Sull'uranio l'Italia sapeva dal '96
Sapevano, o almeno avrebbero dovuto sapere, fin dal 1996. Le autorità italiane erano state informate sui rischi dell'esposizione alle basse radiazioni per i soldati impegnati in operazioni militari e di peacekeeping ben prima che l'Italia adottasse una linea precauzionale, nel '99. Il 2 agosto del 1996 la Nato inviò al Comando militare dell'alleanza atlantica in Europa (Ace) - dunque anche all'Italia - una direttiva molto dettagliata sulle misure da prendere in casi di rischi da contaminazione per radiazioni. Il documento spiega che le basse radiazioni, causate da raggi alpha, beta e gamma, possono «produrre un rischio a lungo termine per la salute dei soldati» e che «la prima conseguenza delle esposizioni potrebbe essere l'insorgere del cancro anche tempo dopo l'esposizione».
L'Italia adottò solo nel 1999 le norme emanate dalla Forza multilaterale che prevedono l'utilizzo di tute, maschere e occhiali per proteggersi dalle polveri sottili dell'uranio impoverito che - appunto - è tra i materiali che emanano basse radiazioni. Nel '96, anche le forze militari italiane erano impegnate in Bosnia nella missione di pace a guida Nato (su mandato dell'Onu), ma nessuno pensò di fornire ai nostri soldati l'attrezzatura necessaria per proteggersi da contaminazioni pericolose. Il decreto che finanzia la missione italiana è del 19 agosto. Neanche venti giorni dopo la comunicazione della Nato sui rischi per la salute dei militari.
La direttiva è nota da tempo agli addetti ai lavori. Falco Accame, il presidente dell'«Associazione nazionale italiana assistenza vittime arruolate nelle forze armate» lo ha spedito non ricorda più quante volte a tutti gli organi che si sono occupati della vicenda. Nessuno ha mai sembrato farci caso. Ieri il documento è stato pubblicato sul sito GrNews.it, che sta conducendo un'inchiesta sull'uso dell'uranio impoverito e sulla mancanza di precauzioni per proteggere i soldati. L'ultima persona, in ordine di tempo, che ha visionato il documento è il gip di Bari Chiara Civitano che nei giorni scorsi ha respinto la richiesta di archiviare un'inchiesta sull'uranio impoverito. Il giudice ha dato 90 giorni di tempo al pubblico ministero Ciro Angelillis per effettuare ulteriori indagini e capire se la Difesa avesse ottenuto informazioni anche prima del '99. Ma non basta quel documento per capire che, sì, la Difesa e lo Stato maggiore non potevano non sapere? «Non è così semplice, purtroppo», spiega l'avvocato Sandro Putrignano che rappresenta il sindacato Uil. E' stata infatti proprio la Uil nel 2003 a presentare un esposto alla Procura di Bari sull'uso dell'uranio impoverito, a partire dalle segnalazioni degli ambientalisti: gli aerei che partivano dalla base Nato di Gioia del Colle per bombardare la ex Jugoslavia al ritorno si liberavano degli ordigni avanzati sganciandoli nelle acque pugliesi. «In un passaggio dell'ordinanza del gip - spiega Putrignano - si afferma che essendo scritto in inglese, non è certo che il documento sia stato inviato alle autorità italiane».
Se non bastasse il documento del '96 - dove non si cita mai l'uranio impoverito - ne esiste comunque un altro, che risale addirittura all'ottobre del '93. Lo inviò il Pentagono al comando interforze di stanza a Mogadiscio, dove era presente anche l'Italia con la missione «Restore Hope». Anche questo è un prontuario sulle precauzioni da prendere. In questo caso l'oggetto è uno solo: l'uranio impoverito. Altro documento noto da tempo, ma senza scatenare grosse reazioni.
Di cautele simili a quelle adottate dal gip di Bari sono piene le inchieste aperte in Italia sulle contaminazioni da uranio impoverito. I gip sostengono sia molto complicato arrivare a un rinvio a giudizio: sembra difficile individuare un profilo di colpevolezza (cioè: chi è il colpevole?), e su tutto pesa l'incertezza scientifica nel provare cause dirette tra l'esposizione all'uranio e l'insorgenza di forme tumorali. Provare la causa diretta è difficile, ma esistono ormai diverse dichiarazioni di medici che riconoscono anche il contrario, e cioè che non vi è certezza che non vi sia un legame. La questione d'altronde è delicata. Se ci fosse un rinvio a giudizio i militari malati potrebbero chiedere i risarcimenti. Che sarebbero molto più alti di quei (pochi) finora riconosciuti come causa di servizio: 17 mila euro.
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