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I moderni cani da guerra

L'esercito dei civili armati a contratto attivi oggi sul terreno iracheno
20mila persone Seconda solo a quello di Usa e Regno unito, l'armata di uomini ingaggiati da queste società in Iraq è imponente. Molti sono assunti «al nero»
23 aprile 2004
Franco Pantarelli
Fonte: Il Manifesto
Paul Christopher è un esperto di etica militare, che insegnava all'accademia di West Point. Un lavoro un po' singolare, ma quello che svolge ora è ancora più strano, oltre che meglio retribuito: è stato assunto da una compagnia americana che spedisce in Iraq quelli che vengono pudicamente chiamati «civili armati», nella speranza che con la sua esperienza si mettano insieme alcune direttive precise di comportamento per orientare coloro coinvolti ogni giorno nel caos creato dall'enorme ondata di civili armati che hanno invaso il paese al seguito dei «liberatori». Un compito difficilissimo, quello del professor Christopher, che tuttavia la compagnia in questione, il cui nome è Custer Battles, ha deciso di affidargli perché altrimenti «non ci pensa nessuno». Il numero di questi signori piombati in Iraq, secondo le stime più ricorrenti, è di ventimila, il loro status non è chiaro, i loro compiti lo sono ancora meno e il loro costo è stimato finora sui 4 miliardi e mezzo di dollari, che poi sarebbe la quarta parte dei 18 miliardi presi dal bilancio del Pentagono per la «ricostruzione» dell'Iraq. La loro provenienza abbraccia i paesi più disparati: ci sono gurka del Nepal, soldati un tempo al servizio del governo sudafricano quando c'era l'apartheid e come abbiamo visto anche alcuni italiani, in genere attratti dalla paga commisurata al rischio, cioè alta.

In qualche misura l'impiego di questi civili armati in Iraq era scontato perché in omaggio alle teorie di Donald Rumsfeld sul corpo di spedizione «leggero» era necessario liberare i soldati dai compiti «non strettamente militari», categoria in cui Rumsfeld ha messo attività come quella di proteggere il proconsole Paul Bremer e altri personaggi importanti; quella di scortare convogli nelle zone ostili; quella di difendere postazioni-chiave. Una specie di «privatizzazione forzata» di incombenze da sempre svolte dai militari, che oltre a soddisfare le idee di Rumsfeld andava anche incontro alla voglia di risparmiare. All'inizio, infatti, il costo previsto non andava oltre il 10% di quei 18 miliardi di dollari. Poi però la situazione ha cominciato a peggiorare, la «domanda» di guardie private è cresciuta e gli sforzi per soddisfarla hanno provocato allo stesso tempo un'impennata dei costi e una caduta verticale della «qualità». È infatti accaduto che alle compagnie «tradizionali» se ne sono aggiunte di nuove, create in tutta fretta e senza tanti scrupoli, in una specie di corsa a piazzare la merce oggi più richiesta in Iraq: la protezione. Così, ecco che a fianco di un'organizzazione come la Steele Foundation che poche settimane fa ha rinunciato a un contratto di 18 milioni di dollari perché il potenziale cliente voleva lo spiegamento di una forza di protezione in due giorni e il suo responsabile, Kenn Kurtz, non era in grado di trovare in così poco tempo abbastanza persone «qualificate», ci sono compagnie come quella, rimasta anonima, che si è lanciata a capofitto su quel contratto mandando in Iraq, dice Kurtz, «carne da macello».

