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Armi, cresce la spesa "militare": l'Italia investe 30 miliardi di dollari

L'appello di Rifondazione. Martone: «Necessario riconvertire l'industria bellica e ridurre le spese militari». Presentato il Ddl a prima firma Deiana per ripartire «con una concreta strategia di pace e non violenza»
11 luglio 2007
Castalda Musacchio
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

La spesa militare? E' in vertiginoso aumento. E purtroppo un passo significativo in tal senso lo ha fatto anche il nostro paese. E' con dati alla mano, redatti da Unimondo sul Rapporto Sipri 2007 (l'istituto di ricerca della pace di Stoccolma), che, ieri, il mondo politico e il movimento pacifista, in un convegno promosso dal gruppo Prc-Se coordinato da Francesco Martone (senatore Rc), ha riaperto a tutti gli effetti un dibattito a tutto campo sul "che fare". Soprattutto in vista della nuova finanziaria che - avverte la rete pacifista - non potrà più contenere come la precedente investimenti lucrosi in un settore, quello degli armamenti, «tutto da riconvertire». E i dati su cui ieri rappresentanti politici e istituzionali, nonché esponenti del variegato mondo dell'associazionismo pacifista si sono confrontati, sono tutti lì a dimostrarlo.
Con un incremento del 3,5% rispetto all'anno precedente le spese militari nel mondo, nel 2006, hanno raggiunto i 1204 miliardi di dollari in valori correnti. Un segnale piuttosto inquietante che indica come la spesa militare sia aumentata nel corso di 10 anni del 37% e registri a livello mondiale nell'ultimo anno un incremento da 173 a 184 dollari pro capite. Al primo posto restano gli Stati Uniti con un budget militare che raggiunge i 538,7 miliardi di dollari e ricopre il 46% dell'intera spesa militare mondiale. Seguono, come ormai da diversi anni, la Gran Bretagna (59,2 miliardi di dollari), la Francia (53,1 miliardi), la Cina (49,5 miliardi), il Giappone (43,7 miliardi), la Germania (37 miliardi).
L'Italia? Scende con 29,9 miliardi di dollari all'ottavo posto nella "triste" graduatoria, scavalcata dalla Russia, ma con una spesa pro capite che sale dai 468 dollari del 2005 ai 514 dollari del 2006, superando per il terzo anno consecutivo la Germania. Per quanto riguarda ancora il commercio internazionale di armamenti convenzionali restano i paesi dell'Unione europea i principali esportatori di armi il cui valore raggiunge nel 2006 la cifra record di 10,5 miliardi di dollari. L'Italia, ancora, in questa classifica, scende al settimo posto rispetto al 2005 ma con ben 860 milioni di dollari di esportazioni militari segna un "record ventennale".
La principale azienda di armamenti italiana ? Resta la Finmeccanica. Anche se a livello mondiale non riesce a competere con la Boeing "made in Usa".
Sta di fatto che è proprio con in mano queste classifiche che si è riaccesa la discussione su quale efficace politica di disarmo occorre portare avanti.
A partire da una lettera indirizzata a Prodi da 50 parlamentari pacifisti con una richiesta netta: invertire la tendenza nelle politiche del Paese, attraverso una serie di misure che possano "realmente" marcare il rafforzamento di una politica estera di pace e di prevenzione dei conflitti. E per fare ciò - scrivono i deputati - un primo passo potrebbe proprio essere l'allocazione di 600 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo. Così come: finanziare il fondo per la riconversione dell'industria bellica previsto dalla legge 185/90 atraverso uno stanziamento iniziale di 50 miloni di euro; escludere i vantaggi del cuneo fiscale per le industrie che operano nel settore bellico e della difesa; rifinanziare, al contrario, il fondo nazionale per il servizio civile, con una allocazione di almento 300 milioni di euro. Ma non basta: perché a prima firma Elettra Deiana (seguono i deputati di Rifondazione, ndr) è stato ripresentato il disegno di legge per la riconversione dell'industria bellica che chiede a gran voce una legge - sottolinea Deiana - «non solo urgente, ma necessaria, tanto sul piano politico nazionale, quanto su quello europeo, quanto ancora sul piano della tutela dei posti di lavoro, in particolare nel Mezzogiorno». Così l'articolo 1 del Ddl prevede l'istituzione di un'agenzia nazionale per la riconversione. Eppure, molto si è fatto. Molto continua a farsi, a livello di iniziative regionali (Liguria, Piemonte, Lombardia e Lazio in prima linea, ma anche il comitato No F35 di Cameri, ndr) e per promuovere una concreta politica di disarmo.
Ieri, il convegno è stato occasione per riannodare il filo di un discorso che è sembrato perdersi in questi ultimi mesi, e proprio tra il movimento pacifista e i rappresentanti politici. Ed è proprio il movimento che è tornato ad incalzare la politica affinché, perlomeno a sinistra, «ci si riappropri di una concreta strategia pacifista per sollecitare questo esecutivo verso una vera politica di non violenza». A chiederlo sono in molti. Tra gli altri Sergio Andreis della rete "Sbilanciamoci", Carlo Cefaloni (Rete Lilliput Lazio), Angelo Gandolfi (campagna ligure per la ricoversione), così ancora Elio Pagani (Disarmo Lombardia) Paola Barassi (Regione Piemonte), Laura Bergami (comitato No F35) nonché Gianni Alioti, della Fim-Cisl internazionale. Anche perché - sottolinea Alioti - ad un aumento degli investimenti per la produzione di armi non corrisponde un incremento di posti di lavoro.
«Rinnoveremo ancora l'appello per la riduzione delle spese militari - sottolinea Martone, primo firmatario del Ddl presentato nei mesi scorsi in materia di riconversione dell'industria bellica - già nella prossima Finanziaria». «I conflitti in corso in diverse parti del mondo - aggiunge il presidente della commissione d'inchiesta sull'uranio, Lidia Menapace - sono il frutto di sconsiderate politiche di esportazioni di armi. Chiediamo dunque - conclude - che il nostro ddl sulla riconversione venga calendarizzato». E al più presto.

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