«Abbiamo il diritto di sapere»
«Isomali correvano per Mogadiscio sui pick up. Si spostavano da un quartiere all'altro con gran rapidità. Su quei furgoni sgangherati trasportavano i mortai. Non erano grandi tiratori. Lanciavano quasi alla cieca e fuggivano via. Quando i Black Hawck americani arrivavano sul punto da dov'erano partiti i proiettili, non trovavano più nessuno. Ma i piloti Usa sparavano lo stesso. Dagli elicotteri veniva giù una pioggia di fuoco. Radevano al suolo tutto. A volte si alzavano anche gli AC 130, oppure, dal mare, sparavano i cannoni della Us Navy . Le bombe delle navi, un fischio sinistro; ti passavano sopra la testa e cadevano poche centinaia di metri più in là, con un frastuono infernale. Si alzava una nuvola bianca che arrivava fino al porto, dove stavamo noi italiani. In pochi minuti la polvere candida copriva volti, mani, uniformi». Marco Diana la guerra l'ha ancora negli occhi. Occhi scuri, fermi. In Somalia ci arrivò nel dicembre del 1993, con la divisa di maresciallo dei Granatieri di Sardegna, uno dei corpi scelti dell'esercito mandati a combattere dietro l'ipocrita copertura della missione internazionale di pace. Oggi Marco Diana ha un tumore che i medici considerano inguaribile. A trentasei anni, ha pochissime possibilità di sfuggire alla morte. Il suo è un cancro rarissimo. Una delle cinque forme tumorali più rare al mondo: un carcinoide all'intestino. Le metastasi ormai sono dappertutto. Lui però non molla. Combatte contro la malattia. Combatte per far sapere che a condannarlo non è stata una fatalità, ma l'esposizione alle stesse sostanze cancerogene che hanno ucciso, o che stanno uccidendo, tanti altri militari che hanno partecipato alla missione in Somalia e alle guerre nei Balcani e in Iraq. Resta un soldato, Marco Diana, convinto che il mestiere delle armi abbia una sua etica. Combatte per far sapere che quell'etica lui l'ha vista violare, la vede violare. A star zitto, ad ubbidire in silenzio, non ci riesce più.
«Ma lei è figlio d'operaio, che vuole?»
Il soldato Diana racconta la sua storia. Sta seduto su un piccolo divano nella casa dei genitori a Villamassargia, in piazza Gramsci. Parla a fatica, la voce spezzata di continuo da una tosse secca, stizzosa. La mano destra corre spesso sotto il torace, a sinistra, all'altezza del fegato, di quel pezzetto di fegato che è rimasto dopo i ripetuti interventi chirurgici per asportare le metastasi. Villamassargia conta poco più di tremila abitanti. Sta tra Cagliari e Iglesias, in una vallata chiusa, ad ovest, dalle montagne. Dietro i monti, il mare. Nelle viscere dei monti, le gallerie delle miniere di carbone e di zinco. Qui la gente ha vissuto di lavoro in miniera per decenni. Qui è nato, ai primi del Novecento, il primo polo industriale sardo: capitale libero da ogni vincolo, salariati sottopagati, con orari da lavori forzati. Buggerru, il paese dove, il 4 settembre del 1904, i minatori in sciopero furono massacrati dall'esercito, è a pochi chilometri da Villamassargia. Anche il padre del soldato Diana, Salvatore, faceva il minatore. «Quindici anni sotto terra», racconta il figlio, «perforatore e palista, con l'acqua sino alle ginocchia. Un lavoro che ti ammazza. Appena possibile è andato via». Via dalla miniera per entrare nel petrolchimico di Portovesme. Carbone e chimica di base, il buio delle gallerie prima, impianti che sputano veleni poi. L'industria, il lavoro in fabbrica, dovevano essere il destino di Marco Diana: iscrizione all'istituto professionale di stato per l'industria, qualifica di perito informatico ed elettronico. Operaio il padre, tecnico il figlio. Ma dopo il diploma, alla fabbrica ha preferito la caserma. «Finita la scuola - racconta - ho fatto un concorso dietro l'altro per entrare nell'esercito. Mi affascinava l'idea di una vita indipendente, di un lavoro d'azione. Ma con i concorsi, all'inizio, non ho avuto fortuna. Mi escludevano sempre. All'accademia di Modena sono passato, ma fuori graduatoria. Credo che la spiegazione stia in ciò che mi disse uno dei selezionatori: `Ma lei, Diana, è figlio d'operaio. Che cosa pretende?' Nell'esercito ci sono entrato solo quando, nel 1988, sono stato chiamato per il servizio di leva. Dopo pochi mesi di naia, arrivò la notizia che uno dei tanti concorsi ai quali avevo partecipato l'avevo vinto: quello per l'accademia per sottufficiali di Viterbo. Da lì sono passato alla scuola di fanteria e di cavalleria di Cesano, dalla quale sono uscito con il grado di maresciallo. Sono diventato un esperto nel lancio di missili teleguidati. Alla fine del 1991 sono stato assegnato alla trentaduesima compagnia controcarri della brigata Granatieri di Sardegna, a Civitavecchia, uno dei posti più tristi del mondo».
