La Francia deve uscire dalla Nato. E l'Italia?
Si può dire che il dibattito che si è aperto in Francia intorno alla NATO è stato abbandonato dal movimento pacifista italiano?
Tuttavia le lotte contro l'installazione del MUOS, la stazione di telecomunicazioni satellitari presso la base militare Usa di contrada Ulmo a Niscemi http://nomuos.org/, e contro la partecipazione al programma statunitense F-35 http://www.noeffe35.org/ , dovrebbero far riflettere circa la nuova dottrina strategica della NATO e il ruolo dell'alleanza atlantica nelle crisi internazionali.
L’installazione del Naval Radio Transmitter Facility (NRTF) Niscemi http://www.globalsecurity.org/military/facility/niscemi.htm mette in discussione gli aspetti giuridici sulle basi statunitensi e NATO in Italia http://leg16.camera.it/561?appro=327 e il progetto F-35 non riguarda solo la partecipazione industriale da parte di paesi NATO e il costo complessivo, ma anche il suo significato politico-militare “Quando si tratterà di condurre operazioni di combattimento reale, il "pool" F-35 della NATO sarà uno degli investimenti più intelligenti di difesa che l'alleanza abbia mai fatto”.
LETTERA APERTA A HUBERT VÉDRINE: La Francia deve uscire dalla Nato
Secondo Hubert Védrine – incaricato dal presidente François Hollande di presentare un bilancio sul rientro della Francia nel comando integrato dell’Organizzazione del trattato del nord Atlantico (Nato) – , tornare sulla decisione del 2009 di Nicolas Sarkozy «non accrescerebbe affatto l’influenza del paese». Régis Debray contesta questa analisi.
di RÉGIS DEBRAY*
Caro Hubert, i pareri offerti da un «gaullista-mitterandiano» – spericolato ossimoro – conosciuto per la sua capacità di smontare i palloni gonfiati, hanno una grande importanza. Così come anche il tuo rapporto sul ritorno della Francia nell’Organizzazione del trattato del nord Atlantico (Nato), richiesto nel 2012 dal presidente François Hollande, fiducioso – e chi non lo sarebbe? – nella tua competenza e nella tua esperienza. Poiché il baccano mediatico è inversamente proporzionale all’importanza dell’argomento, non bisogna stupirsi della relativa discrezione di cui è stato circondato. I problemi della difesa non smuovono l’opinione pubblica, e il posto della Francia nel mondo raccoglie un interesse minore rispetto a Baby e Nepal, gli elefanti malati di tubercolosi dello zoo di Lione. Finché una battaglia di Austerlitz non arriva a riempirci di orgoglio… come nel caso dell’eroica avanzata nel deserto del Mali che, senza troppi morti né colpi d’arma da fuoco, ha relegato nelle montagne i gruppi nomadi di odiosi jihadisti. Pur insegnandomi molto, questo rapporto mi ha lasciato perplesso. Indirettamente, tu concedi una liberatoria a Nicolas Sarkozy, con una sorta di sì ma, per aver fatto ritorno all’ovile atlantico. Mossa che tu non avresti approvato all’epoca, ma che risulta ora più difficile da rimettere in discussione che non da rinnovare. Nell’Unione europea, nessuno ci seguirebbe. Starebbe quindi alla Francia riprendere fermamente l’inziativa, per non rischiare la «normalizzazione e l’appiattimento del ruolo» del paese. Ecco perché ho sentito l’impulso di proseguire con te un dialogo interrotto nel maggio 1981, quando ci siamo ritrovati all’Eliseo in due uffici vicini e, per fortuna, comunicanti (1). Il sistema piramidale sarebbe diventato un forum senza obblighi troppo gravosi, un campo di manovra in cui ogni membro ha le proprie possibilità, ammesso che sappia alzare la voce. Insomma, questa Nato indebolita non meriterebbe più il biasimo di una volta. Da lontano, la giudicavo più in salute di così. Notevolmente estesa. Dodici paesi nel 1949, ventotto nel 2013 (per novecentodieci milioni di abitanti). Il pastore ha raddoppiato le sue greggi. Quella che era un’alleanza atlantica, la ritroviamo in Iraq, nel Golfo, al largo della Somalia, in Asia centrale, in Libia (dove