Industria militare e dividendo di pace
A Pratica di Mare, l'areoporto militare, immortalato dal grande Silvio con colta citazione di Romolo e Remolo, la scorsa settimana si è svolta la Giornata azzurra, manifestazione dell'Aeronautica militare. Il generale Tricarico, capo di stato maggiore dell'arma aerea, ha parlato allora di «tradizionale appuntamento con il volo militare, vera e propria vetrina dei protagonisti del settore» che deve diventare «un ulteriore strumento propulsivo del progresso economico nazionale». Alla vigilia, in occasione della prova generale, lo stesso Tricarico aveva spiegato che «le Frecce Tricolori fanno conoscere nel mondo la nostra industria».
Il generale aveva ragione da vendere; la situazione è proprio questa. L'industria militare, anche in Italia, è una parte decisiva del nostro apparato produttivo e spesso fa da traino alle nostre esportazioni. Da questo punto di vista non fa una grinza la proposta di mettere fine all'embargo europeo sulla vendita di armi alla Cina, fatta ultimamente da Romano Prodi e prima ancora da Carlo Azeglio Ciampi, presidente della repubblica, durante la precedente visita in Cina di una delegazione italiana, capeggiata allora dal ministro degli esteri Gianfranco Fini.
Le Frecce Tricolori fanno vendere e il restante armamentario esprime bene la bravura delle imprese italiane. Non solo, ma molti sono convinti che l'industria militare faccia da traino alla ricerca avanzata e abbia una notevole ricaduta sull'innovazione di prodotto. E si cita una serie di merci che solo la spesa militare a fondo perduto ha fatto decollare.
Una situazione ben conosciuta e che è stata indagata in particolare da uno che di armi e di guerra se ne intendeva, avendone vinta una importante: Ike Eisenhower. Cinquant'anni fa, da presidente degli Usa, parlò di complesso militare-industriale, per indicare l'intreccio di capitali e generali che rende molto più difficile la democrazia e il governo da parte degli eletti del popolo.
L'intuizione di Eisenhower, sull'esistenza di un rapporto molto stretto tra grandi imprese multinazionali e stati maggiori, è raccolta da quasi tutti i politici del mondo, ma capovolta. Non come un invito a difendere la democrazia, la verità e il potere del popolo, per non dire la pace, ma per proteggere un bene nazionale, concorrente di tutti gli altri complessi militari industriali degli altri paesi.
Così esistono grandi industrie, di solito fuori mercato, forti nei confronti del proprio stato maggiore nazionale. Ad esso si presentano per l'acquisto, non contrattabile, beni e servizi di apparati industriali, nati spesso da accordi stretti sotto segreto militare, di cui è buona norma non sapere mai niente. Come è noto, il nemico ti ascolta.
Però, tutte queste armi, questi apparecchiature, queste invenzioni strabilianti, bisogna provarle. Non basta Pratica di Mare e un pugno di Frecce Colorate per mostrare tutti i meriti del complesso militare industriale di un grande paese come l'Italia, un paese armato fino ai denti, con una spesa del 3% di tutta la spesa militare del mondo. Occorre agire, far vedere la mercanzia, commerciare, vendere. E vendere armi ai cinesi, significa non perdere tempo con tanti inutili discorsi di pace e di libertà, di autodecisione, di informazione e di democrazia, ma cominciare a rimuovere quel anacronistico vincolo al commercio delle armi che discende da Tienamen.
Premono le grandi imprese, premono gli stati maggiori, e i politici sono di buon grado d'accordo. E' così comodo e utile vendere armi...si guadagna bene tra l'altro. E il dividendo della pace è tanto piccolo....
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