L’indeterminatezza dell’industria militare italiana fra politica estera e di difesa
Articolo diviso in due parti: L’indeterminatezza dell’industria militare italiana fra politica estera e di difesa e L’INDUSTRIA DELLA DIFESA E SICUREZZA ITALIANA: dal governo politico al governo della fabbrica prima parte: Il giorno dopo la presentazione del Piano Industriale 2018-2022 di Leonardo (ex Finmeccanica) Alessandro Profumo, nuovo Amministratore Delegato dell’azienda attiva nei settori dell'Aerospazio, Difesa e Sicurezza (AD&S), sottolineava le difficoltà che avevano influito sulla performance del 2017 per cui si dovevano intraprendere azioni in termini di cambiamento dell’organizzazione, dei processi e delle persone. “Abbiamo resettato le attese”, con questo commento Profumo rispondeva indirettamente alla gestione disgregatrice di intere fasi produttive, operata da Mauro Moretti operata per favorire il dividendo dei soci. Il nuovo Piano Industriale provocò una brusca reazione del mercato e le critiche negative di analisti internazionali dovute essenzialmente, secondo Giuseppe Berta, docente di Storia dell’economia alla Bocconi, “dall’assenza di una visione strategica che spieghi dove voglia arrivare la più importante holding finanziaria italiana a fine piano, in vista degli anni Venti del secolo. E così si ha la sensazione di assistere alla prosecuzione di una transizione infinita, senza un obiettivo ambizioso, che pure dovrebbe essere alla portata di un’azienda leader. Insomma, viene fuori una strategia difensiva mentre gli altri corrono. Ma così si rischia di finir relegati in un ruolo subalterno: un conto è cooperare con i partner, altro è ridursi a fare il gregario”. Giudizio tanto più grave, se si pensa che riguarda una realtà industriale sostenuta finanziariamente dallo Stato che procede, tra l’altro, all’acquisizione di armamenti svolgendo una attività che ha un forte valore strategico nel campo della politica di difesa e sicurezza, estera, commerciale, tecnologica e industriale. Se ne deduce che la base industriale della Difesa dovrebbe essere sostenuta da un’impostazione sistemica che tenga conto delle relazioni italiane nel contesto internazionale. La decisione italiana di scegliere la NATO come suo principale riferimento politico-difensivo e solo in subordine l’integrazione europea, ha nel ministro Lorenzo Guerini un fedele sostenitore. Per il ministro la Nato non solo deve restare il punto di riferimento fondamentale della sicurezza europea, ma addirittura l’Europa della difesa non può avere una sua visione autonoma e indipendente. L’Italia non ha mai messo in discussione i concetti base dell’Alleanza Atlantica, neanche quando paesi europei pensavano di ridiscutere il nesso fra disarmo e presenza di armi nucleari americane in Europa. Dal documento “Le armi nucleari non strategiche degli USA in Europa”, che rappresenta la prova più evidente del collegamento strutturale tra la sicurezza europea a quella americana, così come il progetto americano di difesa anti-missile, emerge che l’Italia non rientra tra i paesi che hanno sollecitato un riesame delle politiche nucleari dell'Alleanza. Ne consegue che, sebbene la costruzione di una Difesa europea sia sempre stata sostenuta dall’Italia, la partecipazione al progetto statunitense F-35 ha sigillato, non solo a livello simbolico, la sua subalternità rispetto agli USA e alla NATO. Con il governo sovranista Lega-M5S, la politica tendenzialmente antieuropeista si è mostrata velocemente con l’annullamento della bozza del “Trattato del Quirinale”. Il trattato avrebbe dovuto sancire una cooperazione bilaterale rafforzata fra Francia e Italia, e una presa di posizione contro l’atteggiamento aggressivo di Trump verso l’Europa (in particolare contro la Germania). E’ in questa ottica che il ministro della Difesa Trenta decide di non aderire alla creazione della forza militare d’intervento European Intervention Initiative (E2I nata per volontà francese) e al progetto del caccia FCAS franco-tedesco-spagnolo, limitandosi a prendere atto della rinnovata intesa fra Francia e Germania con il trattato di Aquisgrana. Nel patto del gennaio 2019 i due Stati ribadiscono l’unione di interessi in materia di sicurezza, e l’impegno a sviluppare una comune cultura della difesa attraverso una cooperazione sempre più stretta nel campo dell’industria della difesa. A ottobre i due paesi si sono incontrati per mettere a punto non solo il programma del nuovo caccia, piattaforma, sistemi di sistemi, propulsione, drone e simulazione, ma anche del nuovo carro armato e le nuove regole sull’export di armamenti. L'accordo sull’export di armamenti sviluppati congiuntamente aveva subito ritardi per via della politica più restrittiva della Germania. Un esempio è quello dello stop delle vendite militari all’Arabia Saudita dopo la denuncia del coinvolgimento dell’industria bellica tedesca nel conflitto yemenita, che ha già causato 140mila morti tra i bambini sotto i 5 anni (233mila in tutto) secondo l'Undp. A peggiorare la situazione vi era stato l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi per mano saudita. Nell’articolo apparso