«Ci sono voluto andare io, volontario»
Nel casermone di Civitavecchia Marco Diana cercava di starci il meno possibile. Ha partecipato a diverse missioni in cui l'esercito era impegnato in compiti civili: in Sardegna, in Campania e in Sicilia. «Ci sono voluto andare io, da volontario. Pensavo che fare il soldato non significasse stare chiuso tra i reticolati ad esercitarsi a sparare. In Somalia, invece, nel 1993, non ho chiesto di andarci. Mi ci hanno mandato, insieme con tutta la compagnia. E' stato il primo segnale che le cose stavano cambiando, nelle forze armate». Nelle forze armate e fuori. Ufficialmente quella nel Corno d'Africa era una missione di pace, ma a Mogadiscio Marco Diana ha visto solo guerra. «Noi italiani eravamo gli unici ad avere basi in tutto il paese. Potevamo muoverci con una certa tranquillità. Verso i contingenti militari degli altri paesi, l'ostilità dei somali era massima. Quando i Granatieri di Sardegna, alla fine del 1993, furono richiamati in Italia, io restai a Mogadiscio. Fui assegnato al Reloco (il reparto logistico di contingenza), che gestiva tutti gli aspetti organizzativi legati alla presenza di truppe italiane. Comandavo la squadra di sicurezza per l'intera Somalia. Dovevamo scortare tutte le colonne militari, anche non italiane, che si muovevano sul territorio somalo. La mia squadra doveva anche garantire la sicurezza nella zona del porto di Mogadiscio e provvedere alla bonifica nucleare, chimica e biologica dei mezzi e dei materiali che ripartivano per l'Italia».
Tornato dall'Africa, Marco Diana cominciò a star male. Forti dolori all'addome. La prima diagnosi fu colite. Poi esami più accurati. «Mi dissero che avevo un tumore rarissimo e incurabile. Mi diedero una settimana di vita. Se sono ancora vivo è perché accettai di fare la cavia per la sperimentazione di terapie, allora all'avanguardia, all'Istituto europeo dei tumori di Milano. Da un anno e mezzo faccio una cura di mantenimento. Bastardo d'un tumore: i medici mi hanno detto che ha trovato il modo di volgere a suo vantaggio i protocolli sinora applicati. Non avanza, ma neanche scompare. Se dovesse riprendere a crescere, neanche a Milano potrebbero più nulla. L'unica speranza è la ricerca sulle staminali. Ci sono terapie nuove. Ma in Italia, con le leggi che i signori del potere si sono inventati, è tutto fermo. Dovrò andare all'estero». Cure costosissime. Diana ha chiesto che gli fosse riconosciuta la malattia per causa di servizio. Lo chiede da anni. Dal ministero della Difesa è sempre arrivato un no secco: non si poteva ammettere che la guerra uccide anche così. Ai primi di dicembre del 2004, la Corte dei conti di Cagliari ha stabilito che c'è una relazione di causa ed effetto tra la malattia e le sostanze alle quali Diana è stato esposto durante il suo lavoro. Finalmente, il ministero della Difesa ha ceduto e si è impegnato a pagare le cure. Almeno questa battaglia il soldato Diana l'ha vinta.
Si sprigionano le nano-particelle
Lui però vorrebbe anche altro. «Bisogna che si capisca che non si può disporre della vita delle persone con leggerezza. E' importante che io mi possa curare, ma è anche importante che si faccia luce sul perché io e tanti altri soldati ci siamo ammalati. Si parla dell'uranio impoverito. Certamente in Somalia gli americani hanno usato armi all'uranio impoverito. Ma non è l'unica spiegazione. Che cosa succede quando i proiettili esplodono ad altissime temperature? Che cosa accade quando un missile colpisce un carro armato, su un teatro di guerra ma anche in un poligono d'addestramento, a Quirra qui in Sardegna, ad esempio, o a Capo Teulada? Le ricerche che la dottoressa Antonietta Gatti ha condotto anche sul mio caso dicono che in quelle circostanze si sprigiona una nube che contiene nano particelle di metalli pesanti, pericolose quanto l'uranio impoverito. Chi protegge i ragazzi che si esercitano a Capo Teulada e a Quirra? Chi protegge i militari che mandiamo a combattere non si sa bene perché e che ora crepano di cancro?».
Chiedi al soldato Diana che cosa pensa della guerra e lui ti risponde con la formula del giuramento che ha prestato quando è entrato nell'esercito: «Giuro d'essere fedele alla repubblica italiana, di osservarne la costituzione e le leggi». La costituzione, sulla guerra, dice cose molto chiare. E colpevolmente dimenticate.
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