Il sapere «protetto» tra princìpi e realtà
Brevetti, marchi, copyright e diritto d'autore: dal 1600 circa e fino a ieri questi sono stati gli strumenti fondamentali di tutela della cosiddetta proprietà intellettuale. Nella loro codificazione più recente e stabile, quella del secolo scorso e prevalentemente anglosassone, il loro fondamento è lineare e apparentemente solido, ruotando a pochi principi: 1) La conoscenza, sia quella tecnica incorporata nei brevetti che quella culturale o artistica del copyright, è un bene prezioso per l'umanità intera e non solo per il singolo creatore e per gli utilizzatori di quelle opere. E' bene comune che deve essere a disposizione di tutti, sulla base della semplice considerazione storica che se l'umanità è finora progredita, questo è stato grazie a un perpetuo, incessante e disseminato processo di copia, imitazione e miglioramento delle idee altrui. La migliore prova della validità di una «pensata» sta nel fatto che essa susciti imitazioni: se un'idea nessuno te la copia, allora forse non vale molto.
2) Nello stesso tempo occorre riconoscere realisticamente che il mondo non è popolato solo da altruisti disinteressati, ma anche da «free rider», persone che volentieri fanno scorribande nelle idee altrui: Allora salvo alcuni artisti, magari benestanti, pochi dedicherebbero energie a creare poesie, musiche o invenzioni utili se esse possono essere copiate tali e quali e immesse sul mercato magari a prezzi inferiori. Da qui la decisione degli stati di incentivare le idee, attribuendo loro una particolare forma di protezione, i diritti di proprietà intellettuale, appunto. La discussione è da sempre accesa tra i filosofi, gli storici e se questa proprietà sia addirittura un diritto naturale (come quello alla vita) o se non sia invece una forma ristretta e minore di proprietà, e dunque subalterna rispetto a un bene più importante che è quello della circolazione delle idee. La maggioranza dei sistemi di protezione fino ad ora ha seguito questo sensato e moderato secondo punto di vista.
3) Di conseguenza si è stabilito uno scambio: gli stati assegnano agli inventori e agli autori un monopolio sull'uso delle loro opere dell'ingegno, ma con delle restrizioni, anche significative: intanto il monopolio è limitato nel tempo (20 anni per i brevetti, ormai 70 dalla morte dell'autore per il copyright) e scaduto quel periodo le idee e le loro concrete realizzazioni diventano patrimonio di tutti, liberamente usabile, riproducibile e copiabile da chiunque.
Gli inventori poi, devono assoggettarsi a un'altra clausola piuttosto restrittiva: possono ottenere il brevetto solo se questo corrisponde a particolari caratteristiche (essenzialmente: novità, utilità e non banalità) e comunque devono dispiegarne pubblicamente il contenuto. La domanda dunque deve rivelare pienamente non solo agli uffici, ma anche al pubblico e ai concorrenti in che cosa il brevetto consiste; in questo modo altri potranno inventare cose nuove e diverse e comunque eviteranno di applicarsi a soluzioni che sono già coperte da brevetto.
Tutto bene dunque? Proprio per niente, perché tale sistema normativo ha funzionato in maniera lineare solo per poco tempo e solo in casi ristretti. Esso è continuamente messo in discussione dal cambiamento delle tecnologie e dallo spostamento del valore delle merci dal materiale all'immateriale. Oggi infine sta letteralmente esplodendo e produce danni generali (il sequestro dei saperi e la privatizzazione delle idee) e particolari (si rivela un freno e un onere eccessivo anche per le aziende in competizione tra di loro).
Le tecnologie «distruttive» e cioè quelle che mettono in discussione intere e consolidate filiere produttive, sono almeno di due tipi: l'uno riguarda la diminuzione delle difficoltà tecniche nel riprodurre o imitare invenzioni altrui. Fino a poco tempo fa non era solo la legge sui brevetti a proteggere le invenzioni, quanto la complessità della fabbricazione di certi oggetti o di realizzazione di processi produttivi: ci vogliono molti soldi per realizzare un impianto chimico, più di quanti ne occorrano per acquisire le licenze dei brevetti. Ma le tecniche sono oggi molto meno costose e per produrre un farmaco generico, usando lo stesso principio attivo di un altro brevettato, non occorrono investimenti pazzeschi, tant'è vero che diversi paesi in via di sviluppo lo fanno egregiamente.
A sua volta il copyright, come era stato inteso fino a ieri, è intaccato dalla disponibilità di tecniche di riproduzione poco costose e facilmente reperibili: ieri le fotocopie, oggi la produzione di copie digitali assolutamente identiche di musica, testi, immagini. Se ne era già occupato Walter Benjamin nel lontanissimo 1936 con il suo «L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica» (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit), ma si ripropone in termini ben più drastici oggi, nell'epoca in cui molte opere nascono già digitali e la loro riproduzione è istantanea, facile e a costo zero: non esiste più barriera tecnica alla copia e alla sua diffusione e questo di per sé è un enorme vantaggio, ai fini della circolazione della cultura, quanto una minaccia enorme per i detentori del copyright, il cui obbiettivo ha questo punto è ben evidente: sovvertire le leggi precedenti e renderlo eterno. La qual cosa avviene facendo a meno della legge e dei tribunali, ma incorporando la protezione del supposto eterno diritto direttamente nell'opera digitale: le tecnologie di gestione dei diritti (Digital Right Management) questo si prefiggono, dato che come bollini Siae permanenti dureranno per sempre, anche a copyright scaduto.
La demolizione del copyright storico del resto è già in atto da tempo per legge, con la sua dilatazione dagli originali 14 anni ai 70-90 anni attuali dalla morte dell'autore, negli Usa. In questo caso è evidente a chiunque non sia in malafede che è totalmente saltata l'idea del copyright come incentivo all'autore perché continui a creare: chi mai produce romanzi o poesie perché incentivato dalla remunerazione che ne potranno raccogliere i suoi post-post-post nipoti?
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