Armi, l'Europarlamento vuole il Codice
In Somalia si usano armi europee, così fanno Israele e Palestina, così succede in Cina, in Nepal, in India e Pakistan, in Libia o in Sierra Leone e in Liberia, in Iran e in Iraq, tutti paesi in teoria esclusi dalle rotte del commercio europeo perché non rispettano i diritti umani o perché si trovano impegnati in conflitti regionali o interni. Questo dice il Codice di condotta Ue per le esportazioni di armi (e componenti), sottoscritto dagli Stati membri otto anni fa. Ma da allora il Codice è rimasto allo stadio di «pezzo di carta»: non è giuridicamente vincolante per le capitali dei 27 e per i loro ministeri della difesa, incaricati di avallare ogni commessa. Oggi il Parlamento europeo chiederà nuovamente agli Stati membri - a larghissima maggioranza - di trasformare questa semplice dichiarazione politica in un obbligo, in modo da evitare che il materiale bellico europeo finisca nei campi di battaglia o al servizio di sistemi politici repressivi.
Le cifre dell'export Ue nel settore sono eloquenti: nel 2004 sono state vendute armi per 9 miliardi di euro e l'anno seguente per oltre 8 miliardi, un terzo del totale mondiale. «Ma il dato più interessante - insiste Raul Romeva i Rueda, autore della relazione dell'Europarlamento votata oggi - è quello delle autorizzazioni (delle esportazioni avallate dai ministeri della difesa europei e poi magari non realizzatesi o realizzatesi negli anni successivi, ndr) che indica ordini all'industria europea per 25 miliardi di euro nel 2004 e di 26 nel 2005». In sostanza i governi Ue hanno autorizzato molte più esportazioni di quelle realizzate, anche verso quei paesi che dovrebbero apparire in una eventuale lista nera, grazie ad un Codice che esiste solo sulla carta.
Pubblicamente nessuno sa perché la situazione sia bloccata, in realtà è noto che il Codice non è obbligatorio per il patto tra Jacques Chirac e Gerhard Schroeder. Il presidente francese e l'ex cancelliere tedesco si misero d'accordo per dare dignità giuridica al Codice solo in cambio della sospensione dell'embargo imposto alla Cina nel 1989, quando Pechino aveva represso col sangue il movimento sorto in piazza Tian 'Anmen e l'Europa aveva deciso di rispondere imponendo il blocco di alcune sue forniture militari. Ciclicamente, la questione dell'eliminazione del blocco è planata nell'agenda dei ministri degli esteri della Ue, e puntualmente britannici, scandinavi e olandesi si sono opposti. Per questo Parigi e Berlino hanno provato a forzare la situazione legando le due questioni e sostenendo che una volta data una veste legale al Codice non c'è più bisogno dell'embargo.
Romeva ribatte assicurando che si tratta di «due temi ben distinti» e che «questa non può essere una scusa per bloccare il Codice». Angela Merkel ha fatto capire che le due questioni non sono strettamente legate, ma l'Spd continua su questa posizione e così ieri, nel dibattito a Strasburgo, la Presidenza tedesca non ha detto nulla su questo preciso punto. Andando all'osso si tratta di un problema politico. Pechino, infatti, non acquista le armi sotto embargo (si tratta in particolare di quelle antisommossa, che ormai produce, mentre importa armi e componenti a più alto valore tecnologico), ma vuole l'eliminazione del blocco per avere così una sorta di attestato di buona condotta. Parigi e Berlino hanno attivamente lavorato in questa direzione, per ricevere in cambio dalla Cina importanti ordini commerciali (treni ed aerei in particolare), mentre l'Italia non è molto chiara, tanto che nel Parlamento c'è qualche sospetto che pure il governo Prodi possa fare confusione tra embargo e Codice.
Sociale.network