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Inchiesta: i retroscena di un agguato “amico”

Mogadiscio 1993: non furono cecchini somali a uccidere i due soldati italiani ma il "fuoco amico" dei nostri "alleati"

I parà della Folgore, Giorgio Righetti e Rossano Visioli, furono uccisi nel porto nuovo di Mogadiscio nel 1993. «Cecchini somali, gli autori», la versione ufficiale. Smentita, oggi, dai nostri servizi segreti: «A sparare volontariamente furono i nostri alleati». I vertici militari sapevano, ma hanno imposto il silenzio per ragioni “diplomatiche”.
1 dicembre 2005
Gianni Ballarini
Fonte: Nigrizia

Era un mercoledì, quel giorno. Da poche ore erano tramontate tensioni e violenza. Il buio aveva inghiottito Mogadiscio. Poi, all’improvviso, nella zona del porto nuovo della capitale somala si sentono degli spari, seguiti da alcune raffiche di mitra. Per terra restano due militari di leva italiani. Due paracadutisti di vent’anni: Giorgio Righetti e Rossano Visioli. Il primo muore subito; il secondo, mentre l’elicottero lo trasporta in un vicino ospedale. «Cecchini somali, gli autori dell’agguato», scrivono immediatamente, nei loro rapporti, i vertici militari della missione Ibis 2.
Era il 15 settembre 1993. Da allora la storia dei due parà, che si trascina una catena di encomi e un ingorgo di parole tutte uguali, è stata archiviata. Dimenticata. Accantonati i mille dubbi, le smagliature, le contraddizioni della versione ufficiale. E il velo dell’indifferenza, contrabbandata per impotenza, ha avvolto pure i ricordi.
Fino alla primavera di quest’anno, quando un generale dei servizi segreti italiani, oggi in pensione, si presenta in commissione parlamentare Alpi e rivela: «Righetti e Visioli? Sono stati uccisi da fuoco amico. Per sbaglio? No. Volontariamente». Così, all’improvviso, la storia dei due ragazzi riemerge dalla polvere del passato. Assieme a qualche brandello di verità, sepolta per dodici anni. Compresi i silenzi, imposti dai vertici militari, dei testimoni.
Una storia che merita di essere raccontata.

Il prologo

La Somalia che accoglie Giorgio e Rossano è un sistema politico e sociale precipitato nel caos del dopo-Barre. Un paese usato dalle Nazioni Unite come laboratorio per sperimentare quel ruolo di “salvatore planetario”, appiccicato all’Onu dopo il crollo del muro di Berlino. L’Italia decide di accodarsi alla missione Unosom (che coinvolge 16 nazioni, guidate dagli Usa) nel dicembre del 1992, forse per riscattare un passato poco limpido in quella regione.
Giorgio Righetti arriva in Somalia il 6 giugno 1993; Rossano Visioli, il 24 dello stesso mese. Entrambi sono stati alunni diligenti della scuola militare di paracadutismo di Pisa. Soldati di leva che avevano deciso di prolungare di tre mesi la loro esperienza in divisa, preferendo il rischio dell’avventura in un paese africano al timore della noia della loro vita quotidiana. Il primo era nato in Cile, a Vigna del Mar. A 11 anni, il trasferimento, con la famiglia, a Marina di Carrara. Il mare, la sabbia, i salti. La passione per il volo deve essere nata lì, quando si esibiva nei volteggi sulle pedane elastiche. È perfino diventato un campione della specialità. Poi il fratello maggiore entra nei parà e la Folgore finisce per rappresentare, anche per Giorgio, il luogo dove far planare i sogni.
Rossano era padano. Abitava con la famiglia a Casalmaggiore, in provincia di Cremona, a soli venti chilometri da Parma. Faceva il tipografo. La sua passione, però, era il culturismo. Aveva modellato il corpo come fosse pongo. Di Somalia e missione Onu in casa sua nessuno sapeva nulla. «Ci avvertì che partiva solo pochi giorni prima del volo, quando aveva già firmato», ricorda oggi il padre.
Righetti e Visioli finiscono distaccati al Reparto logistico di contingenza (Re.lo.co) del porto nuovo di Mogadiscio, nucleo incaricato di ricevere e smistare i rifornimenti dall’Italia e utilizzato anche per le scorte. In quei giorni di metà settembre 1993, il contingente italiano è impegnato nel trasloco dei reparti a Balad, trenta chilometri a nord di Mogadiscio. Nella capitale somala rimangono 315 degli oltre 2mila soldati di casa nostra. Ne sono in servizio 45 al porto (area la cui responsabilità è del contingente degli Emirati Arabi Uniti). Dal 6 settembre, poi, c’è un nuovo responsabile italiano della spedizione militare: il generale Carmine Fiore, subentrato al pari grado Bruno Loi.

