Solo cannoni e niente burro
Le prime stime di quanto potrebbe costare agli Usa una eventuale guerra contro l’Iraq, rese note nell’agosto del 2002, variavano tra gli 80 ed i 100 miliardi di dollari a condizione che si ripetesse esattamente lo scenario del 1991, vale a dire senza considerare l’invasione dell’Iraq; la valutazione era comunque maggiore rispetto ai circa 60 miliardi di dollari che rappresentano la stima attuale del costo sostenuto dagli Usa nel corso della prima guerra del Golfo, mai dichiarato ufficilamente (1). Tuttavia si deve considerare che, tra il 1990 ed il 1992, circa 50 miliardi di dollari furono versati dagli alleati europei, giapponesi e arabi (Germania, Kuwait, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giappone), un’entrata assente o assai limitata in questa nuova avventura militare che prevede l’occupazione militare dell’Iraq per un periodo di tempo variabile tra i due ed i dieci anni.
La giostra delle stime e gli scenari del dopoguerra
Subito si è acceso il dibattito: molti osservatori e lo stesso Donald Rumsfeld hanno fatto notare come sia impossibile prevedere i costi della guerra con ragionevole margine d’errore in quanto essi varieranno notevolmente a seconda degli scenari militari, politici ed economici che si concreteranno. Per una campagna della durata di 60 giorni con l’impiego di 250.000 uomini i rappresentanti del Partito Democratico all’interno dell’House Budget Committee prevedevano un impegno finanziario di 93 miliardi di dollari (per le sole spese associate alla campagna militare, senza contare le spese d’occupazione). Già il 26 settembre gli ambienti finanziari di Wall Street e uno dei consiglieri del presidente Bush, poi licenziato in seguito alla diffusione di stime ‘rivedute’, ipotizzavano un costo del conflitto oscillante tra i 100 ed i 200 miliardi di dollari (2), ben più oneroso rispetto alle valutazioni del Pentagono e dell’Ufficio del Bilancio della Casa Bianca che parlavano di 50 miliardi di dollari, omettendo però il tipo di scenario di riferimento per il calcolo di questa cifra. L’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa ha stimato in 6-9 miliardi di dollari il costo mensile delle operazioni militari, escludendo però gli oneri derivanti dalle necessità logistiche e di sussistenza delle truppe (trasporti, trasferimenti, ecc.); alla fine del gennaio 2003 veniva comunicato dal Pentagono che per la sola movimentazione delle truppe, dei mezzi e del munizionamento (6.700 bombe JDAM e 3.000 bombe a guida laser) verso l’area del Golfo erano già stati impegnati a quella data 2,1 miliardi di dollari (3). Poche erano le ipotesi che si spingevano a considerare gli scenari che si potrebbero verificare nel caso di una invasione ed occupazione militare del territorio iracheno. Uno studio dell’ Army's Center of Military History ha stimato in 400.000 uomini la forza di peacekeeping necessaria per presidiare l’Afghanistan (300.000) e l’Iraq (100.000) dopo la conclusione delle operazioni militari. Queste cifre sono state calcolate considerando l’avvio di un processo di ricostruzione di questi due paesi paragonabile a quello avvenuto in Germania e Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si tratta comunque di una eventualità del tutto ipotetica, dal momento che nessuno tra i dirigenti del Pentagono e dell’amministrazione ha lasciato intedere di volersi impegnare in una strategia di nation building. Visti i precedenti fallimentari nei Balcani, dove dopo più di sei anni e con un impegno finanziario complessivo degli Usa e dell’Unione Europea di 100 miliardi di dollari la pace e la prosperità dell’area sono ben lungi dall’essere a portata di mano (4), la ricostruzione dei paesi devastati resta solo un’opzione propagandistica addotta per strappare il consenso per la guerra e nulla più. Del resto, se si dovesse applicare all’Afghanistan lo stesso rapporto tra popolazione e truppe straniere esistente in Kossovo nei mesi successivi alla guerra, il numero dei soldati necessari salirebbe a 600.000. Pare che la presenza di soli 40.000 uomini a Kabul comporti un onere di 4,5 miliardi di dollari all’anno, ma sono circolate anche stime che indicano in 5 miliardi di dollari al mese il costo dell’attuale corpo di spedizione Usa composto da 9.000 uomini (5). Per l’anno 2002 le uniche valutazioni ufficiali dell’impegno finanziario sostenuto dagli Usa per la presenza a Kabul ammontano a 10 miliardi di dollari, cifra ritenuta insufficiente ed alla quale il Congresso ha deciso di aggiungere un contributo straordinario di 6 miliardi di dollari nel febbraio 2003 (6). Queste somme non tengono conto della richiesta avanzata dal Pentagono di installare, entro il giugno 2003, 10 nuove basi statunitensi nel paese per ‘proiettare’ al di fuori di Kabul il potere dell’attuale governo afgano e per controllare le tensioni ed i conflitti locali tra signori della guerra, narcotrafficanti, truppe talebane e mercenari di Al-Qaida che i rapporti delle Nazioni Unite segnalano all’offensiva (7).