si è assunta la responsabilità degli attacchi aerei). Militare all’origine, è diventata politico-militare. Era difensiva, ma ecco che, privata di nemici, passa all’offensiva. Ai tuoi occhi, è forse stato il nuovo benign neglect degli Stati uniti a stravolgere la situazione. Un’inversione di rotta da parte di Washington, verso il Pacifico, con Pechino e non più Mosca come avversario-partner. Un generale cambio di direzione. Da cui derivano i giochi scenici alla Marivaux: X ama Y, che ama Z. L’Europa innamorata fissa lo sguardo verso l’americano che, affascinato, volge il suo verso l’Asia. Il Vecchio continente ha l’aria intelligente, ma non è tipico del cornuto preoccuparsi troppo. Chiede solo qualche attenzione. Noi, francesi, dovremmo ritenerci soddisfatti di alcuni posti onorifici o tecnici negli stati maggiori – a Norfolk (Stati uniti), a Mons (Belgio) –, di vaghe speranze di contratti per la nostra industria e di qualche centinaio di ufficiali nelle strutture, nelle riunioni e alle numerose feste mondane. La relazione transatlantica ha le proprie dinamiche. Se è evidente il declino relativo della potenza americana nel sistema internazionale, il nostro sembra esser avvenuto ancora più rapidamente. La Nato non è più quella del 1966 (2)? Forse, ma neanche la Francia. I nostri compatrioti sono già abbastanza demoralizzati e sembra meglio risparmiargli la crudeltà di un prima e un dopo in termini di potenza, di influenza internazionale e di indipendenza di percorso («indipendenza», il leitmotiv di ieri, ormai spodestato da «democrazia»). Impiego, servizi pubblici, esercito, industria, francofonia, indice delle traduzioni, grandi progetti: le cifre sono note, ma passiamo oltre. In dimensioni e volume, il rapporto rimane invariato, di uno a cinque. In termini di dinamismo e di vitalità, è diventato di uno a dieci. Una nazione normalizzata e preoccupata Stati uniti: una nazione convinta della sua eccezionalità, dove la bandiera a stelle e strisce viene issata ogni mattina nelle scuole e appuntata sul risvolto delle giacche, e il cui presidente proclama forte e chiaro un unico scopo: ristabilire la leadership mondiale del suo paese. Forte di una rivoluzione informatica nata sotto la sua bandiera e che parla la sua lingua, centro del nuovo ecosistema digitale, grazie alle sue imprese, non ha intenzione di abbassare le sue prestese. Probabilmente, con i suoi latinos e i suoi asiatici, si può parlare di un paese post-europeo in un mondo post-occidentale, ma, pur non essendo più solo sulla scena, con metà delle spese militari del mondo a suo carico, può comunque andare a testa alta. E mettere in pratica la sua nuova dottrina: leading from behind («dirigere senza mostrarsi»). Francia: una nazione normalizzata e preoccupata, i cui prestigiosi pilastri – stato, repubblica, giustizia, esercito, università, scuola – sono stati svuotati dall’interno come quei nobili edifici diroccati di cui non rimane altro che la facciata. In cui la deregulation liberista ha rosicchiato le basi della potenza pubblica che era la nostra forza. In cui il presidente deve srotolare il tappeto rosso davanti all’amministratore delegato di Google, soggetto privato che un tempo sarebbe stato ricevuto da un sottosegretario. Sbalorditiva diminutio capitis (3). Abbiamo salvato il nostro cinema, per fortuna, ma per il resto, la sovranità… Il francese del 1963 (4), se era di sinistra, poteva sperare in un domani felice; se era di destra, si considerava, e non a torto, il perno della costruzione europea, forte delle sue case della cultura e dalla bomba termonucleare. Quello del 2013 non crede in niente e in nessuno, si cosparge il capo di cenere e teme il suo vicino quanto se stesso. Il suo futuro lo angoscia e si vergogna del suo passato. Cupo il francese medio, eh? È la resilienza che dovrebbe stupire: nessun suicidio collettivo, questo è già un miracolo. Sarebbe