Conoscenza, bene comune
Ottimo il tema «Condividere la conoscenza», sviluppato ieri a Milano in un incontro organizzato dal senatore Fiorello Cortiana con la partecipazione tra gli altri di Stefano Rodotà e Lawrence Lessig, il giurista di Stanford da tempo attivo sui temi della proprietà intellettuale. Ma con una variante e un di più, se è lecito esagerare nei sogni: per «condividere» al meglio dei saperi già esistenti occorre anche un prima e cioè una «conservazione», e magari fare seguire il tutto da un dopo, che consiste nel «creare» nuova conoscenza condivisa. Il primo gradino - la memoria - è essenziale e non riguarda solo le tecnologie di conservazione, per esempio quelle che verranno usate da Google per mettere in forma di bit i volumi delle biblioteche universitarie con cui ha appena stretto un accordo commerciale. Quello è solo uno dei problemi, ma quello più vasto riguarda che cosa conservare per i posteri, con quali criteri e con quali «schedature».
Se i libri si sa come classificarli, ben altro discorso è quello dei materiali multimediali prodotti in questi anni. Basti dire che il solo Google ha in memoria 8 miliardi di pagine web e che queste rappresentano solo una parte, forse il 30 per cento, dell'intera Internet. La loro classificazione è grossolana, affidata a software automatici e quasi non esistono criteri di affidabilità né guide alla lettura, attività preziose finora svolte dai bibliotecari, un mestiere che non solo è destinato a permanere, ma anche, si spera, a estendersi e rafforzarsi.
Né va dimenticato che tra le memorie da conservare come beni comuni ci sono quelle dei popoli: i linguaggi, molti dei quali in via di estinzione, e i saperi tradizionali, specialmente relativi al rapporto con la natura: cibi, coltivazioni, medicine. Questa conservazione e valorizzazione, oramai lo si è capito, non può avvenire inviando gli antropologi nelle foreste a studiare i pigmei come fossero insetti, ma lavorando insieme alle singole popolazioni indigene.
Il secondo gradino, la condivisione, indica il libero accesso ai saperi, quello che spesso viene chiamato Open Access. Su questo terreno stanno succedendo delle cose importanti, a partire dal mondo del software e della ricerca scientifica, ma con serie possibilità di estensione a tutto lo scibile. Nelle settimane scorse i National Institutes of Health, una delle più grandi organizzazioni della ricerca statunitense, hanno completato una consultazione aperta attorno a una proposta che suona così: tutte le pubblicazioni scientifiche devono essere gratuitamente disponibili a tutti, in ogni parte del mondo, sei mesi dopo la loro pubblicazione cartacea sulle riviste. Molte sono state le adesioni favorevoli, specialmente da parte degli scienziati, ma forti anche le obiezioni della lobby dell'editoria. Queste ultime tuttavia (e per fortuna) non hanno avuto la forza di mettere in discussione il principio dell'universalità e gratuità del sapere, ma si sono appuntate semmai sulla sostenibilità economica di tale progetto. L'idea degli Nih è solo l'ultima in ordine di tempo di una moltitudine di progetti aperti: per esempio la rivista online libera Plos biology (http://www.plos.org) o il progetto OpenCourseware del Mit (http://ocw.mit.edu/). Tutti corrispondono a una nuova sensibilità diffusa ma anche alla disponibilità di tecnologie come quelle digitali che rendono concretamente realizzabili le buone proposte.
Il che avviene anche nel terzo gradino, quello della creazione di idee nuove in maniera cooperativa. Capita anche nelle aziende, dato che le più avvertite hanno infine scoperto che il sapere di cui sono depositari i dipendenti è un bene prezioso anche ai fini del business. Gli attuali sistemi software detti di knowledge management vorrebbero risolvere tale problema, ma sono tuttora troppo tecnologici, molto costosi e rigidi. Servirebbe ben altro, forse di più leggero e flessibile, ma soprattutto occorre un progetto sociale e organizzativo per far sì che una comunità di dipendenti si senta proiettata verso un progetto comune, ottenendo gratificazione dal fatto di non tenere per sé le proprie competenze, mettendole invece in pubblico.
Il sentiero dunque è grosso modo questo: le tecnologie digitali rendono possibile e facile lavorare in modo cooperativo, ma il loro successo non è garantito. Perché lo scopo sia raggiunto le tecnologie devono essere utilizzate come uno stimolo, per rimodellare l'organizzazione e i suoi valori.
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