La verità ufficiale

Il 15 settembre è una giornata torrida. E non solo per il caldo. Fin dal mattino nella Mogadiscio dei clan si respira aria impastata di violenza. La guerriglia sconvolge la capitale. Nel pomeriggio il quartier generale dei caschi blu è assalito da somali, con un bilancio di 11 feriti.
Il tramonto ingravida ancor più le paure. Ed è a quel punto che inizia il racconto delle ultime ore di Righetti e Visioli. Quelle fotografate nei documenti ufficiali delle nostre forze armate.
Ore 19. Giorgio e Rossano, assieme ad altri due commilitoni (Nicola Sforza e Christian Baldassin), decidono di lasciare l’accampamento per fare un po’ di ginnastica e di jogging. Non sarebbe la prima volta. La banchina nord del porto è un piazzale lungo circa 150 metri e largo 300. In mezzo ci stanno i moduli abitativi delle truppe indiane dell’Unosom e i mezzi militari, posti in triplice fila. Di solito, chi fa jogging si mette a correre sul lato sud, quello che confina con il mare. Il più sicuro. L’area a nord e a est è delimitata, invece, da un muro perimetrale alto 4-5 metri. Quella sera, però, i quattro cambiano programma: decidono di proseguire la corsa seguendo la linea del muro. Ritengono che non ci sia pericolo. Sono in maglietta e pantaloncini corti. È sera, ma «il luogo è illuminato da una doppia fila di lampioni». E poi sulla banchina c’è «una consistente e diffusa presenza di personale militare, dai pakistani agli americani, dagli indiani alla polizia somala». Non solo: all’esterno del muro, a nord del piazzale, in posizione dominante rispetto allo stesso, il personale degli Emirati Arabi presidia la postazione. Insomma, «l’area era da ritenere sicura».
Ore 19.20. I quattro ragazzi, uno accanto all’altro, arrivano di corsa in fondo al molo e svoltano. Ora hanno il muro perimetrale alla loro destra. Qualche decina di metri. Poi sentono dei colpi di arma da fuoco arrivare da dietro. Istintivamente, scappano a sinistra, cercando riparo tra i veicoli parcheggiati. Sentono altri 4-5 colpi, più due raffiche. Sono quelle che investono Righetti e Visioli. Il primo da subito non risponde. Rossano sì. Avvisa Baldassin e Sforza di essere stato colpito. Mentre quest’ultimo resta nascosto, Baldassin corre a chiedere aiuto al comando italiano, distante qualche centinaio di metri.
19.25. Un automezzo con a bordo pakistani dell’Unosom passa sul luogo della sparatoria. Ma non si ferma. Tira dritto. Ricorda Sforza: «Quei soldati mi hanno guardato in faccia. Hanno visto i corpi di Righetti e Visioli in mezzo alla banchina. Eppure hanno proseguito senza darci una mano».
19.30. Arrivano i primi soccorsi: quattro parà sparano in direzione di un ex mattatoio, situato su una collinetta all’esterno del porto nuovo. Cercano di recuperare i corpi dei due soldati. Inizia un conflitto a fuoco, perché dal mattatoio rispondono. Qualche istante dopo, giunge a dare una mano agli italiani anche un nucleo appiedato americano. Solo in quel momento dalla postazione degli Emirati Arabi s’inizia a sparare.
19.35. Cessa l’azione di fuoco. Si tenta un rastrellamento nell’area da dove si presume siano partiti i colpi. Non porta frutti.
19.50. Finalmente arriva l’elicottero italiano chiamato a trasportare Visioli all’ospedale da campo svedese. Ma il ventenne di Casalmaggiore muore durante il viaggio.
I rapporti scritti dai militari, nelle ore immediatamente successive all’agguato, lasciano pochi dubbi sugli autori dell’azione: «L’uccisione è avvenuta quasi certamente a opera di cecchini somali guidati da fazioni che hanno interesse, in Somalia, a creare scompiglio e insicurezza nelle forze Unosom». S’incarica il ministro della Difesa di allora, il socialista Fabio Fabbri, a cancellare anche il quasi: «Una tragica fatalità. Righetti e Visioli, vittime di colpi isolati, sparati da cecchini somali».