indispensabile conservare una capacità propria di riflessione e di previsione. Quando il nostro ministro della difesa invoca, per spiegare l’intervento in Mali, la «lotta contro il terrrorismo internazionale», assurdità che ha perso credito anche oltre oceano, è giocoforza constatare uno stato di fagocitosi acuta seppur ritardata. Gettare nel calderone del «terrorismo» (modalità d’azione universale) i salafiti wahhabiti a cui diamo la caccia in Mali, corteggiamo in Arabia saudita e soccorriamo in Siria porta a chiedersi se, a forza di essere interoperabili, non diventeremo invece interimbecilli. La sfida che tu lanci – agire dall’interno – esige sia delle capacità sia una volontà. 1. Per dimostrare «capacità rivendicativa, vigilanza e influenza», servono degli strumenti finanziari e dei think tank competitivi. Ma soprattutto c’è bisogno di menti originali, oltre ad altre fonti di ispirazione e luoghi di incontro diversi dal Center for strategic and international studies (Csis) di Washington o l’International institute for strategic studies (Iiss) di Londra. Dove sono finiti gli omologhi dei responsabili della strategia nucleare francese, dei generali Charles Ailleret, André Beaufre, Pierre Marie Gallois o Lucien Poirier? Questi strateghi indipendenti, se esistono, sembrano avere delle difficoltà nel manifestarsi. 2. È necessaria una volontà. In alcuni casi può trarre vantaggio dalla noncuranza generale, che non ha solo aspetti negativi. A partire dal 1954, ha permesso a Pierre Mendès France e ai suoi successori di lanciare e proseguire di nascosto la fabbricazione di una forza d’urto nucleare. Ora, l’attuale democrazia di opinione porta in prima linea, destra o sinistra, degli uomini-barometro più sensibili della media alle pressioni atmosferiche. Si governa in maniera improvvisata, con l’ultimo sondaggio come bussola e la mente rivolta alle elezioni circoscrizionali. Venire alle mani nel deserto con pezzenti isolati e privati di uno stato-santuario, con in palio un bagno di folla: una gloriosa cavalcata come se ne sono concesse tutti i nostri presidenti, a partire da Georges Pompidou (con un aumento del gradimento garantito). Invece, contrastare la prima potenza economica, finanziaria, militare e mediatica del mondo sarebbe come prendere il toro per le corna, e non è nelle abitudini della casa. La fede nel diritto e nella bontà degli uomini non porta alla virtu, ma conduce regolarmente all’obbedienza alla legge del più forte. Il socialista del 2013 si affida al Dipartimento di stato tanto spontaneamente quanto il socialista del 1936 al Foreign office. L’atteggiamento è consolidato. Wikileaks ci ha svelato che, poco dopo la seconda guerra in Iraq, l’attuale ministro dell’economia e delle finanze, Pierre Moscovici, allora incaricato delle relazioni internazionali per il Partito socialista, era andato a rassicurare i rappresentanti della Nato sui buoni propositi del suo partito verso gli Stati uniti, giurando che, se avesse vinto le elezioni, non si sarebbe comportato come un Jacques Chirac. Il 24 ottobre 2005, Michel Rocard aveva già manifestato all’ambasciatore americano a Parigi la sua collera per il discorso di Dominique de Villepin all’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) nel 2003, precisando che lui, da presidente, sarebbe rimasto in silenzio (5). Chiedere all’ex-«sinistra americana» di protestare è una scommessa azzardata. Napoleone, nel 1813, non ha chiesto ai suoi sassoni di riprendere posizione sotto il fuoco della mitraglia. Nel dna dei nostri amici socialisti, c’è un gene coloniale e un gene atlantista. Nessuno è perfetto. Certo si può sfuggire alla genetica, ma alla propria generazione? Conosciamo il valore delle sue prove. François Mitterrand e Gaston Defferre, Pierre Joxe e Jean-Pierre Chevènement avevano fatto l’esperienza della guerra, della Resistenza, dell’Algeria. L’Amgot (6), Robert Murphy (7) a