I costi umani e ambientali
Sullo sfondo di queste stime si staglia la tremenda contabilità delle vittime civili di una campagna militare contro l’Iraq, valutate a circa 500.000, senza contare chi perderà la vita per le conseguenze della guerra (distruzione di ospedali, acquedotti, centrali elettriche, fognature, disseminazione di mine e ordigni inesplosi sui terreni coltivabili, impiego di munizioni all’uranio impoverito, inquinamento ecc.). Non è possibile fare il confronto con quanto accade nel corso della prima guerra del Golfo poiché non si conosce con esattezza il numero delle vittime direttamente correlate al conflitto. Tuttavia è stato calcolato, da fonti indipendenti, che ben 13.000 civili iracheni furono uccisi durante i bombardamenti, 70.000 persero la vita in seguito ai danni arrecati dalle bombe occidentali ai sistemi di approvvigionamento idrico, alle centrali elettriche, agli ospedali ed alle infrestrutture sanitarie. A queste vittime si devono aggiungere circa 40.000 soldati iracheni e 30.000 morti in seguito all’insurrezione curda e sciita, duramente represse dalle truppe di Saddam con il tacito consenso degli Usa e dei loro alleati nel corso del 1991 e 1992; complessivamente sarebbero morti 32.195 bambini e 39.612 donne (8).
Le conseguenze di una nuova guerra totale sugli ecosistemi, sovente sottovalutate o addirittura ignorate, assumono tinte apocalittiche se si tenta di delinearle basandosi su quanto accadde nel 1990-1991. Secondo molte analisi l’intera regione non si è ancora ripresa dalle devastazioni ecologiche prodotte dalla prima Guerra del Golfo. A causa dell’embargo, che ha provocato più di un milione di vittime, l’Iraq non ha avuto accesso alle risorse necessarie per riparare gli ingenti danni ambientali. Nel corso del conflitto le forze armate irachene distrussero, fecero esplodere e incendiarono 1.164 pozzi di petrolio in Kuwait, sparsero sul terreno 60 milioni di barili di petrolio che inquinarono 900 km2 di territorio kuwaitiano e riversarono nelle acque del Golfo 4 milioni di barili di greggio, provocando la morte della fauna e della flora marina e la morte biologica delle acque in una vastissima area. Le polveri sviluppate dagli incendi ricoprirono migliaia di ettari di terreno fertile in Kuwait e nella zona di Bassora rendendoli sterili, e piogge acide causarono danni alle coltivazioni in aree distanti circa 2000 chilometri dai luoghi degli incendi. Il petrolio incombusto formò una nebbia che avvolse la regione provocando l’avvelenamento di piante e bestiame, la contaminazione delle acque e malattie tra la popolazione. A questi effetti si devono poi aggiungere quelli correlati alla disseminazione da parte irachena di circa 2 milioni di mine antipersona ed anticarro. Se gravi furono le responsabilità del governo di Baghdad, altrettanto si può affermare a proposito dei crimini ambientali commessi dalle forze armate Usa e dai loro alleati: nel corso della campagna di bombardamento furono distrutte numerose raffinerie di petrolio e stabilimenti petrolchimici, causando la formazione e la dispersione nell’ambiente di nubi tossiche e di grandi quantità di inquinanti; vennero massicciamente impiegate le bombe a grappolo e si stima che un numero compreso tra 1,2 e 1,5 milioni di questi ordigni inesplosi sia disseminato sul territorio iracheno; inoltre l’impiego intensivo di munizioni anticarro ha sparso ben 320 tonnellate di uranio impoverito sul suolo. Anche nel corso dei bombardamenti contro la Iugoslavia del 1999 fu pianificata una aggressione ecologica simile a quella praticata nel 1991. In uno studio recente (9) è stato sottolineato come non manchino le norme ed i mezzi per sanzionare i paesi che violano il Protocollo Aggiuntivo I della Convenzione di Ginevra adottato nel 1977 (10), che vieta espressamente ai belligeranti di provocare danni di rilievo, diffusi e permanenti all’ambiente naturale, indipendentemente dalle motivazioni di carattere militare