sull’Internazionale “Le armi francesi usate in Yemen svelano un’ambiguità diffusa” si riportano le rivelazioni del sito d’inchiesta francese Disclose sull’utilizzo di armi francesi nella guerra in Yemen: ”l’argomento è anche al centro di un contenzioso tra Parigi e Berlino, perché la Germania, per rispettare l’accordo di coalizione interno, blocca le esportazioni francesi di equipaggiamenti che comprendono componenti tedesche”. L’embargo infatti non riguarda soltanto gli armamenti prodotti in Germania ma anche quelli realizzati all’estero con la presenza di componentistica tedesca. Infatti la decisione aveva allarmato non solo l’inglese BAE Systems che guida il consorzio Eurofighter nella maxi vendita a Riad di 48 velivoli, ma la tedesca Rheinmentall per via del contratto di 90 veicoli da 120 milioni di euro e la sua filiale italiana RWM che produce le bombe per la guerra nello Yemen acquistate dai sauditi. A giugno, il governo britannico aveva sospeso nuove autorizzazioni di export ai Paesi coinvolti nella guerra in Yemen, dopo che una sentenza della Corte d'appello di Londra aveva dichiarato illegale la procedura per il mancato controllo del governo alla luce delle violazioni del diritto internazionale commesse da Riyadh in passato. Stando però al giudice Sir Terence Etherton il governo “non ha fatto alcuna valutazione conclusiva sul fatto che la coalizione guidata dai sauditi avesse commesso violazioni del diritto internazionale umanitario in passato, durante il conflitto dello Yemen” e, in ogni caso, “la decisione odierna della corte non significa che le licenze all’export verso l’Arabia Saudita debbano essere sospese immediatamente”. In Italia RWM, dopo lo stop del governo all’esportazione di bombe verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti nel mese di luglio, sospende l’esportazione e dichiara 160 esuberi. Come sempre accaduto in questi casi, sindacati, Confindustria e azienda hanno fatto lobby affinché Rwm fosse riconosciuta come azienda strategica per l’Italia. Cosicché la società conferma gli investimenti a prescindere dal blocco su alcune licenze. Di altro tenore e coraggio sono stati invece i portuali di Genova che a maggio hanno bloccato un carico di bombe Rwm, da utilizzare nella guerra in Yemen, che doveva essere imbarcato sulla nave saudita Bahri Yanbu. I lavoratori avevano annunciato che avrebbero impedito il carico perché contrasta con i valori di pace. Le autorità, colte di sorpresa dalla grande risonanza nonché dalla mobilitazione in corso, riconoscono che qualora si fosse trattato di armi per l’Arabia, allora il rifiuto dei portuali sarebbe diventato legittimo. Alessandro Profumo, ad di Leonardo, in disaccordo con la Germania, esprimeva una preoccupazione sul “rischio di fratturare la creazione di un sistema di difesa europeo”. Il senatore Matteo Salvini si spinge oltre e afferma: “Quanto al disarmo, non è utile, sarebbe un suicidio economico, e poi il settore difesa è strategico per i prossimi cinquant’anni. Un Paese disarmato è un Paese occupato e occupabile”. Francia e Germania raggiungono un accordo per cui la Germania tutela il diritto di controllo sulle autorizzazioni di vendita, che prima non aveva, se la percentuale di componenti nazionali supera il 20%. Condizione equivalente per la Francia. Un altro accordo riguarda la continuazione di progetti congiunti di aeromobili e carri armati da combattimento, in sostituzione dei carri armati Rafale e Leclerc e Leopard. Siamo quindi in presenza di questioni di difesa bilaterali che potrebbero significare la volontà di una costruzione della difesa europea tramite una integrazione differenziata. Questa operazione però deve tenere conto di tre elementi fondamentali: un diverso atteggiamento dei vari paesi all’interno della NATO, il deterrente nucleare francese che può essere visto più come affare nazionale che europeo e, infine, gli alleati europei potrebbero vedere i due paesi non come un “blocco” con cui cooperare, di conseguenza trattenere rapporti diversi con Parigi e Berlino. Sebbene si sia parlato a ragione di tensioni nel rapporto bilaterale fra Francia e Italia, il 14 giugno 2019 a bordo della Fremm Martinengo (una delle 10 fregate multiruolo realizzate in collaborazione) a la Spezia, è stata firmata l’intesa militare tra il gruppo italiano Fincantieri e l’azienda francese Naval Group oggi Naviris. L’accordo prevede la costituzione di una joint-venture paritetica con sede a Genova che si occuperà di coordinare ricerca, innovazione e procurement. Il centro di ricerca si troverà a Ollioules dans le Var, nei pressi di Tolone. In questo caso il governo gialloverde ha deciso di non esercitare il golden power, così come richiesto dall’amministratore delegato Giuseppe Bono, ma con la raccomandazione di tutelare il know how italiano. Anche per quanto riguarda il ruolo di Leonardo e Thales, rimaste fuori dalla joint venture, il governo ha raccomandato che nel rapporto biennale del gruppo vi sia il rendiconto sulla ripartizione dei carichi di lavoro qualitativi e quantitativi tra le due Società ed i rispettivi fornitori principali. Nel giugno 2019 alla fiera aerospaziale di