Nessuna autopsia

Una fretta insolita. Come il ritorno a casa dei due soldati, che avviene a tempo di record: uccisi mercoledì sera, giovedì le salme sono a Pisa. E venerdì già si celebrano i funerali nella città della torre pendente. Una pratica chiusa con sollecitudine. «È una prassi abbastanza normale», spiega il generale Loi. «I corpi sono stati immediatamente trasferiti per evitare il pericolo che il caldo li decomponesse». Ciò che stride, e che nessuno spiega, è come mai non sia stata eseguita l’autopsia sui due corpi. Assenza che alimenta un po’ di confusione. Come nel caso di Rossano Visioli: nel primo referto medico (17 settembre) si legge che a colpire il giovane è stato un solo colpo all’emitorace destro; quasi tre mesi dopo, il 13 dicembre, l’istituto di medicina legale dell’ospedale militare di Livorno cita anche un secondo colpo, al cranio. Quale la versione corretta?
Ma di aspetti singolari, questa storia ne presenta molti. Incredibile, ad esempio, è l’ignavia delle truppe alleate presenti al porto quella sera: avrebbero assistito a braccia conserte alla sparatoria. Un disinteresse fatale. Si legge nel rapporto militare del 29 settembre: «La mancata immediata reazione dei soldati indiani, pakistani, degli Emirati Arabi e dei poliziotti somali ai primi colpi sparati dai cecchini ha certamente agevolato il ferimento dei militari italiani, colpiti dalle due raffiche successive». Perfino per il generale Carmine Fiore «risulta eccepibile e di non facile interpretazione il comportamento dei militari di altri contingenti che, presenti nel comprensorio, non hanno né risposto al fuoco né tentato alcun tipo di soccorso».
Maria Figueroa, mamma di Giorgio Righetti, non crede, comunque, alla versione ufficiale. «Il medico dell’Unosom che ha visitato mio figlio ha scritto che era rimasto vittima di un conflitto a fuoco. Frase riportata fedelmente anche nella sentenza di morte del tribunale di Massa Carrara». Per lei la storia del jogging non sta in piedi. «Quelli erano giorni infernali e molto pericolosi a Mogadiscio. Non c’erano le condizioni perché quattro ragazzi si mettessero a correre, al buio, in maglietta e pantaloncini corti» Ad alimentare i suoi dubbi c’è l’ultima lettera scritta dal figlio. L’aveva spedita al fratello maggiore Sandro il 7 settembre, poco più di una settimana prima di morire. Tra gli altri passi, vi si legge: «Da una ventina di giorni ci sparano a tutte le ore. Ogni volta che rientro in branda sono felice di aver riportato il culo a casa».
Che la banchina del porto nuovo fosse, poi, un luogo così sicuro lo dubitano perfino gli stessi ufficiali italiani, che citano in un rapporto almeno tre episodi di violenza accaduti nell’area: il ferimento di tre francesi, l’attacco alla nave americana attraccata in banchina e, soprattutto, l’imboscata del 9 luglio 1993, in cui rimase ferito al braccio un carabiniere italiano.

Gli spari “alleati”

