La via italiana al disarmo nucleare
Mai più “nuclear sharing”, bombe in condivisione tra due o più paesi, e via le 90 atomiche dall’Italia. La mozione presentata ieri da Francesco Martone, del Prc, e firmata da altri 28 senatori della sinistra (dissenzienti e no), prova a svelare la violazione della legalità internazionale rappresentata dagli arsenali di Ghedi e Aviano. Il primo, contenuto da una base dell’aeronautica militare italiana, in provincia di Brescia, incastonata tra un aeroporto civile, centri commerciali e centri abitati; l’altro in provincia di Pordenone dentro una più nota base Usa che divora ogni anno pezzi di territorio friulano. Mica sarebbe un’utopia: la Grecia, la Danimarca, il Canada e l’Islanda hanno già detto no senza pregiudicare la propria internità alla Nato. Non così l’Italia che, anzi, col governo Berlusconi, e alla faccia del trattato di non proliferazione, s’è presa in carico le 40 testate di Ghedi nel 2003 quando è stato ridiscusso l’accordo Stone Ax (“Ascia di pace”) con grande soddisfazione dello Zio Sam che ha in mente di mollare i vetusti pachidermi atomici (come quelle di Aviano sarebbero - salvo altri accordi segreti - del tipo B61, ognuna delle quali da 170 chilotoni di potenza massima, 10 volte quella di Hiroshima) in favore del nucleare tattico più maneggevole e indicato per la guerra globale permanente. L’allora ministro Martino provò a negarne l’esistenza, di fronte a un’interrogazione di Elettra Deiana, deputata Prc, salvo poi che un suo sottosegretario si arrampicasse «in formule retoriche di sostanziale ammissione», ricorda Deiana.
La mozione chiede anche la creazione di un meccanismo di verifica indipendente, la pubblicazione di un rapporto sulla radioattività nelle basi, la revisione della dottrina atomica della Nato che, dal ’99, con il “Nuovo concetto strategico” ha sterzato per l’applicazione delle forze nucleari. Tutto ciò in vista del vertice Nato di Riga del novembre prossimo (dove Martone e la deputata Elettra Deiana, membri del comitato parlamentare, proveranno a mettere in rete i loro colleghi disarmisti) e, più in generale, del rilancio del disarmo nucleare in sede Onu con l’ingresso dell’Italia nel Consiglio di sicurezza. Lo smantellamento totale, in realtà è previsto fin dal ’68 dal trattato di non proliferazione ma adesso «indebolito - spiega Martone a Liberazione - da una decisione dell’ultima conferenza di revisione che mette in discussione l’architettura disarmista del Tnp».
Perché inquinano, eccome, le armi atomiche. «Inquinano anche l’atmosfera internazionale: guardate Israele che ce l’ha e intorno a quel paese si scatena la ressa per averne anche loro». Joachim Lau, avvocato tedesco di Ialana, associazione internazionale di giuristi contro le armi nucleari, era anche lui, ieri in Senato, con attivisti del comitato Via le bombe a presentare le iniziative antinucleari (alle quali è stato invitato anche il presidente della Camera, Fausto Bertinotti), ad Aviano, tra il 6 e il 9 agosto, nell’anniversario delle atomiche sul già sconfitto Giappone. In programma un convegno e iniziative simboliche nell’ora esatta in cui le prime due atomiche della storia esplosero su Hiroshima e Nagasaki. «In particolare martedì 8 agosto, una delegazione di cittadini, parlamentari, scienziati e attivisti per i diritti umani proverà un’ispezione popolare alla Base Usaf arrivando dal cancello nord. Un’idea che venne fuori nel ’97 in risposta alle inutili ispezioni che non trovarono mai armi di distruzione di massa nei siti iracheni», dice Tiziano Tissino dei “Beati i costruttori di pace”, una delle anime di “Via le bombe”.
Invece quel tipo di ordigni è certamente in Italia. Almeno 90 delle 480 che l’America del Nord ha seminato in Europa, secondo il noto rapporto del Natural resource defense council (scienziati antinucleari) del 2005. Eppure nel ’96 la Corte internazionale di Giustizia lo disse chiaramente: i governi hanno l’obbligo di impegnarsi in negoziati internazionali che portino a una proibizione totale e globale delle armi nucleari. E l’applicazione delle armi atomiche è un crimine contro l’umanità. Proprio quel parere ha consentito ai giuristi di Ialana di tentare una missione finora impossibile, forti anche di una sentenza della Cassazione che lo consente nel caso di violazioni dello jus cogens (l’insieme di norme che incorporano valori supremi dell’ordinamento giuridico internazionale) : quella che semplici cittadini portino in tribunale straniero uno stato. E’ successo così che cinque pacifisti residenti in provincia di Pordenone abbiano citato il governo degli Usa per le 50 testate nucleari stoccate nella base di Aviano. Il meccanismo è interessante e i giuristi contro la guerra stanno provando a replicarlo rispetto agi 11 porti nucleari della penisola, anche perché la segretezza dei traffici atomici incide sui piani della protezione civile e sulla sicurezza delle popolazioni. Però, la prima udienza, all’inizio di luglio, è stata rinviata per la difficoltà di notificare la citazione allo Zio Sam. La trafila la spiega un altro avvocato, Claudio Giangiacomo: «Funziona così: la procura di Pordenone la spedisce alla Farnesina che la manda all’ambasciata a Washington che, a sua volta, con una nota verbale la trasmette ai ministeri Usa degli esteri e della giustizia. Ci manca l’avvenuta notifica della nota verbale». Ma il successo di questa causa non dipende solo dal giudice o dall’abilità all’uso dei cavilli: «Dipende dal clima che si costruirà intorno a questa ipocrisia nucleare», ricorda l’avvocato Lau. Un sondaggio di Greenpeace, infatti, rivela che più del 70% degli italiani non sa o non crede che le atomiche siano sul loro territorio ma comunque, proprio come pensa rispetto alla guerra, vorrebbe che siano messe fuori dalla storia.
Così entrammo nel club atomico
Era il 3 dicembre del ’60 quando Antonio Segni e l’ambasciatore J. D. Zellerbach firmarono l’accordo per la cooperazione nell’impiego dell’energia atomica a scopo di reciproca difesa che sarebbe entrato in vigore il 24 maggio 1961 per lo scambio di informazioni su piani di difesa atomica, addestramento del personale e valutazione delle possibilità di nemici potenziali nell’uso delle armi e delle altre applicazioni militari dell’energia nucleare. L’accordo, tuttavia, non prevedeva il trasferimento di armi o materiali che invece avvenne. Dal 2003 l’Italia gestisce le 40 bombe di Ghedi. Il testo dell’accordo del ’60: http://www.lcnp.org/disarmament/npt/US-Italyagreement.pdf
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