Parigi Le Bourget, il ministro Elisabetta Trenta sigla con la collega francese Florence Parly (che a sua volta ha annunciato che la Francia continuerà ad armarsi nel settore spaziale militare) un accordo bilaterale per lo sviluppo di una rete congiunta di satelliti da sorveglianza e ricognizione, il cui scopo è il controllo delle zone a rischio del Mediterraneo e dell’Europa. Trenta, soddisfatta per lo sblocco annunciato dal MISE di Di Maio di 7,2 miliardi, dichiara che le scelte strategiche per la Difesa non sono solo industriali ma anche geopolitiche perché hanno una ricaduta sui rapporti tra i Paesi. Detto questo, dopo un incontro bilaterale con il suo omologo del Regno Unito Ben Wallace a margine della ministeriale Ue, sigla l’adesione italiana al progetto inglese del nuovo caccia Tempest. Nel frattempo Matteo Salvini affermava che gli accordi sottoscritti tra Italia e Stati Uniti per la fornitura dei velivoli militari F-35, "non si possono più rimandare". Così l’Italia si armerà di 90 caccia F-35 e dei nuovi Tempest da affiancare agli Eurofighter 2000 Typhoon, Tornado ECR e IDS, AMX Ghibli, RQ-1B Predator, Harrier II, Gulfstream G550 CAEW, Beechcraft King Air 350 (in leasing), P-72A, General Atomics MQ-9 Reaper, M-346 e MB-339, M-345, SF-260, Piaggio P180 Avanti, Boeing KC-767, Lockheed Martin C-130J Super Hercules, Alenia C-27J Spartan, Airbus A319CJ. I sovranisti, che criticano l’integrazione europea perché la considera uno strumento per neutralizzare la capacità protettiva degli Stati, perdono ogni (ingannevole) orgoglio nazionalista davanti ai voleri di Washington e alle posizioni di manager industriali. Si possono elencare, come primo esempio, i caccia F-35 e le basi militari USA, come secondo, l’accordo italo-francese di Fincantieri circa il rischio di cessione di tecnologia italiana ai francesi. Giuseppe Bono, Amministratore delegato di Fincantieri, sottolineò con forza che “Qui non ci sono tecnologie, il punto è fare. Sono vent’anni che lavoriamo con i francesi. Nella difesa poi ci sono solo società europee”. Tuttavia il concetto di tecnologia sovrana è un argomento ritenuto fondamentale dal Libro Bianco della Difesa del 2015. Consiste nel distinguere tra tecnologie “sovrane”, che l’Italia deve mantenere e sviluppare autonomamente, e quelle “cooperative”, su cui investire e condividere insieme ai partner europei. Il carattere strategico di queste capacità esige di mantenere su di esse un certo livello di sovranità, e assicurare che lo sviluppo e la produzione avvengano all’interno del Paese a prescindere dalle collaborazioni internazionali e dagli assetti proprietari. Nell’incontro del 2019 fra il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, l’ambasciatore italiano a Washington Armando Varricchio, quello americano Lewis Eisenberg a Roma, Leonardo e altre grandi industrie italiane, Lockheed Martin, Boeing, Google e General Electric, Eisenberg e Giorgetti hanno espresso soddisfazione per la svolta atlantista di Leonardo visto che lavora sempre più in sinergia con gli Stati Uniti, Canada e Regno Unito ma anche Israele, Polonia e Giappone (tutti paesi schierati con gli USA e tutti hanno acquistato gli F-35). Anche Carlo Pelanda, analista esperto in geoeconomia, sostiene la costruzione di consorzi con aziende americane concorrenti con quelle franco-tedesche. La partecipazione ai consorzi europei già esistenti si dovrebbero mantenere per non perdere troppo mercato, mentre per il settore spaziale auspica apertamente un trattato bilaterale tra Italia e USA per sottrarsi alla dominazione “predatoria” francese. La lista degli “atlantisti” si allunga con Aiad (Federazione Aziende Italiane per l'Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) che, insieme al segretariato generale della Difesa e direzione nazionale armamenti generale Nicolò Falsaperna, si è mossa per rafforzare la sponda statunitense per “presentare i prodotti italiani che possano servire agli Stati Uniti per implementare le loro tecnologie” come richiesto dal programma Foreign comparative testing (Fct) del dipartimento della Difesa americana. Il programma è utilizzato dagli Usa per capire se ci sono nel mondo tecnologie utili ai progetti che si intende sviluppare. Questa furbata delle aziende americane, d'altronde Trump è l’emblema dell’opportunismo affaristico nella gestione delle relazioni internazionali così come della legalità, fa il paio con l’affermazione che “Il settore difesa americano spera sempre di riuscire prima o poi a far parte del sistema difesa Italia”. C’è da crederci, visto che l’Italia è brava nel metterci i soldi degli italiani e la bravura dei lavoratori avendone in cambio poco più di nulla. Infatti, aggiunge la fonte americana che vuole rimanere anonima, “servirebbero certezze di disponibilità fondi fra Difesa, Mise e Mef che al momento non vediamo”. L’adesione dell’Italia al progetto americano F-35 (il caccia più costoso che si sia mai conosciuto e pieno di problemi di sviluppo e di efficacia non da ultimo il sistema ALIS) ha avuto il sì prima da Prodi, poi da D’Alema e poi da Berlusconi. I tre presidenti del consiglio sapevano perfettamente che il