Mentre tutti si baloccano con la storia dei cecchini somali, c’è chi batte altre vie. Altre spiegazioni. Massimo Alberizzi, inviato del Corriere della Sera, è uno di questi. Da subito dubita della versione ufficiale. Per lui Righetti e Visioli sono vittime del fuoco amico. Tesi sostenuta in un dibattito televisivo anche contro Fiore. Dieci anni dopo l’agguato, l’inviato del Corsera racconterà il perché di quella convinzione. «Il 15 settembre 1993 ero, come sempre, al Sahafi, l’albergo dei giornalisti a Mogadiscio. Nella mia stanza avevo organizzato un piccolo ufficio con computer, stampante, telefono satellitare e un archivio di documenti. Sul tetto c’era un’antenna cui collegare la radio ricetrasmittente per monitorare tutte le trasmissioni Unosom. Ad un certo punto, erano le 19.25, dalla radio arriva una voce disperata: “Aiuto, aiuto! Ci stanno sparando addosso… Due dei nostri sono qui in una pozza di sangue”. Dopo mezzo minuto, la prima voce: “Quei figli di puttana ci sparano contro”; la seconda voce: “Chi vi spara contro?”; la prima voce: “I nostri, i nostri. Gli americani o gli arabi. Chiamate un’ambulanza”».
L’ipotesi del fuoco amico era stata ritenuta «possibile solo sul piano teorico» dal vertice militare italiano della spedizione. Eppure, il dubbio che gli autori dell’agguato fossero stati i soldati degli Emirati Arabi Uniti è venuto pure alle nostre stellette. Ma il cattivo pensiero è stato cacciato subito via: «Risulta azzardato e illogico ipotizzare che tali colpi mortali siano partiti dalla postazione degli Eau», si legge nel rapporto del 29 settembre. Mentre per gli uomini dei nostri servizi segreti quell’ipotesi non è affatto azzardata, né illogica. L’uomo del Sismi a Mogadiscio, Alfredo Tedesco, scrive nelle sue informative che i due parà furono uccisi proprio da fuoco amico. Racconto confermato, il 9 marzo 2005, dal suo capo di allora, il generale Cesare Pucci, sentito dalla commissione parlamentare d’inchiesta che si occupa dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ecco alcuni passaggi del botta e risposta tra la commissaria Elettra Deiana e il generale:
Deiana: «È stata fatta un’inchiesta per capire come fossero morti i due militari?»
Pucci: «Sì, ma non si è arrivati a niente».
Deiana: «Anche qui i servizi coprono?».
Pucci: «Pare che ci fossero delle truppe malesi schierate – c’erano anche quelle dell’Unosom – pronte per la partenza. Si pensa che siano stati loro a uccidere questi due. Questa è una delle ipotesi».
Deiana: «Per un incidente?».
Pucci: «No».
Deiana: «Apposta?».
Pucci: «Sì».
Deiana: «E non è stata svolta nessuna inchiesta?»
Pucci: «Sì, è stata fatta un’inchiesta su una nave che stava in mezzo all’oceano».
Deiana: «L’informativa di Tedesco parla di fuoco amico, ma in maniera generica. Lei, invece, parla di un delitto volontario?».
Pucci: «Per me è un delitto volontario».

Nigrizia ha chiesto direttamente a Pucci di chiarire le sue affermazioni. Ma il generale ha preferito non rispondere.
Resta il fatto che, grazie alle informative dei nostri 007, nel 2001 il sostituto procuratore di Roma, Franco Ionta, ha aperto un fascicolo contro ignoti per l’uccisione di Visioli e Righetti. Sono stati risentiti dalla Digos i protagonisti di quelle ore. Che hanno confermato i dubbi. Correggendo solo i nomi degli autori dell’agguato: i militari degli Emirati Arabi. Baldassin e Sforza hanno dichiarato di aver confidato i loro sospetti ai superiori, compreso il generale Fiore. «Ma ci fu detto di non raccontare nulla ai giornalisti. Fu un ordine» (Baldassin). «Ricordo che la mattina dopo il fatto siamo stati riuniti al comando io, Baldassin e coloro che avevano partecipato all’episodio. E il generale Fiore ci fece divieto di parlarne con chiunque» (Sforza). Caso archiviato: impossibile, dopo quasi dieci anni dall’agguato, trovare i nomi dei responsabili. I documenti di Ionta, però, sono stati acquisiti dalla commissione Alpi-Hrovatin. Che custodisce i segreti sulla fine dei due parà.
La cui storia, gonfia di dubbi e di inchini alla ragion di stato, sembra figlia di un dio minore.