Vichy e gli sgambetti di Franklin Delano Roosevelt ronzavano ancora nella testa, insieme all’immagine dello sbarco e dei liberatori del 1944. L’attuale generazione ha la memoria corta e non ha mai preso uno schiaffone. Cresciuta in una bolla, ora attraversa la via con l’obbligo di sorridere. Quelli che buttano tutto all’aria non sono mai stati simpatici a nessuno. Ogni volta che la Francia si è posta come «piantagrane mondiale», si è inimicata tutto quel che conta, dai grandi proprietari, agli alti funzionari, fino alla stampa (si legga a pag. 9 «I lobbisti di Washington»). Lo slancio che tu raccomandi provocherebbe immediate tensioni negli apparati dello stato e nelle abitudini, con ammissioni pubbliche da parte dei malpensanti, che verrebbero tacciati di follia o di fellonia (i nuovi cani da guardia sono meglio inseriti dei vecchi). È un concetto che fa a pugni con il principio dell’«uscirne indenne» che detta legge in un contesto in cui ogni «anamericano» è considerato antiamericano. Tanto più che «gli americani prendono come un insulto il nostro rifiuto di essere i loro satelliti» (ancora de Gaulle). Specialmente quando il rapporto di forza è smorzato dalla distensione, dalla confidenza e dalle pacche sulle spalle. Un’integrazione che non ha niente di reciproco «Chiarire, tu dici, il nostro concetto di Alleanza»? Certo è che quel che è concepito nella chiarezza viene anche espresso chiaramente. Tu parli chiaro, con fatti e cifre, ma in un mondo che parla il politichese, melassa di eufemismi in cui le tecnostrutture atlantica e di Bruxelles, con i loro cosiddetti esperti, ci impantanano. Prendiamo ad esempio il comando integrato: è il caso di un leader che integra gli altri ma preserva la propria piena e completa libertà. L’integrazione non ha niente di reciproco. Così, gli Stati uniti si attribuiscono il diritto di spiare (corrompendo, intercettando, ascoltando, disinformando) gli alleati che invece se ne guardano bene; i suoi soldati e i suoi ufficiali non renderanno mai conto davanti a quella giustizia internazionale a cui invece sono sottoposti gli alleati, mentre le nostre compagnie aeree sono tenute a consegnare le informazioni sui propri passeggeri alle autorità americane che non accetterebbero mai di farlo a loro volta. Così, qualsiasi stereotipo ha bisogno di una traduzione. «Dare il proprio contributo allo sforzo comune»: fornire i soldati richiesti in zone di conflitto scelte da altri. «Eliminare inutili duplicazioni nei programmi di equipaggiamento»: europei, comprate le nostre armi e i nostri equipaggiamenti, non sviluppate i vostri. Siamo noi a fissare gli standard. «Meglio dividere il fardello»: finanziare i sistemi di comunicazione e controllo concepiti e fabbricati dalla madrepatria. «L’Unione europea, un partner strategico con un ruolo insostituibile agli occhi dell’amministrazione americana» – mentre l’ipopotenza europea non è un partner, ma un cliente e uno strumento dell’iperpotenza. C’è una sola, e non due, catena di comando nella Nato. Il comando supremo delle forze alleate in Europa (Saceur) è americano; e americana è la presidente del gruppo di riflessione sulle prospettive (Madeleine Albright, ex ministra degli affari esteri). Questa neolingua appiccicosa non è degna di una diplomazia francese che, da Chateaubriand a Romain Gary, aveva il culto della parola esatta e il gusto per la letteratura, ossia per l’arte di chiamare le cose con il loro nome. La prima fase di un’azione rivolta verso l’esterno è la parola. La formula che risveglia. La parola cruda. De Gaulle e Mitterrand la esercitavano allegramente. Tu hai conosciuto il secondo da vicino. E il primo, in privato e poi in pubblico dal 1965, vedeva la Nato come protettorato, egemonia, tutela, subordinazione. «Alleato, non allineato» vuole innanzitutto dire: recuperare la propria lingua, la propria strada e i propri valori. «Sicurezza» affiancata