addotte per giustificare tali azioni. Quello che manca è la volontà politica di applicare quanto previsto dalle convenzioni a tutte le parti in conflitto, vinti e vincitori. Stante l’attuale temperie internazionale, si può ragionevolmente prevedere che nel caso di una nuova guerra contro l’Iraq si avranno gravissime conseguenze per le popolazioni civili e per gli ecosistemi; al perdente verranno addossate tutte le responsabilità, anche quelle dei ‘vincitori’. Non risulta inoltre che sia stato approntato alcun piano per difendere la popolazione dai nefasti effetti ecologici della guerra e per avviare il risanamento ambientale nel dopoguerra. La devastazione è già in corso in tutta la regione e non solo nell’Iraq sottoposto a continui bombardamenti. Infatti le fasi preparatorie del conflitto comportano manovre militari ed esercitazioni in territorio kuwaitiano, turco e giordano, che hanno un impatto ambientale notevolmente negativo: le esercitazioni di tiro, i test di nuove armi, le attività di routine delle basi militari, la presenza in esse di prodotti chimici tossici comportano la dispersione nell’ambiente di carbutanti, solventi, metalli pesanti, pesticidi, PCB, fenoli, acidi, alcali, propellenti ed esplosivi. A tutto ciò si deve aggiungere il consumo elevatissimo di energia non rinnovabile: a titolo di confronto, le forze armate Usa in un anno (non di guerra) inceneriscono una quantità di energia sufficiente ad azionare per 14 anni il sistema dei trasporti di massa degli Stati Uniti (11). La letteratura scientifica ha evidenziato alcuni casi conclamati di gravi conseguenze ambientali e per la salute delle popolazioni correlate con la presenza di poligoni di tiro e di basi e, nel caso delle installazioni Usa all’estero, non esistono leggi statunitensi che impongano il rispetto di norme volte a salvaguardare gli ecosistemi dei paesi che ospitano le installazioni militari americane (12).
Guerra e recessione
William Nordhaus, economista della Yale University, ha ipotizzato in uno studio pubblicato il 6 dicembre 2002 che il costo complessivo di una guerra in Iraq nell’arco di un decennio potrebbe oscillare da 99 a 1.900 miliardi di dollari (ovvero 20.000 dollari per ciascun cittadino statunitense in dieci anni); detratte le stime relative alle conseguenze negative di una cirisi economica, l’onere per le casse dello stato sarebbe, nel peggiore dei casi, pari a 755 miliardi di dollari. La stima più elevata tiene conto dei costi associati a operazioni militari prolungate (mai prese in considerazione dalle stime ufficiali), all’occupazione militare dell’Iraq e alla ricostruzione del paese. Vengono poi computate le perdite economiche associate al rialzo del prezzo del petrolio e ad una quasi inevitabile recessione, sia in Europa (13) che negli Usa, con una diminuzione o una crescita zero del PIL ed un aumento notevole della disoccupazione (14), uno scenario simile a quanto si verificò nel 1991-92. Secondo Nordhaus, sulla scorta di quanto accaduto nei Balcani, un numero di iracheni compreso tra 1.200.000 e 4.800.000 potrebbe avere necessità di assistenza per un periodo oscillante tra i due ed i quattro anni con un costo per persona di 500 dollari l’anno (15); cifra quest’ultima stimata sui dati dei programmi d’assistenza degli anni Novanta e per tale ragione già non completamente attendibile. Altre stime, pur ipotizzando un impegno finanziario meno oneroso, contestano apertamente le previsioni avanzate dall’amministrazione Bush. Gordon Adams, che dal 1993 al 1997 lavorò all’interno dell’Ufficio per il Bilancio della difesa della Casa Bianca, ha calcolato un impegno finanziario complessivo oscillante tra i 127 ed i 682 miliardi di dollari. Gli Usa si troveranno ad affrontare da soli anche gli ingenti investimenti necessari per ripristinare la produzione petrolifera irachena che, come è già stato dichiarato, potrebbe essere ‘sequestrata’ per pagare in parte i costi dell’occupazione militare (16).
Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, ha scritto recentemente che negli Usa “molti dei costi della guerra, se non la gran parte, saranno controbilanciati da tagli di spesa in qualche altra parte. Gli investimenti nell’istruzione, salute, ricerca e ambiente saranno inevitabilmente eliminati. Di conseguenza, la guerra inciderà inequivocabilmente in modo negativo su quello che realmente conta: lo standard di vita della gente comune” (17). I tagli saranno draconiani anche per permettere la realizzazione di quel neoliberismo militare che vorrebbe conciliare la riduzione dell’imposizione fiscale per 695 miliardi di dollari con il forte aumento delle spese militari. I ceti più abbienti della società statunitense, una ristretta minoranza della popolazione, verrebbero così esentati dal fardello del finanziamento della guerra senza fine, mentre la classe media ed i ceti più poveri pagherebbero almeno tre volte: dal punto di vista fiscale, con la stagnazione economica e con la liquidazione dei servizi sociali, sanitari e della istruzione pubblica.
In questo panorama la vecchia speranza di poter conciliare i cannoni con il burro –
uno dei cavalli di battaglia di chi sosteneva la superiorità del modello statunitense rispetto a quello sovietico – non solo è svanita, ma è considerata dai neoconservatori un autentico mistake (errore). Per sostenere i costi crescenti della ‘guerra infinita’ senza aumentare le tasse, una delle proposte avanzate dall’amministrazione Bush è stata quella di tagliare drasticamente i programmi per la pubblica istruzione (18). Tutte le attribuzioni del bilancio federale che non sono correlate con le esigenze della sicurezza, della difesa e della guerra al terrorismo, verranno sottoposte ad un vaglio severissimo, ovvero a riduzioni drastiche (19). In Europa, invece, se si deciderà di andare alla guerra si è già avanzata l’ipotesi che si possano ignorare i limiti imposti alla spesa pubblica degli stati dell’Unione dal Patto di stabilità; è giusto ricordare che quando si tratta di spese per le pensioni, la sanità o la scuola tali limiti sono ‘sacri’.
Nonostante l’applicazione di una simile politica, nessun analista crede che entro il 2005, come dichiarato dall’amministrazione in carica, il previsto disavanzo di 300 miliardi di dollari del bilancio federale possa venire azzerato. Al contrario, si ritiene da più parti che esso aumenterà e farà lievitare il costo del denaro provocando l’ulteriore contrazione degli investimenti, un timore espresso chiramente dallo stesso Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve. La nota teoria secondo la quale l’aumento delle spese militari favorirebbe la ripresa di tutta l’economia, prevenendo o risolvendo positivamente una recessione, oggi lascia molti analisti assai dubbiosi se non apertamente critici. Il meccanismo del keynesismo militare sembra essersi inceppato, messo in discussione dalla trasformazione intervenuta nella gestione delle spese militari (divenuta ‘flessibile’, ovvero ispirata al criterio del just in time (20) e non a certezze cadenzate nel tempo) e nelle caratteristiche politiche e militari dei conflitti odierni. I tempi dell’azione militare diretta oggi si sono contratti, mentre sono diventati ‘infiniti’ quelli nei quali prevale quello stato di né pace-né guerra, incapace di attivare persino il ciclo dell’economia della ricostruzione, che caratterizza l’odierna conflittualità planetaria. Inoltre le guerre vengono combattute ad arsenali già colmati dall’eccesso costante di capacità produttiva delle industrie belliche che vedono nei conflitti un’occasione per svuotare i magazzini piuttosto che opportunità per adottare piani produttivi a lunga scadenza. In una simile realtà il tradizionale concetto di economia di guerra non regge più; d’altronde i problemi del sistema produttivo statunitense sono così profondi e di natura strutturale da indurre a pensare che l’aumento delle spese militari avrà un impatto ‘positivo’ assai limitato. Quasi certamente non attiverà la ripresa degli investimenti produttivi (crollati nel 2000 assieme al mito della new economy) che, al contrario, sarà ostacolata dall’incertezza e dai rischi generati dallo stato di guerra continuo (21). Così come avvenne nel 1991, quando la scelta della guerra riuscì a far ‘dimenticare’ all’opinione pubblica gli esiti catastrofici del collasso del sistema creditizio statunitense seguito ai fallimenti a catena delle casse di risparmio e delle banche di piccole e medie dimensioni, ai nostri giorni dietro i proclami di guerra di Bush si intravvedono la povertà ed il disagio economico crescente per milioni di cittadini e l’ombra dello scandalo Enron e della contabilità ‘creativa’ applicata ai bilanci di molte grandi aziende statunitensi.
