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Contributo di Manlio Dinucci all’incontro della Rete nazionale “Disarmiamoli”

30 giugno 2007
Manlio Dinucci

Gli avvenimenti successivi all’incontro del 10 febbraio a Bologna confermano che la decisione di costituire la Rete nazionale “Disarmiamoli” è stata tempestiva e fondamentale.
Lo hanno confermato le manifestazioni di Vicenza e di Roma, importanti non solo per la grande partecipazione, ma soprattutto per il fatto che sono state espressione di un movimento contro la guerra libero dai condizionamenti dei giochi politici. A ulteriore conferma c’è il fallimento della manifestazione embedded di Roma e, quindi, del tentativo di scagionare il governo Prodi dalle sue responsabilità.
L’attuale governo, come i precedenti, si è assunto la responsabilità di decisioni le cui conseguenze non sono solo immediate, ma ipotecano pesantemente il nostro futuro.
Tali decisioni sono non atti isolati, legati alla situazione contingente, ma espressione coerente di una ben precisa linea politica.

Con la Finanziaria 2007, la spesa militare italiana è stata portata a oltre 21 miliardi di euro, equivalenti a oltre 27 miliardi di dollari, consolidando il settimo posto mondiale dell’Italia tra i paesi con le maggiori spese militari. Vi sono per di più altre voci di carattere militare nascoste nelle pieghe del bilancio: tra queste, un esborso di circa mezzo miliardo di dollari per la manutenzione delle basi Usa in Italia; un altro, non quantificabile, per i programmi previsti dall’accordo militare italo-israeliano (Legge n. 94 / 2005). Penso sia molto importante continuare a denunciare questa scelta, in quanto essa grava sulla maggioranza dei cittadini, soprattutto su quelli in condizioni più disagiate. Il governo ha appena annunciato con orgoglio di aver destinato nientemeno che 900 milioni di euro per dare ai pensionati più poveri una “una a tantum” di 300 euro. Ma tace sul fatto che, solo per i programmi militari internazionali è stata destinata nel 2007 una somma quasi doppia: 1.700 milioni di euro, cui se ne aggiungeranno altri per un totale di circa 4,5 miliardi in tre anni. Non dal “tesoretto”, ma dal “tesorone” della spesa militare bisogna attingere i fondi necessari ad aumentare le pensioni più basse erose dall’inflazione.

Con il rifinanziamento delle missioni militari all’estero, il governo ha riconfermato l’impegno militare italiano in Afghanistan, nel quadro di una strategia i cui scopi sono sempre più chiari: non la presunta liberazione dell’Afghanistan dai talebani, ma l’occupazione dell’Afghanistan, area di primaria importanza strategica per gli Stati uniti. Per capire il perché basta guardare la carta geografica: l’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Da qui la necessità per gli Stati uniti e della Nato di «pacificare» l’Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio.
Nello stesso quadro rientra la missione militare italiana in Libano. Per capire quale sia il presunto ruolo autonomo dell’Italia e dell’Europa nella missione Unifil, basti pensare che le navi da guerra israeliane pattugliano insieme a quelle italiane le acque libanesi e del Mediterraneo orientale. Cosa ancora più grave è che la squadra navale Nato, della quale fanno parte le navi israeliane, è comandata da un ufficiale italiano. La catena di comando fa comunque capo al Pentagono: la squadra navale dipende dal Joint Force Command Nato di Napoli, agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante delle Forze navali Usa.

Con il nulla osta annunciato nel gennaio 2007, il governo Prodi ha dato luce verde al raddoppio della base Usa di Vicenza. Secondo tale progetto, la base allargata di Vicenza, collegata alle basi Usa di Aviano, Sigonella e Camp Darby, sarà trasformata sempre più in trampolino di lancio delle operazioni militari statunitensi: la Squadra di combattimento, qui acquartierata, è una delle maggiori unità che effettuano la rotazione di truppe per l’Iraq e l’Afghanistan. Contemporaneamente, inviando a rotazione truppe anche nelle basi Usa in Romania e Bulgaria, essa partecipa attivamente ai preparativi di guerra contro l’Iran. Contrariamente a quanto ha affermato Prodi, che «per l'ampliamento di una base militare non si pone certo un problema politico», il progettato raddoppio della base Usa di Vicenza riporta in primo piano il problema politico nodale: la subordinazione dell’Italia alla strategia statunitense. Il progettato raddoppio della base di Vicenza rientra infatti in una ristrutturazione che va ben al di là dell’ambito locale: la ridislocazione di forze e basi statunitensi dall’Europa centrale e settentrionale a quelle meridionale e orientale, in preparazione di nuove guerre. .