a «difesa», feticismo tecnologico e aspirazione al dominio del mondo (di origine teologica) stridono con la nostra personalità laica e repubblicana. Perché quindi la sinistra al governo dovrebbe portare avanti quei principi condannati quand’era all’opposizione? Per quanto mi riguarda, mi limito a ricordare la valutazione di Gabriel Robin, ambasciatore di Francia, nostro rappresentante permanente alla Nato e al Consiglio del nord Atlantico dal 1987 al 1993, che cito: «La Nato inquina il paesaggio internazionale in tutte le sue dimensioni. Complica la costruzione dell’Europa. Complica i rapporti con l’Osce [Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa] (ma non è la cosa più importante). Complica i rapporti con la Russia, fatto per niente trascurabile. Complica anche il funzionamento del sistema internazionale perché, incapace di firmare una convenzione che rinunci al diritto di servirsi della forza, la Nato non si conforma al diritto internazionale. Il non ricorso alla forza è impossibile alla Nato, costituita appositamente per ricorrere alla forza quando lo giudichi necessario. Del resto se n’è servita, senza consultare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Di conseguenza, non capisco bene cosa un paese come la Francia possa aspettarsi dalla Nato, organizzazione inutile e nociva, se non che scompaia (8)». Inutile perché anacronistica. Nell’epoca in cui ogni grande paese fa i suoi interessi (come, per esempio, nelle conferenze sul clima), in cui si affermano e si esasperano orgogli religiosi e identità culturali, non è tanto questione di costruire l’avvenire, quanto di arruolarsi. All’ordine del giorno troviamo coalizioni ad hoc, cooperazioni bilaterali, accomodamenti pratici, e non un mondo bicromo e manicheo. La Nato è una struttura sopravvissuta a un’era passata. Le guerre classiche tra stati tendono a sparire per lasciare il posto a conflitti non convenzionali, senza dichiarazioni di guerra né linee di fronte. Mentre le potenze del sud si liberano dall’egemonia intellettuale e strategica del nord (Brasile, Sudafrica, Argentina, Cina, India), noi voltiamo le spalle all’evoluzione del mondo. Perché nociva? Perché deresponsabilizzante e anestetizzante. Tre volte nociva. Innanzitutto, all’Onu e al rispetto del diritto internazionale, perché la Nato volge a proprio profitto, aggira o ignora le risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Nociva alla Francia, di cui tende ad annullare i vantaggi comparativi duramente conquistati, inducendola con ogni forma di automatismo a far propri dei nemici che non sono mai stati i nostri, riducendo la nostra libertà di parlare direttamente con tutti, senza veto esterno, demolendo il capitale di simpatia che ci eravamo assicurati in molti paesi del sud. Siamo fieri di aver ottenuto dichiarazioni vincolanti sul mantenimento della dissuasione nucleare accanto alla difesa antimissile balistica il cui utilizzo, in realtà, non può che sminuire la dissuasione del debole nei confronti del forte, di cui noi possediamo gli strumenti e la padronanza. Ma forse ci convinceranno che noi viviamo, a Parigi, Londra e Berlino, sotto la terribile minaccia dell’Iran e della Corea del nord… Infine nociva a qualsiasi progetto di Europa-potenza, di cui la Nato ratifica l’addio alle armi, la riduzione del bilancio per la difesa e il restringimento degli orizzonti. Se l’Europa vuole avere un futuro, dovrà imboccare un’altra strada rispetto a quella che la costringe nel suo statuto di dominion (lo stato indipendente la cui politica estera e la cui difesa dipendono da una capitale straniera). Possiamo capire come questo sia un bene per l’Europa centrale e balcanica (la nostra America dell’est), perché fra due fratelli maggiori si preferisce il più lontano, per non rimanere soli di fronte alla Russia; ma perché dimenticare che ogni stato ha una politica corrispondente alla propria