Nel Green New Deal c’è la chiave per porre definitivamente fine alle guerre
L’industria del combustibile fossile, con il prezzo del petrolio sceso sotto lo zero alla fine di aprile, è oggi fra le vittime della pandemia di Corona-virus. I progressisti, con l’industria del petrolio alle strette, vedono un possibile percorso verso un rinnovamento ecologico dell’economia . Ma questo non potrebbe anche implicare un nuovo approccio nei confronti del conflitto internazionale e delle imprese militari degli Stati Uniti?
Il petrolio è la causa principale delle guerre tra stati, ma le connessioni tra petrolio e guerra non si fermano a questo. Come abbiamo spiegato Lorah Steichen e io in un nuovo report, dalle emissioni di combustibile fossile del Pentagono, alla risposta militarizzata verso i rifugiati climatici, gli sforzi militari degli Stati Uniti e la nostra dipendenza dai combustibili fossili hanno dei legami intricati. Riconoscere questi legami potrebbe essere la chiave per un mondo completamente nuovo
La principale causa di guerra
Il petrolio, a cui a partire dal 1973 sono riconducibili da un quarto a metà delle guerre internazionali, è una delle principali cause di guerra. Le guerre degli Stati Uniti per il petrolio sono ormai un segreto talmente di pubblico dominio che nel 2008 il Generale in pensione John Abizaid ha detto a proposito della guerra in Iraq: «Certo che riguardava il petrolio, non lo possiamo proprio negare... abbiamo trattato il mondo arabo come una grande riserva di distributori di benzina.»
L’America è in guerra con l’Iraq da 17 anni. Nell’attuale corsa per il dominio sui rifornimenti mondiali di petrolio, l’amministrazione Trump ha delle mire anche sull’Iran. Sembrano passati anni da gennaio, quando gli Stati Uniti hanno deliberatamente ucciso il Maggiore Generale iraniano Quassim Suilemani, cosa che nel giro di giorni ha portato a una rapida escalation che si temeva potesse trasformarsi in una vera e propria guerra. Più di recente, gli Stati Uniti hanno continuato a provocare l’Iran, non soltanto con sanzioni economiche durissime, ma anche con incursioni navali nel Golfo Persico e minacce verbali.
Anche le azioni ordinarie del Pentagono sono guidate dall’interesse per il petrolio. Uno studio stima che il Pentagono spenda almeno 81 miliardi di dollari l’anno – quasi dieci volte il budget della Environmental Protection Agency (Agenzia per la protezione dell’Ambiente) – per difendere i rifornimenti mondiali di petrolio, senza contare i miliardi spesi ogni anno per la guerra in Iraq.
Il cambiamento è un’emergenza planetaria
Proprio come la pandemia, il cambiamento climatico non è un problema nazionale, bensì un problema globale. Un giusto governo degli Stati Uniti non si limiterebbe a ripulire le emissioni del suo Stato, ma si impegnerebbe in nuovi sforzi diplomatici per ridurre le emissioni a livello mondiale, sforzi che con la guerra sarebbero incompatibili.
Il Pentagono spende almeno 81 miliardi di dollari l’anno per difendere i rifornimenti mondiali di petrolio, senza contare i miliardi spesi ogni anno per la guerra in Iraq.
Comunque sia, l’amministrazione Trump ha un pessimo curriculum in termini di diplomazia. La lista di accordi internazionali e gruppi che la corrente amministrazione ha abbandonato – Gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, l’accordo sul nucleare iraniano, il trattato INF, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, e altro ancora – preannuncia una pericolosa incapacità di negoziare i tipi di accordi che una reazione significativa al cambiamento climatico richiederebbe. Da ultimo, nel mezzo del rarissimo evento di una pandemia, il presidente ha dichiarato che ritirerà i fondi all’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ancora, mettendo potenzialmente a repentaglio la situazione del cambiamento climatico, il presidente e il Pentagono battono i tamburi di guerra con la Cina almeno dal dicembre del 2017, quando il Pentagono ha annunciato l’intenzione di fare della competizione militare con la Cina e la Russia la sua priorità principale. In quanto leader mondiale di emissioni nocive, è cruciale che la Cina partecipi a qualsiasi tentativo internazionale di arrestare il cambiamento climatico. Gli Stati Uniti, se vogliono fare sul serio per quanto riguarda la questione climatica, non possono proprio permettersi un taglio della comunicazione con la Cina in stile guerra fredda.