caccia serviva a spaccare il mercato dei velivoli caccia, l’indipendenza tecnologica e le capacità competitive europee, e infine significava rinunciare ad avere la sovranità piena sul proprio sistema d’arma, avvallando in sostanza una sudditanza tecnologica. Senza contare che questi aerei sofisticati e costosissimi hanno bisogno di molto denaro fra aggiornamenti, manutenzione, operatività. Con quale denaro? Un’ora di volo degli F-35 costa 42,169mila dollari e anche se arriverà a 30mila dollari come taluni affermano, è sempre una cifra esorbitante. Quanto guadagna in media un lavoratore italiano in un anno? Uno studio condotto da P Salary Outlook rivela che con una retribuzione media pari a 29.601 euro, l’Italia si posiziona al 9° posto su 17 nella classifica dei salari in Europa, sotto la Francia e sopra la Spagna. E infine, quanto sarà costata l’esercitazione svolta sulla base israeliana di Ovda che ha visto in volo otto F-35A italiani per due settimane insieme alle forze israeliane, greche, statunitensi e tedesche? Fra l’altro si ritiene un successo che i diversi F-35 abbiano potuto operare congiuntamente visto che vi è una segretezza nelle informazioni. Meno male che l’F-35 sia stato presentato come il sistema dei sistemi, campione di integrazione ed interoperabilità. La Corte dei conti europea ha stimato che “se l’Europa dovesse difendersi da sola senza assistenza esterna, per sopperire alla carenza in termini di capacità sarebbero necessarie parecchie centinaia di miliardi di euro”. Di fatto l’adesione alla Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd) significa non solo creazione di capacità militari per effettuare operazioni all’estero, ma integrazione del mercato e dell'industria della difesa in Europa. Attualmente non esiste una vera integrazione fra gli Stati membri e le istituzioni dell’Ue in politica estera e sicurezza, e non c’è un esercito europeo in quanto la difesa continua ad essere una prerogativa nazionale. Tedeschi e italiani sono più ‘atlantisti’, i francesi ‘autonomisti’. Al vertice della NATO di Londra si è parlato molto del premier Macron che ha definito la Nato “in stato di morte cerebrale”: l’instabilità del partner americano, che per la prima volta non condivide l’idea del progetto europeo, significa che “l’Europa deve diventare autonoma in termini di strategia e capacità militari” e deve riaprire un dialogo strategico con la Russia. Tuttavia l’asse franco-tedesco, basato su di un forte riarmo della Germania (rispetto al 2018 ha aumentato di 5 miliardi di euro il budget sino a 47,32 miliardi di euro mentre nel 2020 prevede un ulteriore aumento a 49,67 miliardi di euro) è stato visto come il rischio di una Europa sempre più squilibrata e frammentata e non più bilanciata dalla Gran Bretagna. L’Italia, da parte sua, ha mostrato una sua incapacità a svolgere un ruolo in Europa e nello spazio geopolitico Mediterraneo, sebbene la sua sicurezza sia stata definita centrale per i suoi interessi nazionali. E’ illusorio per l’Italia pensare di ricevere un aiuto dagli USA perché la politica estera ed economica del presidente Trump ha nel business, e nella vendita di armi in particolare, uno dei punti fondamentali. In tal senso si sono proposte in “Vendite di armi negli Stati Uniti. Proposta tematica 2019-2020” modifiche proposte da Trump. In “Arming the world: Inside Trump's 'Buy American' drive to expand weapons exports”, Reuters racconta che “Nelle telefonate private e nelle apparizioni pubbliche con i leader mondiali, hanno detto gli analisti, Trump agisce come venditore per l'industria della difesa degli Stati Uniti, cosa che nessun altro presidente ha fatto”. Per il Presidente americano diplomazia e geopolitica seguono le stesse regole del business e per facilitare la vendita di armi emana il “National Security Presidential Memorandum Regarding U.S. Conventional Arms Transfer Policy”. In sostanza è pronto a svendere diritti umani e alleanze pur di arricchire l’industria bellica statunitense. E’ risibile per l’Italia gioire per il centro dedicato al monitoraggio delle dinamiche di sicurezza in Medio Oriente, Africa Settentrionale e Subsahariana aperto a Napoli. Il NATO Strategic Direction South Hub fa parte della strategia dell’inganno della NATO, deve “ricostruire Stati falliti” e lo fa con le bombe. Sono proprio le basi militari della NATO a creare apprensioni nelle popolazioni interessate, come nel caso di Sigonella (dove è appena arrivato il primo dei cinque 5 droni del programma Alliance Ground Surveillance) o del Muos di Niscemi. A fine dicembre il ministro attuale della Difesa Lorenzo Guerini ha dovuto smentire la voce che le testate nucleari “non verranno spostate dalla Turchia alla base statunitense di Aviano, in provincia di Pordenone” dopo che il generale Usa aveva dichiarato a Bloomberg che nella base americana del Friuli sarebbero arrivate le 50 bombe atomiche ora conservate in Turchia. Nell’articolo di Alberto Negri “Perché l’Italia non ha una politica estera” il giornalista si domanda “Perché come Paese contiamo poco o niente? Una delle risposte è venuta questa settimana nella stretta di mano tra Putin ed