Forze armate e privatizzate
Tutta la gestione della Difesa passa in mano a una società per azioni. Che spenderà oltre 3
miliardi l'anno agli ordini di La Russa. Così un ministero smette di essere pubblico
Le forze armate italiane smettono di essere gestite dallo Stato e diventano una società per
azioni. Uno scherzo? Un golpe? No: è una legge, che diventerà esecutiva nel giro di poche
settimane. La rivoluzione è nascosta tra i cavilli della Finanziaria, che marcia veloce a colpi di
fiducia soffocando qualunque dibattito parlamentare. Così, in un assordante silenzio, tutte le
spese della Difesa diventeranno un affare privato, nelle mani di un consiglio d'amministrazione e
di dirigenti scelti soltanto dal ministro in carica, senza controllo del Parlamento, senza
trasparenza. La privatizzazione di un intero ministero passa inosservata mentre introduce un
principio senza precedenti. Che pochi parlamentari dell'opposizione leggono chiaramente come la
prova generale di un disegno molto più ampio: lo smantellamento dello Stato. "Ora si comincia
dalla Difesa, poi si potranno applicare le stesse regole alla Sanità, all'Istruzione, alla
Giustizia: non saranno più amministrazione pubblica, ma società d'affari", chiosa il senatore pd
Gianpiero Scanu.
Stiamo parlando di Difesa Servizi Spa, una creatura fortissimamente voluta da Ignazio La Russa e
dal sottosegretario Guido Crosetto: una società per azioni, con le quote interamente in mano al
ministero e otto consiglieri d'amministrazione scelti dal ministro, che avrà anche l'ultima parola
sulla nomina dei dirigenti. Questa holding potrà spendere ogni anno tra i 3 e i 5 miliardi di euro
senza rispondere al Parlamento o ad organismi neutrali. In più si metterà nel portafogli un
patrimonio di immobili 'da valorizzare' pari a 4 miliardi. Sono cifre imponenti, un fatturato da
multinazionale che passa di colpo dalle regole della pubblica amministrazione a quelle del mondo
privato. Ma questa Spa avrà altre prerogative abbastanza singolari. Ed elettrizzanti. Potrà
costruire centrali energetiche d'ogni tipo sfuggendo alle autorizzazioni degli enti locali: dal
nucleare ai termovalorizzatori, nelle basi e nelle caserme privatizzate sarà possibile piazzare di
tutto. Bruciare spazzatura o installare reattori atomici? Signorsì! Segreto militare e interesse
economico si sposeranno, cancellando ogni parere delle comunità e ogni ruolo degli enti locali.
Comuni, province e regioni resteranno fuori dai reticolati con la scritta 'zona militare',
utilizzati in futuro per difendere ricchi business. Infine, la Spa si occuperà di
'sponsorizzazioni'. Altro termine vago. Si useranno caccia, incrociatori e carri armati per fare
pubblicità? Qualunque ditta è pronta a investire per comparire sulle ali delle Frecce Tricolori,
che finora hanno solo propagandato l'immagine della Nazione. Ma ci saranno consigli per gli
acquisti sulle fiancate della nuova portaerei Cavour o sugli stendardi dei reparti che sfilano il
2 giugno in diretta tv?
Lo scippo. Quali saranno i reali poteri della Spa non è chiaro: le regole verranno stabilite da un
decreto di La Russa. Perché dopo oltre un anno di dibattiti, il parto è avvenuto con un raid
notturno che ha inserito cinque articoletti nella Finanziaria. "In diciotto mesi la maggioranza
non ha mai voluto confrontarsi. Noi abbiamo tentato il dialogo fino all'ultimo, loro hanno fatto
un blitz per imporre la riforma", spiega Rosa Villecco Calipari, capogruppo Pd in commissione
Difesa: "I tagli alla Difesa sono un dato oggettivo, dovevano essere la premessa per cercare punti
di convergenza. La tutela dello Stato non può avere differenze politiche, invece la destra ha
tenuto una posizione di scontro fino a questo scippo inserito nella Finanziaria".
Non si capisce nemmeno quanti soldi verranno manovrati dalla holding. Difesa Servizi gestirà tutte
le forniture tranne gli armamenti, che rimarranno nelle competenze degli Stati maggiori. Ma cosa
si intende per armamenti? Di sicuro cannoni, missili, caccia e incrociatori. E gli elicotteri? E i
camion? E i radar e i sistemi elettronici? Quest'ultima voce ormai rappresenta la fetta più
consistente dei bilanci, perché anche il singolo paracadutista si porta addosso una serie di
congegni costosissimi. La definizione di questo confine permetterà anche di capire se questa
privatizzazione può configurare un futuro ancora più inquietante: una sorta di duopolio bellico.
Finmeccanica, holding a controllo statale che ingaggia legioni di ex generali, oggi vende circa il
60 per cento dei sistemi delle forze armate. E a comprarli sarà un'altra spa: due entità
alimentate con soldi pubblici che fanno affari privati. Con burattinai politici che ne scelgono
gli amministratori. All'orizzonte sembra incarnarsi un mostro a due teste che resuscita gli slogan
degli anni Settanta. Ricordate? 'L'imperialismo del complesso industriale-militare'. Un fantasma
che improvvisamente si materializza nell'opera del governo Berlusconi.