geografia e che noi non abbiamo la stessa dei nostri amici? La «famiglia occidentale», una mistificazione L’idea di rientrare nei ranghi per consolidare una difesa europea – la grande teoria del regno precedente – testimonia una curiosa propensione per la quadratura dei cerchi. Nove europei su dieci hanno come strategia l’assenza di una strategia. Non ci sono più soldi e nessuno vuole più rischiare la propria pelle (abbiamo già dato). Da cui lo scherzo di un «pilastro europeo» o di uno «stato maggiore europeo all’interno della Nato». Il solo stato idoneo a siglare accordi coerenti con la Francia, il Regno unito, li sottopone all’approvazione di Washington; e, tra l’altro, ha abbandonato il progetto di una portaerei comune. L’Alleanza atlantica non supplisce alla debolezza dell’Unione europea (la sua «politica di sicurezza e di difesa comune»), al contrario, la alimenta e la accentua. Aspettando Godot, i nostri giovani e brillanti diplomatici migrano verso un «servizio diplomatico europeo» che, pur dotato di ingenti mezzi, deve fare i conti con una missione sovrumana: farsi carico dell’azione esterna di un’Unione priva di posizioni comuni, di un esercito, di ambizioni e di ideali. Sotto l’egida di una non personalità. Quanto al linguaggio dell’«influenza», ritroviamo i toni da IV Repubblica. «Chi accetta di diventare una pedina non sopporta di definirsi pedina» (ancora una volta de Gaulle, all’epoca). Assicurano di essere influenti, o che lo saranno in futuro. Produrre degli effetti senza disporre delle cause è proprio del pensiero magico. Influire vuol dire pesare su una decisione. Quando mai noi abbiamo inciso su una decisione americana? Che io sappia, Barack Obama non ha mai consultato le nostre influenti autorità nazionali prima di approvare un cambiamento di strategia o di tattica in Afghanistan, con cui noi non avevamo niente a che fare. Lui decide, noi mettiamo in pratica. Dal momento che il posto del brillante secondo è ovviamente occupato dal Regno unito e il terzo dalla Germania, nonostante l’assenza di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza, noi saremo quindi il suggeritore n° 4 del nostro alleato n° 1 (e effettivamente in Afghanistan con il nostro contingente eravamo il quarto paese contribuente). Parlare, in queste condizioni, di «influenza di primo piano all’interno dell’Alleanza» è come cantar vittoria nascosti sotto il tavolo. È da molto tempo che ci muoviamo nell’ombra, mi dirai, e Sarkozy non ha fatto che perfezionare un distacco cominciato dai suoi predecessori. Certo, ma coronando simbolicamente quell’atto con una frase del genere: «Raggiungiamo la nostra famiglia occidentale». Non è una novità tentare di mascherare un campo chiuso di rivalità o un sistema di dominazione come una famiglia. Vecchia mistificazione che credevamo appannaggio della «grande famiglia degli stati socialisti». Da qui l’interesse ad avere diverse famiglie naturali ed elettive, per compensare l’una con l’altra. Sentimentalmente, appartengo alla famiglia francofona, e sento le stesse, se non maggiori, affinità con un algerino, un marocchino, un vietnamita o un malgascio che non con un albanese, un danese o un turco (tutti e tre membri della Nato). Culturalmente, appartengo alla famiglia latina (mediterranea e sudamericana). Filosoficamente, alla famiglia umana. Perché dovrei limitarmi in una sola di queste? Perché tirar fuori dalla naftalina una nozione cara alla cultura ultraconservatrice (Oswald Spengler, Henri Massis, Maurice Bardèche, i sicari dell’Occidente [9]), che del resto neanche figura nel trattato del nord Atlantico del 1949, né compare quasi mai negli scritti di de Gaulle e non ricordo di aver mai sentito uscire dalla bocca di Mitterrand? In realtà, se l’Occidente deve identificarsi agli occhi del mondo con l’impero americano, raccoglierà odio più che amore, e susciterà più disprezzo che rispetto. Spetterà poi