Erdogan all’inaugurazione del Turkish Stream, il simbolo del fallimento della nostra politica estera nel Mediterraneo e in Libia. Quel gasdotto con il nome di South Stream doveva costruirlo l’italiana Saipem non Erdogan ma fu bloccato da Europa e Stati Uniti per sanzionare la Russia sull’Ucraina”. Ma il giudizio più duro e inequivocabile è alla fine quello più ovvio: finché vi è una amorfa adesione ai tracciati prescritti dagli Usa e dalle altre potenze europee nostre concorrenti non c’è spazio per una seria politica estera. Lorenzo Guerini diviene ministro della Difesa il 5 Settembre 2019 e nel suo primo intervento pubblico chiarisce: “È necessario uscire dall’ipocrisia che ha caratterizzato sempre il dibattito intorno alla Difesa e abbiamo bisogno di entrare dentro una condivisione chiara, precisa e veritiera”. E quale sarebbe la condivisione veritiera è precisa? Le minacce sono ibride e asimmetriche, il Paese deve assumersi parte della responsabilità che una realtà sempre più complicata richiede. E dunque ci vuole più coraggio e determinazione, ovvero più denaro per la Difesa (il tema della cooperazione tra la Difesa e l’industria è strategico) e più partecipazione alla Difesa europea integrata nella NATO. Nel documento sulle linee programmatiche scrive: “da trent’anni, le operazioni militari finalizzate al ripristino della pace sono, quindi uno degli strumenti fondamentali per riportare ordine e sicurezza Sulla Russia in competizione con le Organizzazioni euro-atlantiche, sostiene “la posizione nazionale [che] resta improntata sul cosiddetto approccio a ‘doppio binario’, dimostrando cioè fermezza attraverso il nostro contributo alle iniziative per il rafforzamento della deterrenza sul fianco Est dell’Alleanza e, al contempo, apertura al dialogo, al fine di promuovere la distensione dei rapporti e un confronto su basi meno competitive”. C’è però un problema, ed è quello che per attuare la politica del doppio binario bisogna almeno avere una qualsivoglia politica estera. E così dopo aver sottoscritto impegni con la Cina arriva Guerini e dice che la Cina è una sfida alla nostra sicurezza (a dicembre Il Comitato per la sicurezza, nel suo rapporto finale di indagine conoscitiva sulla sicurezza delle telecomunicazioni, ha scritto che sono fondate le preoccupazioni circa l’ingresso delle aziende cinesi nella rete 5G italiana). Il 30 ottobre presenta davanti alle Commissioni riunite Difesa di Camera e Senato le nuove linee programmatiche del Ministero: Cancella con due parole quanto sostenuto dal ministro Trenta nel documento “Duplice uso e Resilienza”, sottoscrive il Tempest britannico (già deciso dal precedente governo), aderisce alla European Intervention Initative promossa dalla Francia, vuole il rafforzamento di Unione europea e Nato, conferma i 90 F-35 previsti, porta a compimento il parere favorevole per lo sviluppo e acquisizione di 22 piattaforme del nuovo Elicottero AW169M/LUH e l’acquisizione di 17 elicotteri HH-139 per l’Aeronautica Militare, introduzione il g2g (government to government) tramite l’articolo 52 del decreto fiscale per il sostegno all’export. Tutto ciò che Alessandro Profumo invoca durante l’audizione “Prospettive export italiano materiali per la difesa e la sicurezza”, governo che facilita l’export delle industrie del settore con la normativa per il g2g, supporto economico-finanziario alle imprese della difesa (legge 808/85), supporto di Sace-Simest (Simest è la società del Gruppo Cassa depositi e prestiti che dal 1991 sostiene la crescita delle imprese italiane attraverso l’internazionalizzazione della loro attività). L’aiuto di Sace-Simest arriverà con la firma di un protocollo d’intesa siglato tra CDP, Elite e Leonardo per la crescita delle aziende parte della filiera di fornitori strategici di quest’ultimo. L’accordo prevede l’avvio di una collaborazione finalizzata a favorire la crescita dei fornitori, mettendo a loro disposizione strumenti, finanziari e non, finalizzati ad accelerarne e supportarne i piani di sviluppo. La lobby dell’industria bellica funziona con AIAD (Federazione italiana delle aziende di aerospazio, difesa e sicurezza). Al convegno “Tra le sfide dell’Europa e le esigenze della NATO: quali prospettive per la difesa italiana e la sua industria” il Segretario Generale dell’AIAD Carlo Festucci ha ripetuto il mantra che in questo settore per ogni euro investito si ha un ritorno economico triplo dal punto di vista occupazionale, nonché di ricerca e sviluppo tecnologico. Il Gen. Enzo Vecciarelli ha affermato che “L’Italia oggi siede su un baratro ai cui piedi ci sono 3 polveriere pronte ad esplodere – Balcani, Medioriente e Nordafrica/Sahel – e deve decidere se farle esplodere o scendere nel baratro, sporcandosi le mani per disinnescarle”, ricordando come una priorità fondamentale per la difesa sia quello di dotarsi “di un nuovo sistema di difesa missilistica (CAMM-ER ) considerando quanto sia attuale e geograficamente vicina la minaccia missilistica. La Vice Ministro Laura Castelli ha parlato della possibilità di creare “un tavolo di lavoro per capire come alcuni strumenti finanziari non prettamente legati alla