E qui si arriva al dato più impressionante di questa «guerra ufficiosa» che si sta combattendo a latere in Iraq: il numero di morti fra i «civili armati». Finora, i soli di cui si sia parlato sono stati i quattro americani uccisi e mutilati in un'imboscata due settimane fa e l'italiano Fabrizio Quattrocchi. Ma le cifre reali sono diverse e chi le cerca scopre con una certa sorpresa che si trovano al ministero del lavoro, dove c'è un dipartimento che si occupa di liquidare i compensi per morte o ferimento dei dipendenti delle compagnie che operano in zone di guerra in base a contratti con il Pentagono. Nel corso del 2003, dicono i funzionari di quel dipartimento, sono state «trattate» 94 morti e 1.164 ferimenti. E come termine di paragone danno i dati del 2001 e 2002 messi insieme: 10 morti e 843 ferimenti. L'unica cosa che non forniscono è la suddivisione per paese in cui tutta quella gente l'anno scorso ha trovato la morte o da cui è tornata menomata, ma non hanno difficoltà a indicare che la «stragrande maggioranza» di quelle 94 morti del 2003 è avvenuta in Iraq. C'è però da aggiungere, uno, che di sicuro quel numero nel frattempo è stato ampiamente superato dagli avvenimenti successivi e, due, che anche le 94 morti del 2003 potrebbero nasconderne un numero molto maggiore perché molti di quelli che partono per questa «guerra per soldi» sono spesso assunti «al nero» e le loro morti o ferimenti rischiano di non essere né «compensati» né conteggiati.

La formula che viene seguita è quella dei «contratti individuali» che loro stipulano con una compagnia che ha avuto l'appalto da un'altra compagnia più grande, la quale a sua volta ha avuto il suo appalto dalla compagnia «primaria», che è l'unica direttamente in contatto con il Pentagono. Un espediente perché molta gente possa fare soldi mettendo a frutto le proprie «conoscenze», ma anche un sistema in cui molti «contrattisti individuali» finiscono semplicemente per «non risultare».

Questa situazione nuova creata in Iraq, con un numero di «civili armati» che ne fa praticamente il terzo contingente più grande dopo quello americano e quello inglese, pone anche altri problemi, per esempio quello delle regole che i «civili armati» devono seguire; quello dei loro diritti e doveri e quello dei loro rapporti con i soldati «normali». La regola apparentemente semplice che più o meno esiste è che loro sono lì per difendere e non per attaccare, se non vogliono rischiare di finire sotto processo come «combattenti illegali». Ma chi dovrebbe vigilare sul rispetto di quella norma, il Pentagono, è praticamente impossibilitato perfino a impartirla, smarrito com'è nella catena di appalti e subappalti che non gli consente nemmeno di sapere quanti sono i «civili armati». E poi in una situazione di guerriglia le parti dell'attaccante e del difensore non sono sempre nettissime. Se per esempio, com'è capitato, un gruppo di «civili armati» a difesa di un edificio si trova assediato dal fuoco dei ribelli che lo attaccano, l'unico modo per uscirne è chiamare rinforzi che a loro volta attacchino i loro assedianti. Ma i loro colleghi non possono farlo perche è contro la legge e se chiamano i militari per essere «salvati», quelli semplicemente non rispondono, come è accaduto due settimane fa, è stato raccontato al New York Times, quando una compagnia ucraina si è ben guadata dal rispondere all'appello di un gruppo di «civili armati» asserragliati su un tetto.

Il rifiuto del Pentagono di coordinare l'azione dei militari con quella dei «civili armati» si capisce: a parte le accuse di aumentare surrettiziamente le truppe che gli pioverebbero subito addosso, c'è anche il rischio di creare forti frizioni fra i soldati che guadagnano 1.300 dollari al mese e quella gente che una cifra del genere se la mette in tasca in pochi giorni. Conclusione: la situazione non viene affrontata, nella speranza che presto il pantano creato si asciughi.

E le compagnie cercano di arrangiarsi come possono. C'è chi, come la Armor Group, che si è dotata di un elicottero per supplire alle mancate risposte degli Apache quando li si chiama; chi come la compagnia dall'interminale nome di Special Operations Consulting-Security Management Group, si è dotata di una propria intelligence nella speranza di prevenire gli attacchi attraverso le «soffiate» e chi come, come si diceva all'inizio, si rivolge al professore di West Point per insegnare ai suoi uomini come fare a «difendersi senza attaccare».


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