono ai fisici che altri decidevano per conto loro e contro i popoli e che anche loro ne risultavano inevitabilmente complici.

L'altro passo è stata la biologia molecolare: un folto gruppo dei migliori ricercatori si riunì nel 1975 a Asilomar mettendo in guardia contro i progressi di quelle che oggi chiamiamo biotecnologie e suggerendo che la stessa comunità scientifica doveva esercitare precauzione, magari decidendo persino di fermarsi su certe frontiere. L'anno dopo, arrivò la pronta smentita: veniva fondata la prima azienda biotech, la Genentech, in California. In altre parole la «presa» di militari e business sulla scienza è ormai ben robusta e inevitabilmente ne piega gli indirizzi e i fini assegnati. Paradossalmente tuttavia i fondi militari sono quelli meno direttamente finalizzati, dato che nel sistema americano è proprio il Dipartimento della Difesa a finanziare anche ricerche senza diretta e prevedibile applicazione, dalla linguistica alla matematica. Lo fa nella convinzione che potrà venirne qualcosa di utile anche per le armi, ma soprattutto come strumento pubblico con cui rafforzare il predominio tecnico-scientifico di quel paese.

La pressione delle industrie è invece molto più stringente, non solo negli obbiettivi assegnati, ma anche nella gestione dei risultati: si pubblicano solo quelli utili e positivi e si brevetta appena possibile. La reazione dei ricercatori a tale stravolgimento dello statuto della scienza c'è stata, ma è ancora assai debole e in molti di loro è poderosamente penetrata l'idea che in fondo devono lavorare per il mercato, anziché per la società.

Nel frattempo a aggravare il problema entravano in gioco anche delle dinamiche interne alla scienza, due soprattutto: le matematiche non lineari mettevano in dubbio la possibilità di spiegazioni semplici - per formule e teoremi - di fenomeni complessi, dalla meteorologia al sistema nervoso. Contemporaneamente il peso crescente delle scienze dell'evoluzione ha fatto uscire la scienza dal semplice esperimento di laboratorio e l'ha calata nella storia. Si capisce allora come ci sia ormai poco da divulgare, almeno in termini classici, ma che semmai, come ha detto di recente Andrea Kerbaker, direttore del Progetto-Italia di Telecom, serva quantomeno una «divulgazione intelligente», ovvero, aggiungiamo noi, una che mentre diverte e rende piacevoli le materie astruse, insieme non nasconda i problemi tuttora aperti. Se c'è una cosa che il grande pubblico dovrebbe imparare dai ricercatori e che questo dovrebbero insegnare a tutto spiano, è l'idea che ogni spiegazione è limitata e provvisoria e che la vera grande sfida della scienza è a mettere in discussione se stessa e quanto già acquisito. Qualcuno ostinatamente lo chiama pensiero critico, e non ci riesce di trovare una definizione migliore.

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