2 The Christian Science Monitor, 26 set. 2002; Reuters, 22 set. 2002.
3 New York Times, 6 feb. 2003.
4 Washington Post, 23 set. 2002; “A nation unbuilt: Where did all the money go in Bosnia?”, International Herald Tribune, 18 feb. 2003.
5 Toronto Sun, 22 dic. 2002.
6 “Afghan War Funds Added to Big U.S. Spending Bill”, Reuters, 10 feb. 2003; New York Times, 15 feb. 2003.
7 Inizialmente il personale impiegato (militari Usa e afgani, medici e ingegneri militari) sarà di 100 persone per ogni base, ma si ritiene che il numero degli effettivi possa venire incrementato qualora se ne manifestasse l’esigenza; cfr. Washington Post, 20 dic. 2002.
8 “Toting the Causalities of War”, Newsmaker Q&A, 6 feb. 2003.
9 J.E. Austin e C. E. Bruch, “Epilogue: The Kossovo Conflict: a case study of unresolved issues”, in J.E. Austin e C. E. Bruch (a cura), The Environmental Consequences of War, Cambridge, 2000, pp. 647-664.
10 Gli Usa non hanno ratificato questo protocollo.
11 V.W. Sidel, “The impact of military preparedness and militarism”, in J.E. Austin e C. E. Bruch (a cura), op. cit., p. 441.
12 Cfr. J. Lindasy-Poland e N. Morgan, “Overseas Military Bases and Environment”, in Foreign Policy in Focus (1998), pp. 1-4.
13 I timori per una grave recessione in Europa sono condivisi anche da molti economisti europei; cfr. The Washington Times, 18 feb. 2003.
14 Persino alcune grandi multinazionali statunitensi legate ai mercati del consumo di massa e delle nuove tecnologie civili hanno manifestato forti timori per l’andamento dei loro affari nell’evetualità dello scoppio della guerra; cfr. The Economist, 30 gen. 2003; Mercury News, 10 feb. 2003.
15 L’impegno complessivo oscillerebbe tra 1,2 miliardi e 9,6 miliardi di dollari per la sola assistenza umanitaria di primo livello (cibo, acqua e vestiario).
16 Sole 24 ore, 8 dic. 2002.
17 Corriere della Sera, 17 gen. 2003. A fronte della crescita fuori controllo delle spese militari si prevede che gli incentivi statali agli agricoltori (una parte della società e del mondo produttivo in fortissima crisi) potrebbero aumentare di soli 3,1 miliardi di dollari; solo 1,5 miliardi di dollari verranno probabilmente stanziati per modernizzare il sistema di voto, la cui situazione di sfascio ha fatto sì che nelle elezioni presidenziali del 2000 tra i quattro ed i sei milioni di voti – secondo quanto stimato in un rapporto del Massachusetts Institute of Technology e del California Institute of Technology – non siano stati conteggiati. Infine, il sostegno dello stato ai cittadini per le spese sanitarie potrebbe aumentare di soli 1,5 miliardi di dollari nel bilancio 2003, mentre i fondi straordinari per l’educazione (5 miliardi di dollari) verranno dimezzati, così come i 500 milioni di dollari previsti per gli aiuti alimentari all’Africa, cfr. “Afghan War …” Reuters, 10 feb. 2003.
18 Washington Post, 25 set. 2002.
19 Dichiarazione di Mitchell E. Daniels Jr., direttore dell’Office of Management and Budget della Casa Bianca; cfr. Washington Post, 25 set. 2002.
20 La preparazione dell’attacco all’Iraq, dal punto di vista logistico, ha comportato flussi d’investimento notevoli e commesse da svolgere in tempi rapidissimi per quanto riguarda i trasporti, il vestiario, le razioni di cibo e soprattutto di acqua e carbutante per le truppe; gli stessi criteri operativi sono stati adottati per le centiaia di migliaia di ordinativi, per un ammontare di 6 miliardi di dollari, di materiali non d’armamento commissionati dal Pentagono a partire dal dicembre 2002; cfr. New York Times, 18 gen. 2003.
21 New York Times, 18 gen. 2003.
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