Note: Il 15 settembre 1993 a Mogadiscio due soldati italiani, Giorgio Rigetti e Rossano Visioli, furono uccisi mentre facevano jogging nella base dell'ONU al porto.
Ilaria Alpi seppe la notizia, compresi i nomi dei morti, immediatamente, pochi minuti prima di andare in onda sul TG3 delle 19, ma si rifiutò di darla perché non riteneva eticamente corretto che i parenti dei due soldati assassinati apprendessero della morte dei loro cari dalla televisione.
Diverso stile, diversa cultura e diversa classe giornalistica da quella di chi non ha avuto gli stessi scrupoli nella triste vicenda dell'ostaggio italiano Fabrizio Quattrocchi, assassinato in Iraq, durante la trasmissione Porta a Porta.

a cura di Massimo Alberizzi


Ecco il racconto di quel 15 settembre:

"....Alla sera torniamo al Sahafi (l'albergo dei giornalisti n.d.r.) e ci mettiamo a scrivere i nostri articoli. Io sono alla camera 315 al secondo e ultimo piano. Il condizionatore è al massimo e la porta, come al solito, aperta. Ilaria nella stanza accanto, la 314. Nella mia ho organizzato un piccolo ufficio con computer, stampante, telefono (il terminale satellitare della Reuters) e un archivio di documenti. Sul tetto ho piazzato un'antenna cui collegare la radio ricetrasmittente con la quale monitorare tutte le trasmissioni in una lingua comprensibile, quelle dell'UNOSOM e delle agenzie non governative, in inglese, e quelle dei militari italiani.
La radio è in posizione scanner, cambia cioè velocemente canale e si ferma su quello che trasmette qualcosa.

Ore 19,25 (le 18,25 in Italia) dall'altoparlante arriva una voce concitata:
"Aiuto ci stanno sparando addosso... Due dei nostri sono qui in una pozza di sangue". "Chi vi ha sparato?", chiedono dall'altra parte. "Non lo sappiamo".
Urlo ad Ilaria di correre e ascoltare la conversazione. Lei arriva immediatemente.

1a voce: "Presto, presto, mandate un medico e un'ambulanza".
2a voce: "Come stanno, come stanno? Chi sono, chi sono?".
Mezzo minuto di silenzio poi tra le raffiche di mitra la 1a voce risponde: "Uno è qui vicino a me non ce l'ha fatta, è Giorgio Righetti. Rossano Visioli respira ancora, serve un medico e un'ambulanza".
Poi dopo un attimo di silenzio: "Quei figli di puttana ci sparano contro".
2a voce: "Chi vi spara contro?".
1a voce: "I nostri, i nostri. Gli americani o gli arabi. Chiamate un'ambulanza".

Si inserisce una 3a voce che, a me pare evidente, vuole parlare con la prima.
"Sto telefonando a Italeli (il comando degli elicotteristi ndr), ma quegli stronzi non rispondono al telefono".
1a voce (alla 3a): "Prova ancora, prova ancora". E poi alla 2a "Stiamo attivando le ambulanze americane".

Silenzio di qualche secondo.
1a voce: "E' morto, è morto anche Visoli".

Tutto il Sahafi è in agitazione. La mia stanza è piena di gente: c'è David Chazanne della France Presse, Paul Watson del Toronto Star, Reid Miller dell'Associated Press, Ingrid Formenek e Robert Wiener della Cnn, Sam Kiley del Times e tanti altri che entrano, captano qualcosa, poi escono.

Vogliono sapere da noi che siamo italiani e capiamo, quello che sta succedendo.

Intanto a Roma stanno per scoccare le 19 e Ilaria deve andare in onda.
Sarebbe la prima a dare la notizia, in anticipo addirittura sulle agenzie che ancora non l'hanno battuta.

E' agitata non sa che fare: se racconta dell'agguato fa uno scoop, ma il suo carattere, la sua generosità, la sua classe giornalistica, oltre alla deontologia professionale, le impongono di avere riguardo per le famiglie dei due ragazzi uccisi.

"Massimo - mi annuncia amareggiata ma decisa -, non voglio che lo sappiano dalla televisione. Non è giusto". Poi corre a chiamare al telefono il suo caporedattore al TG3, Massimo Loche, gli racconta quanto abbiamo sentito e conclude: "La notizia della morte di due ragazzi datela voi quando vi arriva dalle agenzie. Io non me la sento". Loche, altro stile anche lui, le dà ragione.

Quindi Ilaria registra il suo servizio come l'aveva preparato prima del duplice omicidio".

a cura di Massimo Alberizzi

Inviato da : M.Alberizzi @ Lunedì, 26 Aprile 2004 - 13:42
su http://www.erroneo.org/Articolo1095.html

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