Gli immobili. Questa Finanziaria in realtà realizza un altro dei sogni rivoluzionari: l'assalto
alle caserme. È una corsa agli immobili della Difesa per fare cassa, sotto la protezione di una
cortina fumogena. La vera battaglia è quella per espugnare un patrimonio sterminato: edifici che
valgono oro nel centro di Roma, Milano, Bologna, Firenze, Torino, Venezia. Un'altra catena di
fortezze, poligoni, torri e isole in località di grande fascino che va dalle Alpi alla Sicilia. Da
dieci anni si cerca di trovare acquirenti, con scarsi risultati: dei 345 beni ex militari messi
all'asta dal governo Prodi, il Demanio è riuscito a piazzarne solo otto. Adesso, dopo un lungo
braccio di ferro tra La Russa e Tremonti, si sta per scatenare l'attacco finale. Con una sola
certezza: i militari verranno sconfitti, mentre sono molti a pensare che a vincere sarà solo la
speculazione. All'inizio Difesa Servizi doveva occuparsi anche della vendita degli edifici: la
nascente spa a giugno si è presentata alla Borsa immobiliare di Cannes con tanto di brochure per
magnificare il suo catalogo. Qualche perla? L'isola di Palmaria, di fronte a Portovenere, gioiello
del Golfo dei Poeti affacciato sulle scogliere delle Cinque Terre. L'arsenale di Venezia, con ampi
volumi e architetture suggestive, e un castello circondato dalla Laguna. La roccaforte nell'angolo
più bello di Siracusa, pronta a diventare albergo e yacht club. La Macao, un complesso gigantesco
con tanto di eliporto nel cuore di Roma, palazzi a Prati e ai piedi dei Parioli. Aree senza prezzo
in via Monti incastonate nel centro di Milano. Ma il dicastero di Tremonti ha puntato i piedi:
proprietà e vendita restano al Tesoro, che le affiderà a società esterne. Con un doppio benefit,
secondo le valutazioni del Pd, per renderle ancora più appetibili. Chi compra, potrà aumentare la
cubatura di un terzo. E avrà bisogno solo del permesso del Comune: Provincia e Regione vengono
tagliate fuori, aprendo la strada a progetti lampo. Questo banchetto prevede che metà dell'incasso
vada allo Stato; ai municipi andrà dal 20 al 30 per cento; il resto ai militari. Difesa Servizi
però intanto può 'valorizzare' i beni. Come? Non viene precisato. In attesa della cessione, potrà
forse affittarli o darli in concessione come alberghi, uffici o parcheggi.
Intanto però gli appetiti si stanno scatenando. E fette della torta finiscono in pasto alle
amministrazioni amiche. Con giochi di finanza creativa. A Gianni Alemanno per Roma Capitale sono
state concesse caserme per oltre mezzo miliardo di euro. O meglio, il loro valore cash: il Tesoro
anticiperà i quattrini, da recuperare con la vendita degli scrigni di viale Angelico, Castro
Pretorio, via Guido Reni e di un paio di fortezze ottocentesche ormai inglobate dalla metropoli.
Qualcosa di simile potrebbe essere regalato a Letizia Moratti, per lenire il vuoto nelle casse
dell'Expo: un bel pacco dono di camerate e magazzini con vista sul Duomo. "Così le logiche
diventano altre: non c'è più tutela del bene pubblico ma l'esternalizzare fondi e beni pubblici
attraverso norme privatistiche", dichiara Rosa Calipari Villecco, sottolineando l'assenza di
magistrati della Corte dei conti o altre figure di garanzia nella nuova spa. Un anno fa i militari
avevano manifestato insofferenza per questa disfatta edizilia. Il capo di Stato maggiore Vincenzo
Camporini aveva fatto presente che era stato ceduto un tesoro da un miliardo e mezzo di euro senza
"adeguato contraccambio". Oggi, come spiega l'onorevole Calipari, "non si sa nemmeno tra quanti
anni le forze armate riceveranno i profitti delle vendite". Eppure i generali tacciono. Una volta
ai soldati veniva insegnato 'Credere, obbedire, combattere'; adesso il motto della Difesa
privatizzata è 'economicità, efficienza, produttività'. La regola dell'obbedienza è rimasta però
salda. E con i tagli al bilancio imposti da Tremonti - in un trennio oltre 2,5 miliardi in meno -
anche gli spiccioli della nuova holding diventano vitali per tirare avanti e garantire
l'efficienza di missioni ad alto rischio, Afghanistan in testa.
Business con logo. Di sicuro, Difesa Servizi Spa sfrutterà le royalties sui marchi delle forze
armate. Un business ghiotto. Il brand di maggiore successo è quello dell'Aeronautica. Felpe,
t-shirt, giubbotti e persino caschi con il simbolo delle Frecce Tricolori spopolano con un mercato
che non conosce distinzioni d'età e di orientamento politico. Anche l'Esercito si è mosso sulla
scia: sono stati aperti persino negozi monomarca, con zaini e tute che sfoggiano i simboli dei
corpi d'élite. Finora gli Stati maggiori barattavano l'uso degli stemmi con compensazioni in
servizi: restauri di caserme, costruzione di palestre. D'ora in poi, invece, i loghi saranno
venduti a vantaggio della Spa. Questo è l'unico punto chiaro della legge, che introduce sanzioni
per le mimetiche senza licenza commerciale: anche 5 mila euro di multa. "La questione delle
sponsorizzazioni è una foglia di fico per coprire altre vergogne. Tanto più che alla difesa vanno
solo briciole", taglia corto il senatore Scanu. E trasformare il prestigio delle bandiere in
denaro, però, non richiedeva la privatizzazione. La Marina ha appena pubblicato sui giornali un
bando per mettere all'asta lo sfruttamento della sua insegna: si parte da 150 mila euro l'anno.
Con molta trasparenza e senza foraggiare il cda scelto dal ministro di turno.
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