Con il memorandum d’intesa, firmato il 7 febbraio 2007 al Pentagono dal sottosegretario per la difesa Giovanni Forcieri, l’Italia si è assunta ulteriori impegni nel programma del caccia statunitense F-35 Lightning (fulmine), guidato dalla Lockheed Martin. E’ il terzo memorandum d’intesa: il primo venne firmato nel 1998, durante il governo D’Alema; il secondo, nel 2002 durante il governo Berlusconi. Un caso esemplare di convergenza bipartisan, che ha portato l’Italia a partecipare come partner di secondo livello alla realizzazione di questo caccia di nuova generazione che, sottolinea il Pentagono, «come un fulmine colpirà il nemico con forza distruttiva e inaspettatamente». Per partecipare al programma, l’Italia si è impegnata a versare un miliardo di dollari. Si aggiunge a questo il costo degli aerei, quantificato da Forcieri in 45-55 milioni di euro per velivolo, per un totale di almeno 11 miliardi di dollari. Le società italiane Avio, Piaggio, Galileo avionica, Oto Melara e altre hanno ottenuto contratti per centinaia di milioni di dollari. Il sottosegretario Forcieri lo presenta dunque come un grande affare per l’Italia. Tace però su un fatto: i miliardi dei contratti per l’F-35 Lightning entreranno nelle casse delle aziende private, mentre i miliardi per lo sviluppo e l’acquisto dei caccia usciranno dalle casse pubbliche.

Con l’accordo quadro firmato segretamente al Pentagono, il 16 febbraio 2007, dal ministro Arturo Parisi, l’Italia è entrata nel programma dello «scudo» anti-missili che gli Usa vogliono estendere all’Europa. L’accordo quadro prevede una serie di accordi specifici che coinvolgeranno nel programma dello «scudo» statunitense non solo le industrie militari italiane, soprattutto quelle del settore aerospaziale, ma anche università e centri di ricerca. L’accordo quadro comporta quindi una ulteriore militarizzazione della ricerca, a scapito di quella civile, sotto la cappa del segreto militare. Comporta un ulteriore aumento della spesa militare italiana. Comporta un ulteriore rafforzamento dei comandi e delle basi statunitensi in Italia, con la conseguenza che il nostro paese diverrà ancor più trampolino di lancio delle operazioni militari statunitensi verso sud e verso est. Comporta ulteriori pericoli per il nostro paese che, per la sua collocazione geografica, costituisce una postazione ottimale in cui installare i missili intercettori: le zone di installazione diverranno di conseguenza bersagli militari, come negli anni ’80 la base di Comiso in cui erano installati i missili nucleari statunitensi. La Russia sta infatti prendendo delle contromisure militari, di fronte al chiaro tentativo statunitense di acquisire, con lo “scudo” in Europa, un ulteriore vantaggio strategico nei suoi confronti.

Siamo dunque di fronte a una coerente linea politica, non di pace ma di guerra, non semplicemente imposta dall’esterno ma espressione di ben precisi interessi di gruppi di potere interni, che il governo Prodi, in continuità con il governo Berlusconi, ha pienamente recepito nel suo programma. In funzione di tali interessi è stato elaborato e messo in atto il nuovo “modello di difesa”. Secondo tale modello, mai discusso in quanto tale in parlamento, compito delle forze armate italiane non è la difesa della patria (art. 52 della Costituzione), ma la «difesa degli interessi vitali del paese». Per tale ragione le forze armate devono operare nelle «aree di interesse nazionale», ossia in quelle zone geografiche «nelle quali e verso le quali è possibile che l’autorità politica decida di intraprendere iniziative, anche di carattere militare, al fine di salvaguardare gli interessi del paese». Al primo posto vi sono le aree di «interesse strategico» che comprendono l’Europa orientale, la regione del Caucaso, l’Africa settentrionale, il Corno d’Africa, il vicino e medio Oriente e il Golfo persico.

Ci aspetta dunque una battaglia sempre più dura e complessa per riaffermare e ristabilire i principi fondamentali della nostra Costituzione. Dal suo esito non dipende solo l’indirizzo di politica estera. Dipende il futuro della nostra società.


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