Noi, la Cina, le armi ed il commercio mondiale
Il primo ministro cinese Wen Jiabao, in visita in questi giorni in Italia,
ha rinnovato la richiesta al presidente della Commissione europea Romano
Prodi di adoperarsi affinché l´Unione Europea ponga fine all´embargo di
armi verso la Repubblica popolare cinese. Una richiesta che la Cina avanza
con forza da qualche tempo alla quale Prodi ha risposto ricordando che la
questione è "attualmente in discussione tra gli stati dell´Unione". Il
Consiglio dei Ministri degli esteri europei dello scorso 26 e 27 aprile ha
infatti deciso di rinviare ad un esame più approfondito la spinosa
questione.
Il breve testo del comunicato ufficiale lascia trasparire la posta in
gioco. "La soluzione - si legge - dovrà tener conto dell´attuale situazione
nella Repubblica popolare cinese, delle crescenti relazioni bilaterali"
e "dell´intenzione dell´Unione Europea di sviluppare una partnership
strategica con la Cina". Per meglio valutare la situazione dei diritti
umani e le questioni relative all´applicazione del Codice di condotta
europeo sull´esportazione di armi, il Consiglio dei ministri europei ha
chiesto l´esame del Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) e del
Comitato politico e di sicurezza (Cops). Un´ulteriore proroga, dunque, dopo
quella del summit dei leader europei riuniti a Bruxelles lo scorso fine
marzo.
Eppure l´embargo di armi alla Cina non dovrebbe costituire materia di
discussione: lo scorso dicembre, infatti, un´ampia maggioranza del
Parlamento europeo si è espressa contro la proposta di Francia e Germania
che ne chiedevano l´abolizione. Introdotto nel 1989 dopo il massacro di
piazza Tienanmen, l´embargo di armi è fortemente sostenuto anche
dall´amministrazione americana che è preoccupata per la stabilità nello
stretto di Taiwan. Ciò che impensierisce maggiormente Washington non sono
solo i sistemi di arma "completi" (chiavi in mano), quanto piuttosto quei
sistemi di alta tecnologia ad uso militare che permetterebbero alla Cina di
sviluppare in proprio il suo arsenale. L´esempio ricorrente a Washington è
l´agile e potente aereo da combattimento cinese Jian-10 messo a punto da
Beijin sulla base di tecnologie americane acquisite sotto banco da Israele
e dalla Russia. E proprio la Russia si sta accreditando come il maggior
fornitore di armi della Cina: lo scorso anno Mosca ha venduto a Beijin 2,5
miliardi di dollari di sistemi bellici. Ma le tecnologie russe sono tuttora
arretrate rispetto a quelle americane, mentre i Paesi europei hanno
sviluppato componenti sofisticate, sistemi bellici di precisione di livello
non inferiore a quelli statunitensi. Il trasferimento di questo tipo di
tecnologie dall´Europa alla Cina è ciò che gli Usa temono maggiormente ed
intendono bloccare. Non è un caso allora che Solana, impegnato nell´opera
di mediazione tra i Paesi dell´Unione europea e tra l´Unione e la Cina,
abbia voluto fin dall´inizio rassicurare l´alleato d´oltreoceano ribadendo
che la possibile fine dell´embargo di armi alla Cina "non dovrà contribuire
alla proliferazione di armi nella regione".
Lo scorso dicembre il Parlamento europeo ha bocciato a larga maggioranza la
proposta di Francia e Germania di abolire l´embargo di armi alla Cina. Con
una specifica risoluzione ha riaffermato inoltre che la situazione dei
diritti umani nella Repubblica popolare ´´resta insoddisfacente, le
violazioni delle libertà fondamentali continuano, così come continuano le
torture, i maltrattamenti e le detenzioni arbitrarie´´. Una denuncia, tra
l´altro, ribadita da un documento ufficiale presentato nella scorse
settimane a Bruxelles da Amnesty International. Nel documento Amnesty
ricorda che "la situazione dei diritti umani in Cina presenta ancora un
quadro terrificante: centinaia di migliaia di persone continuano ad essere
arrestate in tutto il paese in violazione dei fondamentali diritti umani;
condanne a morte ed esecuzioni hanno luogo regolarmente al termine di
processi irregolari; i maltrattamenti e le torture sono tuttora diffusi e
sistematici; la libertà di espressione e di informazione resta fortemente
limitata". Il documento di Amnesty sottolinea inoltre come "il Codice di
condotta dell´UE sull´esportazione di armi non possa essere considerato,
rispetto all´obiettivo di proteggere i diritti umani, un´alternativa
credibile all´embargo sulle armi".
Vi è però una considerazione che non sfugge ai governi europei: la ripresa
economica americana è contrassegnata dal forte incremento del budget
militare che è passato dai 366 miliardi di dollari del 2001 ai 421 in
programma per il 2005 (un dato che non tiene conto delle missioni in Iraq e
in Afghanistan per le quali il Pentagono ha destinato per quest´anno altri
70 miliardi di dollari). I governi europei sanno, cioè, che l´industria
bellica è un settore strategico non solo militarmente, ma anche
economicamente: può costituire, infatti, in Europa come negli Usa, il
vòlano per il rilancio dell´economia interna. Ma l´industria bellica per
essere all´avanguardia della competizione mondiale necessita di continui e
ingenti investimenti in ricerca e sviluppo che si possono finanziare con i
contributi statali (come avveniva fino a qualche anno fa e come proposto
recentemente da Berlusconi che chiede di svincolare la R&S militare dai
parametri di Maastricht) oppure con il ricavato della vendita dei propri
prodotti bellici. Il che comporta l´apertura a nuovi mercati come, appunto,
la Cina.
Nonostante il voto contrario del Parlamento europeo, le reiterate denunce
di violazioni dei diritti umani e l´opposizione di Washington, il segnale
che giunge dai leader dei principali Paesi europei è chiaro: occorre non
perdere la corsa con la competizione e non rinviare ulteriormente la fine
dell´embargo di armi alla Cina. L´Italia ha deciso intanto di rompere gli
indugi: dall´ultima Relazione governativa sull´esportazione di armi si
apprende infatti che nel 2003 il governo Berlusconi ha autorizzato 127
milioni di euro di vendite di armi alla Cina che diventa così il terzo
Paese destinatario dei nostri sistemi bellici dopo la Grecia (248 milioni
di euro) e la Malaysia (166 milioni) e prima dell´Arabia Saudita (109
milioni). Tutti Paesi che, a parte la Grecia, sono ai primi posti nelle
graduatorie delle violazioni diritti umani e delle restrizioni delle
libertà civili.
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