Il Pentagono, trangugiatore di petrolio
Secondo un recente studio della Brown University’s Costs of War Project, tra tutte le istituzioni il Pentagono è il più grande consumatore di petrolio. Se il Pentagono fosse un Paese, le sue emissioni sarebbero superiori a quelle di Paesi industrializzati come la Danimarca, la Svezia e il Portogallo.
Senza petrolio la milizia degli Stati Uniti non potrebbe esistere la conosciamo adesso. Il Pentagono ha un piano di addestramento, il Petroleum Laboratory Training Division, esclusivamente dedicato a garantire la qualità del combustibile militare. Come afferma il suo sito, il combustibile è “il sangue” dell’esercito. Il Generale David Petraeus, comandante nelle guerre di Iraq e Afganistan, fa eco alla metafora oscura che lega petrolio e sangue, osservando come il combustibile sia come «il sangue necessario per la nostra capacità di combattere una guerra.»
Se il Pentagono fosse uno Stato, le sue emissioni sarebbero superiori a quelle di nazioni come la Danimarca, la Svezia e il Portogallo.
La più grande forza militare sulla terra funziona a petrolio. Secondo l’antropologo dell’American University David Vine, il Pentagono ha ottocento basi miliari sparse in novanta stati e territori in tutto il globo. Mandare avanti le basi militari domestiche e estere, e rifornirle con una rotazione costante di truppe, rappresenta circa il quaranta percento di tutte le emissioni di gas nocivi del Dipartimento della Difesa.
Un’altra delle principali fonti di emissioni è quella delle incursioni aeree, il marchio distintivo dell’impegno militare degli Stati Uniti. Solo uno dei jet militari, il B-52 Stratofortress, in un’ora consuma circa la stessa quantità di carburante che un autista medio userebbe in sette anni. La campagna militare contro l’ISIS (nota anche come Daesh), incominciata nel 2014, ha coinvolto decine di migliaia di missioni aeree, da attacchi armati, a ponti aerei e ricognizioni. Il carburante usato per queste missioni fa restare a bocca aperta: nel 2014 due bombardieri B-2 sono partiti dal Missouri per andare a bombardare degli obiettivi dell’ISIS in Libia: un viaggio andata e ritorno di trenta ore per cui sono serviti due tipi diversi di rifornimento aereo e più di quattrocento tonnellate di carburante.
Il Pentegono ha dichiarato l’obiettivo di ridurre l’uso di carburante... solo nella misura in cui, riducendo la dipendenza da catene di rifornimenti vulnerabili, servirà a rendere ancora più infallibili le loro missioni. Alcune proposte avanzate da contestatori dell’esercito richiedono di intervenire in diversi modi per creare “un esercito più ecologico.” Alla fine un tentativo del genere non potrebbe dare nessun contributo significativo per un futuro ecologico: sia perché le attività del Pentagono sono intrinsecamente ad alta emissione, sia perché il Green New Deal è incompatibile con il militarismo degli Stati Uniti.
Una transizione giusta (e pacifica)
L’idea di una “transizione giusta”, che costruisca un’economia basata sulla salute e sul rigoglio delle comunità piuttosto che sullo sfruttamento e sul danneggiamento, è un caposaldo morale chiave del movimento climatico.
Un solo jet militare, il B-52 Stratofortres, in un’ora consuma circa la stessa quantità di carburante che un autista medio userebbe in sette anni.
Quest’idea è incompatibile con la distruzione dell’ambiente. Esige una riparazione per le numerose popolazioni indigene le cui esistenze e le cui terre sono state distrutte. Una transizione giusta dovrebbe mettere fine all’incenerimento dei rifiuti militari in Iraq, che ha contribuito a creare un ambiente tossico con un alto tasso di cancro e di bambini nati con tumori e senza arti, una situazione che è stata descritta come «il più alto tasso di danneggiamento genetico che sia mai studiato su una popolazione»
È necessario garantire un porto sicuro gli sfollati climatici e di guerra. Una stima mostra che prima della metà del secolo il cambiamento climatico potrebbe forzare lo spostamento di duecento milioni di persone. Il cambiamento climatico è già stato una delle cause della migrazione forzata in tutto il mondo, insieme alla devastante guerra siriana e alla crescita della migrazione Negli Stati Uniti da Guatemala, Honduras e Salvador.