difesa, come il Green New Deal, possano essere sfruttati per finanziare il settore”, perché è necessario un rilancio degli investimenti nella Difesa, mentre il Presidente dell’AIAD Guido Crosetto ha auspicato una soluzione riguardante le banche etiche che “creano enormi ostacoli in termini di sostegno bancario al settore”, e che andrebbe “esclusa una parte delle spese per la Difesa dal calcolo del deficit di bilancio”, non essendo la Difesa un settore da “collegare ad un momento economico specifico ma, piuttosto, ad una funzione esistenziale dello Stato”. Infine il Ministro Guerini ha ribadito la necessità di partire dalla definizione di un “quadro securitario definito con molta chiarezza”. Senza dubbio uno scenario da incubo se non fosse che dal Libano al Cile, dalla Francia all'Ecuador all’Iraq e altrove, intere generazioni manifestano contro la disoccupazione e il carovita, l’austerità e l’autoritarismo, il riscaldamento globale e la corruzione. L’unica risposta degli Stati uguale per tutti è una repressione violenta che mira a punire e creare paura nei dimostranti. Amnesty International ha pubblicato il dossier “ Proteste e uso eccessivo della forza: il risveglio della società civile represso dai governi del mondo”, in particolare colpisce la ferocia della polizia cilena come denuncia Erika Guevara-Rosas direttrice di Amnesty International per le Americhe “Le intenzioni delle forze di sicurezza cilene sono chiare: colpire chi manifesta per disincentivare la partecipazione, ricorrendo all’atto estremo di praticare la tortura e la violenza sessuale contro i manifestanti”. Un rapporto redatto dal Colegio Médico de Chile qualifica come “epidemia” le lesioni oculari di manifestanti colpiti agli occhi da pallottole di gomma sparate intenzionalmente al volto dalle forze di sicurezza cilene. Alla Berlin Security Conference di novembre, due giornate dedicate al tema “l’Europa e le sue sfide esterne – un approccio a 360° in un momento di incertezze”, il ministro smentisce se stesso e dichiara che l’Italia non rispetterà l’impegno chiesto dalla Nato di investire il 2% del prodotto interno lordo in spese militari entro il 2024: “È un obiettivo non realisticamente realizzabile”. Alessandro Profumo invece afferma che i “ fondi per le iniziative di difesa stanno aumentando, sia a livello nazionale, sia a livello europeo, ma per sviluppare al meglio queste opportunità è necessario rafforzare la base industriale della difesa, in alcuni casi indebolita dai tagli di bilancio e dai bassi investimenti precedenti”. Oltre a Profumo partecipavano rappresentanti della Difesa e dell’industria tedesca ed internazionale, fra cui Airbus, Rheinmetall, Hensoldt, IBM, Thyssenkrupp, l’associazione BDSV che rappresenta gli interessi dell’industria della difesa e sicurezza tedesca, Lockheed Martin, Raytheon e CAE. Se aggiungiamo che a sponsorizzare l’evento sono state una trentina di entità industriali, oltre a quelle citate, si può dedurre che l’ambizioso tentativo di definire una coerente politica di difesa e sicurezza dell'UE sia più un desiderio delle lobby legate ai produttori di armi. Le recenti iniziative come la rinnovata cooperazione strutturata permanente (PESCO), il Fondo europeo per la difesa (FES) e l'istituzione di una nuova direzione generale per l'industria e lo spazio della difesa, subiscono una governance sovranazionale limitata. Il FES non è di per sé una politica di difesa, ma una politica di ricerca e tecnologico-industriale. Tuttavia, con un budget previsto di 13 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, simboleggia uno sviluppo senza precedenti della governance dell'UE a livello sovranazionale. Come spiega il think tank Carnegie Europe, i principali beneficiari del fondo di difesa sono gli Stati membri con forti industrie di difesa nazionali e i mezzi finanziari per cofinanziare costosi progetti di capacità militare. Poiché la Francia è un attore di difesa importante, e poiché un commissario francese supervisionerà la nuova direzione generale per i prossimi cinque anni, Parigi sembra essere il più grande vincitore di questo nuovo interesse dell'UE nella difesa: "Dobbiamo lavorare sulla nostra sovranità tecnologica" ha dichiarato Thierry Breton. Come per rassicurare coloro che temono che l'UE possa minare le prerogative nazionali in difesa o diventare un concorrente della NATO, il commissario uscente per il mercato interno, Elżbieta Bieńkowska, ha insistito sul fatto che la Commissione "non sta prendendo potere per la politica di difesa o creando un Esercito dell'UE”. In Italia il Documento Programmatico Pluriennale 2019-2021 ha previsto una spesa per il 2020 di 21.876,6M di euro e 21.975,5M di euro per il 2021. Per avere un’analisi completa delle risorse finanziarie a disposizione della difesa bisogna aggiungere i fondi di altri dicasteri quali il MISE per gli investimenti e il MEF per le missioni militari all’estero. Fra tutte le voci si arriva alla cifra di 2.444,3M nel 2020 e 2.585,2 nel 2021. Ci sono poi i 7,2 miliardi di euro che avranno effetto fino al 2033. La spesa militare italiana, salita nel 2018 dal 13° all’11° posto mondiale, è stimata