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Vicenza, lavori già inceppati, "Il governo se ne lava le mani"

Sono più di settanta le imprese che aspettano le gare d'appa
3 aprile 2007
Jacopo Jacoboni

E’una partita a scacchi in cui ognuno aspetta che la prima mossa la facciano gli altri. Gli americani aspettano il via libera dal governo italiano, «la nostra speranza è che i lavori per ampliare la base di Vicenza partano entro il 2007»; il governo dice «a questo punto la palla è a loro»; il sindaco spiega «di sicuro il Comune non c’entra». Eppure qualcosa si muove. L’Aim, azienda municipalizzata vicentina, ha posato sottoterra, vicino all’area dell’aeroporto militare Dal Molin, dei cavi per le fibre ottiche: è bastato questo per mobilitare i comitati del No, che hanno forzato un tombino colandoci del cemento per sabotarli. Ma le buche sono ancora aperte, e i cavi perfettamente visibili. Alle 12,40 un furgoncino bianco ne sta giusto scaricando alcuni a metà di via Sant’Antonino, lungo il lato sinistro - rossiccio e un po’ scrostato - dell’aeroporto militare. Il presidio no-base non può presidiare eternamente.

Dopo il rumore, la protesta, l’assedio dei media, che fine ha fatto la base di Vicenza, una di quelle vicende in cui si specializza l’isteria italiana, salvo poi dimenticarsene? «Io non ho fatto partire nulla, non ne ho i poteri; anzi, ho fatto bloccare tutto per sicurezza», assicura il sindaco, Enrico Hüllweck. Il maggiore Ryan Dillon passeggia per i viali e i prati ben tosati di Camp Ederle e confida: «Noi contiamo di cominciare i lavori entro la fine del 2007». La console statunitense a Milano, Deborah Graze, 45 giorni fa era stata più ottimista: «Entro settembre terminiamo le gare d’appalto». Poi è successo qualcosa. Sostiene Hüllweck che «il governo se ne sta lavando le mani per evitare grane, è un teatrino, tutto andrà per le lunghe. Tre leggi parlano inequivocabilmente, la palla ce l’ha Palazzo Chigi». Il quale dovrebbe pur firmare il decreto che sblocca l’ampliamento della base: 73 aziende aspettano impazienti la gara d’appalto americana. Un business da 680 milioni che il Pentagono stanzierà per costruire 700 mila metri cubi di caserme e impianti logistici, 40 milioni per 61 villette a schiera, un albergo, un campo da bowling, più 52 milioni per un ospedale che sarà collegato con quello di Vicenza.

E volete sapere alcune delle aziende in lizza? Il fior fiore delle coop, la Cmc di Ravenna, la Cmr di Ferrara, la Pizzarotti di Parma (che già lavora a Comiso e Sigonella), la Ccc, che sta anche costruendo il Mose a Venezia... Imprese che hanno nei loro consigli un congruo numero degli antiamericani dell’Italia cooperativa, al lavoro per gli americani di Vicenza. Si protesta, come no, ma gli affari sono affari.

Scrutata dal baretto di Pino accanto al supermercato all’interno di Camp Ederle, la vicenda ha del surreale. Entrare nella base - o visitare il Dal Molin - non è così difficile: basta chiederlo. Dentro, questa little America incarnata da 2700 militari più le loro famiglie vive un suo mondo a parte per nulla ansiogeno. Comanda il generale Frank Helmick, ufficio rettangolare in cui campeggia una grande foto col quartier generale dell’esercito americano nel giorno dell’11 settembre. Helmick l’ha promesso, «al Dal Molin non ci saranno carri armati, missili, armi nucleari, aerei spia, non sarà usato come base di partenza per alcun tipo di operazione militare». Tutto attorno è pieno di «american-italians», cioè di americani sposati a italiane.

E’ un mondo da Ufficiale e gentiluomo, ragazzoni aitanti (magari non tutti Richard Gere) e ragazze italiane non meno belle di Debra Winger. Il vecchio Philip Maselli, che è qui da una vita e ha sposato un’italiana, ha aperto la strada. Oggi, consigliere politico di Helmick, dice, con accento del sud: «Qui ci vogliono bene tutti. Il problema vero è che i vicentini temono il traffico a Caldogno». Il sociologo Ilvo Diamanti, che abita qui vicino, l’ha scritto apertamente.

Il maggiore Dillon ha sposato quattro anni fa Cristina: «Arrivavo da West Point, i migliori cadetti indicano quale destinazione preferirebbero, e ovviamente tra Corea, Giappone, Afghanistan, molti scelgono l’Italia...». Si racconta la storia della moglie del caporale Eugene Monegan, da Chicago, che chiamò le figlie Vicenza e Verona. C’è amicizia, scambio; al tourist and information point dentro la base, per dire, lavorano Bea e Cristina. La seconda ha sposato Ryan, la prima un altro ufficiale, e adesso, alle sei di sera, stacca dal lavoro portando per mano la figlioletta bilingue Emma.

Il melting pot vede entrare alla base donne cino-americane, ispanici come Louis Gonzalez, donne nere alla guida di pick up con dentro tre figlioletti, soldati dell’età media di 23 anni come Bob, da Austin, Texas, o studenti come David, i-pod nelle orecchie appena uscito dalla palestra. C’è una radio americana, fm 106, Afn Eagle, manda in onda Nelly Furtado e raccomanda «non bevete alcol se avete meno di 18 anni».

Dall’Università dentro la base - 38 studenti, al momento - sono usciti quattro iscritti ai migliori college e accademie militari americane. Al cinema spopola Michael J. Fox, al campo da basket la foto di Lebron James sta accanto a quella di Diego Maradona. Un bimbetto nero gioca a baseball con la maglia di Totti. L’Italia e l’America, oltre la partita a scacchi base sì-base no.

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