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Armi, l'Italia incassa nuovi partner industrial-militari

9 dicembre 2004
Alessandra Mecozzi
Fonte: Liberazione


Il 10 dicembre sarà il 56° anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani delle nazioni Unite, una sorta di catalogo che avrebbe dovuto orientare la politica, mettendo al proprio centro gli individui, donne e uomini, come soggetti fisici e giuridici. Ma anziché celebrarne i progressi, se ne denuncia il disastro: un miliardo e mezzo di lavoratori che vive con meno di due dollari al giorno (Organizzazione internazionale del lavoro), 852 milioni di persone che hanno fame (Fao). Nello stesso tempo le questioni della potenza militare, della produzione e del commercio di armi si impongono al dibattito politico.

Il presidente Ciampi visita la Cina, e chiede la revoca dell'embargo sulle armi di Ue e Nu, scattato dopo l'eccidio di Tien An Men. Nell'ottobre scorso il Presidente del Consiglio in occasione del primo volo del Caccia M-346, si rivolse ai dirigenti delle principali industrie armiere italiane presenti (Finmeccanica, Aermacchi, Alenia…), dichiarando che avrebbe fatto «il commesso viaggiatore» per loro conto, vantò il ruolo dell'Italia nella politica internazionale: «Si prevede di avere ordinativi cospicui. Abbasseremo i costi attraverso la quantità».

Dopo il memorandum sulla cooperazione militare del 2003, al Senato per la ratifica, il 18 novembre il Ministro della Difesa italiano incontratosi a Roma con il ministro della difesa israeliano, ha annunciato un investimento congiunto di 181 milioni di dollari per lo sviluppo di un «nuovo sistema di guerra elettronica, con lo scopo di neutralizzare apparecchi nemici su un vasto spazio aereo». La politica estera italiana sta diventando politica militare? La ripresa economica in Italia si affida al "business" delle armi? La cooperazione allo sviluppo, già malridotta, si trasforma direttamente in "cooperazione militare"? Il "Keynesismo di guerra", di cui si era parlato a proposito della guerra preventiva in Iraq, tassello di quella globale, sta rapidamente investendo l'Italia, ansiosa di emulare il modello dello "stupido uomo bianco". Le autorizzazioni alle esportazioni di armi rilasciate dal Governo italiano nel 2003 ammontano a circa 1 miliardo e 300 milioni di euro, con un incremento del 40% rispetto all'anno precedente: tra i 60 paesi forniti c'è la Cina (nonostante l'embargo, di cui ora si chiede la rimozione). In Cina non ci sono solo migliaia di condanne a morte ogni anno e migliaia di prigionieri politici, sindacalisti, giornalisti: i minatori muoiono a migliaia per l'insostenibilità delle condizioni di lavoro e di insicurezza delle miniere di carbone, sottoposti a supersfruttamento per produrre sempre più energia per l'impressionante crescita industriale ed economica del paese. Con più di 52,7 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti e oltre 10.000 joint venture nel solo settore dell'elettronica che occupa milioni di lavoratori, in prevalenza donne (dati 2002), la "fabbrica del mondo" sta diventando un partner privilegiato di tanti paesi europei. Per l'Italia diventa partner industrial-militare: i diritti non rendono, meglio missili e tecnologie militari. Ma veniamo rassicurati dal fatto che il governo farà attenzione alla non contraffazione dei marchi!

Altro partner privilegiato, è Israele, il cui stato di illegalità e di permanente violazione dei diritti umani, dalla occupazione dei territori palestinesi del 1967, alle colonie, al muro di separazione, alle esecuzioni extragiudiziali, all'uccisione di oltre 3.500 civili palestinesi, è stato ampiamente denunciato dalla Corte di giustizia dell'Aia, dall'Assemblea delle Nazioni Unite, dal Parlamento Europeo, da Amnesty international.

Tanta propaganda è stata fatta su diritti e democrazia al tempo dell'attacco all'Afghanistan, poi di quello all'Iraq e adesso per elezioni senza legittimità, tanto poco se ne sente parlare quando si concludono accordi militari o si chiede l'abolizione, non giustificata dal progresso dei diritti, di un embargo sulle armi; ma c'è da dire che tanto ci siamo indignati allora, noi movimenti contro la guerra, il liberismo e il razzismo, contro i poteri forti e per la democrazia partecipata, tanto poco ci indignamo oggi. I diritti umani che includono quelli civili, politici economici e sociali, sono interdipendenti quanto lo è oggi ogni punto del mondo: la loro violazione o acquiescenza ad essa significa pericolo per tutti. Vite delle persone e regole della convivenza: è l'unica bussola che ci è data, in opposizione alla distruzione e alle guerre reciproche, sociali, culturali o militari. Ma la denuncia cade nel vuoto se non è strumento per una pratica politica. E' ora di rimettere mani e teste su queste materie, connettendo riflessioni, conoscenze ed esperienze sparse, cercando di rileggere ciò che sta succedendo nel nostro paese e nel mondo, nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nei territori, come nella "geopolitica". Legami sempre più potenti ed evidenti uniscono militarismo e degrado della politica, armi e impoverimento, spese militari e precarizzazione delle vite; la guerra, eufemisticamente "la difesa", sta entrando nelle nostre vite, la politica se ne sta andando: per costruire un altro mondo possibile, per immaginare realisticamente diritti globali di donne e uomini, c'è un lavoro da fare che è proprio dei movimenti, su cui da qualche anno si stanno misurando: la costruzione di alternative, andando alla radice di ciò che accade, serve un confronto radicale sul senso delle "resistenze" e quello del diritto internazionale, su conflitto sociale e silenzio della politica, su stili di vita e modo di produzione. Bisognerebbe cominciare a tracciare i lineamenti per una riconversione civile delle menti e delle produzioni. E' una grande sfida sociale, culturale e politica, che il mondo in cui viviamo ci mette di fronte: vale la pena di raccoglierla, perché dà un senso al presente e una possibilità al futuro.

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