dal Sipri in 27,8 miliardi di dollari. Quella mondiale, sempre secondo le stime pubblicate dal Sipri nel 2019, ha superato i 1800 miliardi di dollari nel 2018, con un aumento in termini reali del 76% rispetto al 1998. Secondo tale stima, ogni minuto di spendono nel mondo circa 3,5 milioni di dollari in armi ed eserciti. Al primo posto figurano gli Stati uniti con una spesa nel 2018 di 649 miliardi. La spesa della Cina viene stimata in 250 miliardi di dollari nel 2018, anche se la cifra ufficiale fornita da Pechino è di 175. La spesa della Russia viene stimata in 61 miliardi, oltre 10 volte inferiore a quella Usa (limitatamente al solo budget del Pentagono). Secondo le stesse stime, sette paesi della Nato – Stati uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Canada e Turchia – contano complessivamente circa la metà della spesa militare mondiale. Nella classifica realizzata dalla Global Firepower, aggiornata al 2018, sulla base di 55 fattori utili per determinare il potenziale militare offensivo dei principali paesi del mondo (vengono assegnati dei bonus alle nazioni appartenenti all’Alleanza Atlantica e a quelle dotate di armamenti nucleari), l’Italia si pone all’11esimo posto dopo Stati Uniti, Federazione Russa, Cina, India, Francia, Giappone, Sud Corea, Gran Bretagna, Turchia, Germania e Italia (Israele è al 17esimo posto). Per l’esercito comune europeo l’Ue ha stanziato 27,5 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027 (2,1% del totale). Solo per progetti di ricerca e sviluppo in materia di difesa si passerà da 590 milioni a 13 miliardi di euro (+ 80% circa per quanto riguarda la sicurezza + 220% per il Fondo europeo per la difesa), un aumento di 22 volte rispetto all’attuale ciclo settennale. Secondo la Corte dei conti europea “la cooperazione e le capacità militari attuali degli Stati membri non corrispondono al nuovo livello di ambizione della politica di difesa dell’UE”. Inoltre vi è il rischio di sovrapposizione strutturale della nuova forza comune con la Nato. Se poi ai 13 miliardi del Fondo europeo per la difesa si aggiungono i 10,5 miliardi proposti per lo Strumento europeo per la pace, si arriverebbe ad un totale di oltre 23 miliardi per il periodo 2021-2027, contro i 2,8 miliardi del ciclo 2014-2020.Bisogna poi tenere conto che il Regno Unito occupava il primo posto in Europa per la spesa militare e sosteneva circa un quarto della spesa totale degli Stati membri dell’UE. Fra i cinque progetti di ricerca già finanziati nel settore della difesa c’è Ocean2020 coordinato da Leonardo. Coinvolge 42 partner provenienti da 15 paesi di tutta Europa e ha un valore di 35 milioni di euro. Finalizzato a sostegno delle missioni di sorveglianza marittima, il progetto deve integrare sistemi aerei manned e unmanned in operazioni navali, ha una durata triennale e coinvolge industrie, forze armate e centri di ricerca. Per quanto riguarda i soggetti idonei ad accedere al fondo, l’Italia ha puntato a superare la logica di collaborazioni bilaterali affinché i consorzi fossero composti da almeno tre aziende, basate in almeno tre diversi stati membri. L’intento è quello di evitare l’egemonia franco-tedesca. In sintesi parrebbe proprio che il denaro dei cittadini europei sia speso soprattutto per finanziare l’industria della difesa dei singoli paesi. Nel 2014 il Presidente della Commissione Europea del 2014, José Manuel Barroso, ed il Primo Ministro Israeliano Benjamin Netanyahu, firmano un accordo per associare Israele al programma europeo. L’anno scorso il francese Thierry Breton, dirigente di aziende pubbliche e private e anche ministro delle Finanze sponsorizzato da Emmanuel Macron, viene nominato Commissario per l’industria della difesa con il compito di realizzare progetti per il Fondo europea di difesa (FES); costruire un mercato europeo delle attrezzature militari aperto e competitivo per far rispettare le regole UE sugli appalti in materia di difesa; e attuare piani per aumentare la mobilità militare. Nella tabella riassuntiva dei programmi di coproduzione internazionale 2018 l’Italia è presente in 23 programmi su tipologie diverse di sistemi d’arma, diversi paesi partecipanti e ditte italiane. La tabella è inserita nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” presentata da Giancarlo Giorgetti. In un incontro tenuto presso Assolombarda nel mese di luglio Francesco Azzarello, direttore dell’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento (UAMA) della Ministero degli Affari Esteri, ha ricordato che a partire dall’inizio delle ostilità in Yemen nel 2015, le politiche sull’export degli armamenti sono tornate alla ribalta. Ha inoltre evidenziato come il moltiplicarsi delle aeree di crisi nel mondo abbia comportato il riarmo e la modernizzazione degli arsenali in molti Paesi. Nella Relazione si legge che il valore complessivo delle autorizzazioni è stato di 5,743 miliardi di euro di cui 5,246 per movimentazioni in uscita dall’Italia (in decremento del 53,78% rispetto al 2017) e 497 milioni di euro per movimentazioni in entrata in Italia (escluse quelle intracomunitarie) in aumento del 65,70 rispetto al 2017. In particolare