A questi flussi migratori si sta rispondendo in modo militarizzato. Negli Stati Uniti la lotta al confine meridionale è solo un’anticipazione del peggio che deve ancora venire. Un sinistro report del Pentagono sul cambiamento climatico nel 2003 pronosticava: «è possibile che gli Stati Uniti costruiscano delle fortezze difensive tutto intorno a sé perché hanno le risorse e le riserve per raggiungere l’autosufficienza... Intorno al Paese confini verranno rinforzati per tenere fuori gli immigranti affamati e indesiderati che vengono da isole caraibiche (un problema particolarmente e severo), Messico e Sud America.»
La risposta militarizzata al cambiamento climatico si estende dai confini verso l’interno. Potrebbe sembrare che non ci siano relazioni tra le aggressive campagne di deportazione, l’internamento di persone prive di documenti da parte dell’Immigration and Custom Enforcement e la risposta violenta alle proteste per l’ambiente e per il clima, ma una delle forza motrici che sta dietro ognuno di essi è il fatto che per soggiogare gli effetti e la risposta al cambiamento climatico c’è bisogno di forze potenti. Mentre gli attivisti e gli esperti progettano linee programmatiche per porre fine alla nostra dipendenza dal petrolio, il principio di una transizione giusta indica che la soluzione debba anche occuparsi di smantellare la rete di ingiustizie concatenate.
Come paghiamo?
Il Green New Deal di certo richiederà delle risorse considerevoli, ma queste stesse risorse sono quelle che sostengono le guerre degli Stati Uniti da quasi due decenni. Mentre gli Stati Uniti sono responsabili per 6,4 mila miliardi di dollari per le guerre con l’Iraq e l’Afganistan, il costo per la conversione dell’intera sua rete energetica in risorse rinnovabili sarebbe solo di 4,5 mila miliardi di dollari. Il costo di non aver incominciato a convertire la rete energetica nel 2001 piuttosto che imbarcarsi in due decenni di guerra è invece incalcolabile.
Dollaro per dollaro, l’energia rinnovabile crea il quaranta percento di lavoro in più delle spese militari.
Oggi gli Stati Uniti spendono ancora settanta miliardi di dollari l’anno per queste guerre senza fine. Questi soldi – insieme ad altri tagli alle spese del Pentagono che ammonterebbero a 350 miliardi di dollari l’anno – potrebbero essere reinvestiti nel Green New Deal. Sono tagli che non permetterebbero soltanto di deviare le risorse economiche, ma che ridurrebbero anche le emissioni e il conflitto, rendendo il mondo un luogo più sicuro. Altri 649 miliardi di dollari all’anno potrebbero essere ricavati dall’eliminazione degli aiuti finanziari degli Stati Uniti alle industrie petrolifere. In tutto ci sarebbero mille miliardi di dollari l’anno che potrebbero essere destinati al Green New Deal.
Una delle opposizioni più ferme (e che tende ad attirare simpatie) al Green New Deal e ai tagli alle spese del Pentagono, viene da chi dipende per il proprio sostentamento dal petrolio e dalle industrie militari. Una parte fondamentale in una transizione giusta include il fatto che queste persone possano passare da lavori pericolosi che alimentano sofferenza e conflitti, a lavori più sicuri e appaganti. La transizione è decisamente possibile. Dollaro per dollaro, l’energia pulita crea il quaranta percento di lavoro in più di quanto non facciano le spese militari. Un investimento relativamente modesto di duecento miliardi di dollari annui in energia pulita – molto meno di quanto è proposto nel Green New Deal – creerebbe una rete di 2,7 milioni di nuovi lavori.
Smantellare il controllo del petrolio e l’industria militare (e la mentalità colonialista del XX secolo), non sarà facile, ma è una parte necessaria della soluzione alle sfide che il mondo sta affrontando. Quando il mondo emergerà da questa ibernazione forzata, tra le cose che non dovrebbero tornare com’erano dovrebbe esserci il prezzo del petrolio.
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