alla Francia impegnarsi per animare un altro Occidente, dargli un volto diverso da Guantanamo, dai droni sui villaggi, dalla pena di morte e dall’arroganza. Rinunciare, significa al contempo compromettere il futuro di quel che l’Occidente ha di migliore e ricredersi sul proprio passato. Insomma, ci siamo lasciati sfuggire un’occasione. Ma in fondo, perché andare su tutte le furie? È anche possibile che la metamorfosi dell’ex «grande nazione» in «bella provincia» verso cui ci stiamo dirigendo – senza volgere lo sguardo al Quebéc, ahimé, dove gli stage di formazione sarebbero i benvenuti – si riveli infine utile per la nostra felicità e la nostra prosperità. Di cosa ci lamentiamo? Intervenire manu militari nell’ex Sudan [Mali], senza una seria collaborazione europea, con un aiuto tecnico americano (i cui satelliti di osservazione militare, contrariamente ai nostri, non sono localizzabili e tracciabili su internet), per un paese decisamente modesto (1% della popolazione e 3% del prodotto interno lordo del pianeta), non è forse sufficiente per l’amor proprio nazionale? Cosa chiedere di più, al di là di un rapido ritiro delle nostre truppe prima di ritrovarsi insabbiati? Comprendo che un discepolo di Raymond Aron, l’ex avvocato della «forza d’urto» e riferimento della scuola euroatlantica, apprezzi come un bel gesto verso il nostro vecchio alleato il fatto di accostarsi alla sua bandiera in un brutto momento. Questo riconoscimento di gratitudine, dopo il 1917 e il 1944, ha fatto girare la testa a un figlio della televisione e di John Wayne fiero di poter far jogging nelle strade di Manhattan con una tee-shirt Nypd. Passando a un altro livello, e sulle orme di Hegel, è pur possibile che l’americanizzazione dei modi di vivere e di pensare (rullo compressore che non ha bisogno della Nato per continuare la sua corsa) sia solo l’altro nome di un percorso in avanti dell’individuo iniziato con l’avvento del cristianesimo. Quindi, un’estensione del campo della dolcezza, una buona notizia per le minoranze e dissidenze di qualsiasi forma, sessuali, religiose, etniche e culturali. Una tappa in più nel processo di civilizzazione, come passaggio dal grezzo al raffinato, dalla rarità all’abbondanza, dal gruppo alla persona, merita che localmente ci si ricreda sulla vanagloria. Quel che può rimanere di una visione epica della storia, non dovremmo seppellirlo in fretta per vivere felici nel XXI secolo della nostra era e non nel XIX? Verdun, Stalingrado, Hiroshima… Algeri, Hanoi, Caracas… Milioni di morti, indicibili sofferenze, a che scopo? Mi capita di pensare che la nostra indifferenza al futuro collettivo, il ritiro nella sfera privata, la nostra lenta uscita di scena non siano solo un vile sollievo ma anche l’avverarsi della profezia di Saint-Just, «la felicità è un’idea nuova in Europa». Perciò, c’è più senso e dignità nelle lotte per la qualità dell’aria, per l’uguaglianza dei diritti tra omo ed etero, per la salvaguardia degli spazi verdi e per le ricerche sul cancro che in sciocche e vane dispute per il primato in un teatrino delle ombre. Venere dopo Marte. Venere superiore a Marte? Dopo tutto, se la donna è il futuro dell’uomo, la femminilizzazione dei valori e dei costumi che così ben caratterizzerà l’Europa di oggi agli occhi degli storici di domani è una buona notizia. Sotto questa rubrica verranno inseriti, oltre alle belle vittorie del femminismo e della parità, il declino del nome del padre nella trasmissione del nome di famiglia, la sostituzione del militare con l’umanitario, dell’eroe con la vittima, della convinzione con la compassione, del chirurgo sociale con l’infermiere, del cure con il care tanto caro a Martine Aubry. Addio falce e martello, buongiorno pinzette e compresse. «Non è con la scuola, non è con lo sport che abbiamo un problema, è con l’amore». Così parlava non Zarathustra ma Sarkozy, a Montpellier, il 3 maggio 