incide l’autorizzazione di circa 1,6 miliardi di euro per 12 elicotteri NH-90. La commessa dei 28 elicotteri al Qatar, la cui consegna delle macchine cominceranno a metà 2022 e continueranno fino al 2025, vale più di 3 miliardi di euro ma la quota spettante all'ex Finmeccanica è stimata intorno al 40% del valore, dunque circa un miliardo e 200 milioni di euro. Il consorzio Nh Industries che produce l’elicottero è infatti frutto di una cooperazione tra Germania, Olanda, Francia e Italia (32%), ma dato che AgustaWestland è “prime contractor” della commessa, ha diritto a un valore superiore alla sua partecipazione al consorzio. Gli altri partecipanti al consorzio sono il gruppo franco-tedesco Airbus (con il 62,5%) e la olandese Fokker (5,5%). Nel 2018 l’Italia ha esportato armi in 84 Paesi del Mondo. Il destinatario di singole licenze superiori al miliardo di euro è stato il Qatar, mentre altri 7 Paesi risultano destinatari di licenze comprese tra i 100 e i mille milioni di euro. Tra questi, tre sono Paesi extra-UE con condizioni indubbiamente particolari come Pakistan, che sta vivendo continue tensioni con l’India, la Turchia, stretta tra problemi di repressione interni e la precaria situazione mediorientale (vedi Siria, Libia e Grecia al largo di Cipro) e gli Emirati Arabi Uniti. Il Regno unito, che fino al 2017 era il principale mercato di sbocco italiano nel settore scende all’ottavo posto, Israele al ventiquattresimo. Per quanto riguarda le importazioni il 65%proviene dagli USA, il 17% dalla Svizzera e poi Cina per il 6,36%. La lista dei primi 10 operatori italiani comprende le S.p.A.: Leonardo, RWM Italia, MBDA Italia, Iveco Defence, Rheinmentall Italia, Fabbrica d’armi Beretta, Meccanica per L'Elettronica e Servomeccanismi, Umbragroup e Elettronica. Secondo il Sipri nel periodo 2014-2018, a controllare la fetta più grossa del mercato mondiale di armi sono gli Stati Uniti che mantengono e ampliano il loro primato nell'export di armi. Poi ci sono Russia, Francia, Germania, Cina, Regno Unito, Spagna, Israele e poi Italia. Quindi guardando all'interno dell'Ue, la Francia è il Paese membro che esporta più armi, coprendo da sola il 6,8% dell'export mondiale, una quota in netto aumento rispetto al 2013. Seguono la Germania, con il 6,4%, il Regno Unito (4,2), la Spagna (3,2) e l'Italia (2,3). Rispetto al 2013, l’Italia fa registrare una leggera flessione, unico Stato della top ten globale in calo insieme alla Russia. Armi, l'Italia nella top ten del mercato mondiale. Per quanto riguarda le importazioni di armi vi è un balzo del 162% nella seconda parte dell'ultimo decennio rispetto all'inizio degli anni '10. L'Italia si colloca al 20esimo posto nella classifica dei maggiori acquirenti di sistemi d'arma, affidandosi soprattutto agli Usa: ben il 59% degli acquisti della Difesa italiana arriva dagli USA, poi Germania (26%) e Israele (7,5%). Per quanto riguarda la top-10 mondiale delle imprese belliche, sempre il Sipri informa che ammonta a circa 420 miliardi di dollari il volume d’affari totale delle prime 100 imprese del settore bellico per il solo 2018, in crescita del +4,6% rispetto all’anno precedente. Le italiane Leonardo e Fincantieri, rispettivamente ottava e 50ma nella classifica mondiale, generano un volume d’affari totale di 11,7 miliardi di dollari, in crescita del 5% rispetto al 2017. Prima è l’americana Lockheed Martin, seguono Boeing, Northrop Grumman Corp., Raytheon, General Dynamics Corp. (insieme vendono 148 miliardi di dollari di armi, il 35% dell'intera classifica), BAE Systems, Airbus Group e quindi Leonardo. Chiudono la top-10 l’impresa russa Almaz-Antey e la francese Thales. Aude Fleurant, a capo del dipartimento del Sipri sulle spese militari spiega che "le aziende statunitensi si stanno preparando per il programma di ammodernamento dell'esercito annunciato da Trump nel 2017. Le grandi compagnie Usa si stanno fondendo, proprio per attrezzarsi per produrre i sistemi militari di nuova generazione che le metteranno nella miglior posizione per vincere i contratti del governo" di Washington. Spiega il Sipri che proprio le aggregazioni sono il trend del momento per gli Usa: Northrop Grumman e General Dynamics, ad esempio, hanno fatto puntate di shopping miliardario nel 2018. Se si prendono tutte le rappresentanti a stelle e strisce in graduatoria, si arriva a ben 246 miliardi di vendite: il 59% del totale e il 7,2% in più del 2017. Ma con vendite di armi combinate di 8,7 miliardi di dollari, le tre società con sede in Israele elencate nella Top 100 per il 2018 rappresentavano il 2,1 per cento del totale delle Top 100. Elbit Systems (al 28 ° posto), Israel Aerospace Industries (al 39 ° posto) e Rafael (al 44 ° posto) hanno aumentato le loro vendite di armi nel 2018: a 3,5 miliardi di dollari, le vendite di armi di Elbit Systems sono aumentate del 7,3 per cento nel 2018. L'acquisizione di Elbit Systems in Il 2018 di Israeli Military Industries, che nel 2017 ha registrato vendite di armi per $ 600 milioni, suggerisce che intende continuare ad espandere le proprie vendite in questo settore.
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