La svelta rete del cibarsi con lentezza

Dal free software a Slow Food. La gestione della conoscenza è un valore aggiunto molto difficile da quantificare, che accomuna processi produttivi, reti informative e movimenti di resistenza sociale e culturale. Politica radicale Che in fondo si «riduce» solo a «mettere in contatto le persone, dare vita a flussi di conoscenze, collegare esperienze che poi si contaminano tra di loro, germinano, danno frutti»
31 ottobre 2004
Franco Carlini
Fonte: Il Manifesto

Un tema centrale ormai campeggia sulle nuove tecnologie, e va sotto il nome di gestione della conoscenza (knowledge management), la qual cosa è sempre più importante quando le merci si fanno immateriali e il loro valore dipende dai saperi e dalle conoscenze che incorporano. Di chi sono quelle idee? Come se ne regolano gli eventuali diritti proprietari (ammesso che siano tali)? E prima ancora, come si sviluppano tali idee? In rete, sarebbe la risposta ovvia. Ma la rete e le reti sono tante cose e molto diverse: ci sono quelle fatte di automi come le formiche, che fanno costruzioni meravigliose a partire da un patrimonio di intelligenza singola assai limitato. E ci sono le reti di relazioni e conoscenze degli umani, dove ben più che l'istinto entrano in gioco storia, cultura, economia, psicologia.

Una di tali reti è ormai il movimento internazionale di Slow Food, e Terra Madre, l'incontro tra le comunità del cibo di tutto il mondo che si è svolto la settimana scorsa a Torino, ne è stata la più evidente rappresentazione. Ma una domanda subito si è levata: questi movimento sono politica? Oppure antipolitica? O ancora nuova politica?

Intervistato da Michele Serra sulla Repubblica del 6 ottobre, Carlo Petrini, che di Slow Food è il presidente, ha detto: «Ma io non sono mica un politico. Pessimo mediatore, non sarei capace. Sono un organizzatore, ecco questo sì. Mi piace mettere in contatto le persone, dare vita a flussi di conoscenze, collegare esperienze che poi si contaminano tra di loro, germinano, danno frutti». Ora se questa non è politica, nel senso migliore del termine, dite voi. E quanto alle capacità di mediazione, lo stesso Petrini ne va dimostrando di grandi, se riesce a ottenere appoggi entusiasti sia dal ministro Alemanno che da noi, «quotidiano comunista».

Slow Food è riuscito in questi anni a sfuggire alla stupida identità di un movimento di ghiottoni. Lo ha fatto collegando il cibo, il territorio (il sociale) e l'ambiente (il naturale). Così facendo si è inserito nel filone in crescita del movimento ambientalista, senza cadere nelle trappole dell'ideologia della natura selvaggia - che non esiste - né in quelle della mistica manichea che in talune correnti sogna il ritorno ai bei tempi felici, che tali non erano.

Tutto ciò ha creato un pubblico (un discorso pubblico e una comunità) che era costituito essenzialmente di adulti occidentali, acculturati e sovente benestanti. Tutti volonterosi e politicamente corretti (la cosa vale anche per chi scrive), ma questo era un limite sociale, non diverso da quello degli studenti che nei primi anni `70 andavano davanti ai cancelli delle fabbriche. Con Terra Madre, incontro delle comunità del cibo di tutto il mondo (130 paesi) Slow Food ha tentato con successo un altro spiazzamento: di se stessa intanto, ma anche dei suoi interlocutori.

Quali ne sono le caratteristiche, almeno per come le abbiamo capite? Intanto la dimensione internazionale (globale). Ma questa è tanto semplice ad enunciarsi quanto ardua a fondarsi. Per il capitalismo finanziario, ma anche per McDonald o Nike, è relativamente facile essere globali perché la loro missione e visione si basano sulla diffusione nel globo, appunto, di un prodotto unico - e di un relativo pensiero e stile di vita. Per farlo possono contare su di un potere robusto sia economico che ideologico.

Costruire un internazionalismo basato sulla diversità - su quella biologica, culturale e sociale - è decisamente più difficile e infatti finora non è riuscito a nessuno: si sono viste coalizioni attorno a stati guida come l'Unione Sovietica, oppure tentativi basati sulla comune condizione di lavoratori dipendenti, come le varie federazioni internazionali dei sindacati. Le prime hanno preso la forma di impero, le seconde non hanno mai retto al divergere degli interessi nazionali.

Slow Food con Terra Madre 2004 ha preso una strada modesta e apparentemente lontana dalla politica, e questo spiega i silenzi e persino le diffidenze che si sono percepite a sinistra. Ma a ben vedere nei temi che Slow Food - Terra Madre solleva non solo c'è molta politica, ma anche molti conflitti potenziali, che prima o poi verranno alla luce. Politica perché cercare di rendere gli «ultimi» protagonisti delle loro vite (e dei loro mezzi di produzione, la terra, l'acqua e i semi) e dei loro prodotti, è da sempre una utopia dirompente. La stessa che in passato animò, sotto varie ideologie, l'occupazione delle terre e persino la guerra del te, all'origine dell'indipendenza americana.

Dunque, che il principe di Galles, Carlo d'Inghilterra, sia venuto virtuosamente a esprimere il proprio apprezzamento per questi movimenti contadini underground da un lato è una grande conferma del loro peso, ma dall'altro non può velare a nessuno il fatto che proprio l'impero britannico, così come il colonialismo olandese, spagnolo e portoghese, sono all'origine della loro presente emarginazione. Se le patate andine o il te biologico sopravvivono è solo perché delle popolazioni conquistate e spossessate, si sono aggrappate a quegli alimenti e a quei semi per sopravvivere malgrado tutto. Allo stesso modo l'enfasi posta sulle diversità, quella biologica, ma anche culturale e sociale, non si traduce in banale tolleranza e facile fusion, così come fusion sono certi ristoranti di moda.

A Slow Food certamente manca la strategia politica, almeno nel senso tradizionale del termine, ma anche questa è una scelta. Sembrano pensare, non senza ragione, che questa, se ha da esserci, possa essere solo un frutto maturo, «tardivo» come un mandarino di Ciaculli. Un percorso lungo e soprattutto slow: senza fretta perché le grandi svolte richiedono pazienza.

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