2007. Nietzsche avrebbe urlato, ma Ibn Khaldun l’avrebbe tirato per la manica. Tu sai che, nel suo Discours sur l’histoire universelle, questo perspicace filosofo arabo (1332-1406) osserva come gli stati vedano la luce grazie alle virtù virili e scompaiano con il loro abbandono. Ci sbaglieremmo a interpretarlo come puritanesimo da beduino, è piuttosto una descrizione interessante dell’entropia delle civiltà. «Come il baco fila la sua seta, poi giunge alla fine rimanendo impigliato nei suoi fili…» Un Ibn Khaldun forse si interesserebbe al talento degli Stati uniti d’America nel frenare il processo e ritardare la fine. Grazie alle loro tecnologie e alle loro immagini, mentre varcano il confine che dischiude l’iperindividualismo e la concentrazione sulla propria isola felice, essi continuano a preservare anche i vantaggi e i tormenti della virilità: culto delle armi, gas di scisto, schiacciante bilancio militare, massacri nelle scuole, patriottismo esacerbato. Fallocrati e sovranisti per quel che li riguarda, ma sostenitori in altri momenti di quel che potrebbe chiamarsi femminilizzazione dei quadri e dei valori. Piattaforme di trivellazione per loro, eoliche per noi. Da qui un’Europa più ecologica e pacifica e paradossalmente meno tradizionalista della stessa America. Mentre la nostra letteratura e il nostro cinema coltivano l’intimo, il loro coltiva l’affresco storico e sociale. Steven Spielberg innalza una statua a Lincoln, la Central intelligence agency (Cia) ci fa venire le lacrime agli occhi con i suoi agenti – parlo di Argo. OSS 117, con Jean Dujardin, che fa piangere, ma dal ridere. Insomma, se il problema è Hegel, e la soluzione Bouddha, le mie obiezioni vanno in fumo. Non lo escludo a priori. Ma è un altro discorso. Nell’attesa, sono felice di saperti a disposizione della Repubblica e, per parte mia, mi rallegro, in quanto spettatore fuori dai giochi, di tornare ai miei cari studi. Senza rapporto con l’attualità, mi preservano dal malumore. Ognuno ha le sue difese. Cordiali saluti
note:
* Scrittore e filosofo. Ultimo saggio pubblicato, Modernes Catacombes, Gallimard, coll. «Blanche», Parigi, 2013.
(1) Nel 1981, Régis Debray ottiene un incarico alle relazioni internazionali al fianco del presidente François Mitterrand. Lo stesso anno Hubert Védrine è nominato consigliere nella cellula diplomatica dell’Eliseo. (Le note sono della redazione)
(2) Nel 1966, la Francia annuncia il suo ritiro dal comando integrato della Nato.
(3) Nel diritto romano, riduzione della capacità civile che può portare alla perdita della libertà e della cittadinanza.
(4) Nel 1963, il generale de Gaulle si oppone all’ingresso del Regno unito nella Comunità economica europea (Cee), considerandolo troppo vicino agli Stati uniti (nei confronti dei quali il presidente francese sottolinea l’autonomia della difesa nucleare nazionale).
(5) Le Monde, 2 dicembre 2010.
(6) L’Allied military government of occupied territories (Amgot), o governo militare dei territori occupati, pilotato da ufficiali americani e britannici, aveva il compito di amministrare i territori liberati nel corso della seconda guerra mondiale.
(7) Incaricato d’affari americano presso il regime di Vichy (1940-1944).
(8) «Sicurezza europea: Nato, Osce, patto di sicurezza», convegno della fondazione Res publica, 30 marzo 2009.
(9) Rispettivamente: filosofo tedesco, autore del saggio Il tramonto dell’Occidente (1918), associato alla «rivoluzione conservatrice» tedesca; saggista e critico letterario francese che ha partecipato al regime di Vichy; scrittore francese, sostenitore della collaborazione, che ha denunciato la Resistenza perché «illegale»; e gruppuscolo francese di estrema destra (tra i suoi membri Patrick Devedjian, Gérard Longuet e Alain Madelin). (Traduzione di A.C.) Una risposta di Hubert Védrine sarà pubblicata sul prossimo numero.
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