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Legambiente, Italia Nostra e Wwf contro il Ponte sullo Stretto di Messina,

L’Italietta che passa sul ponte

13 marzo 2005
Roberto Della Seta* e Fulco Pratesi** (*Presidente nazionale Legambiente **Presidente Wwf Italia)

Manifestazione contro la realizzaione del ponte sullo stretto Tre chilometri di asfalto che sfigurerebbero uno degli ecosistemi più belli e pregiati d'Italia e sotterrerebbero la possibilità di dare al Mezzogiorno un sistema di trasporti efficiente e pulito. Questo in sintesi sarebbe il Ponte sullo Stretto di Messina, questa la ragione per cui Legambiente, Italia Nostra e Wwf, insieme a molte altre associazioni, promuovono a Messina oggi 12 marzo (l'appuntamento è alle 14 davanti alla Stazione centrale) una manifestazione nazionale per denunciare agli italiani, e in primo luogo ai siciliani e ai calabresi, l'insensatezza di questa opera “tormentone”.

Un'infrastruttura, appunto, insensata. Insensata per l'impatto ambientale e territoriale che determinerebbe su un'area come lo Stretto considerata a livello internazionale di primario interesse naturalistico; insensata perché insisterebbe su una delle zone a più elevato rischio sismico (e anche a più alta ventosità) dell'intero Mediterraneo; insensata, infine, se si confrontano gli oltre 5 miliardi di euro preventivati per la sua realizzazione con la cronica indisponibilità di risorse per affrontare i drammatici problemi di mobilità del Mezzogiorno. Oggi per andare in treno da Palermo a Messina (poco più di 200 chilometri) occorrono almeno tre ore di viaggio, per raggiungere Potenza da Reggio Calabria ce ne vogliono cinque o sei, e su 1450 chilometri di ferrovie siciliane solo 105 sono a doppio binario e quasi la metà non è elettrificata. Se a questi dati si aggiunge il pessimo stato di manutenzione delle reti sia stradali che ferroviarie e la qualità più che scadente dei servizi di trasporto pubblico, si ottiene una fotografia attendibile del collasso della mobilità nel Sud: rispetto a una situazione così degradata, che costituisce oltretutto uno degli ostacoli principali sulla via del rilancio economico delle regioni meridionali, il Ponte sullo Stretto non migliorerebbe le cose di una virgola, anzi le peggiorerebbe assorbendo molti miliardi di soldi pubblici. E qui veniamo all'altro punto dolente. Per anni i principali sponsor del Ponte hanno ripetuto fino alla noia che l'opera non sarebbe costata una lira allo Stato. Ora la verità è venuta a galla: l'ipotesi dell'investimento privato integrale non è praticabile, e almeno metà dei 5 o più miliardi di euro necessari a costruire il Ponte (lievitazioni in corso d'opera a parte) proverrà dalle casse pubbliche sotto forma di aumento di capitale garantito da Fintecna, Anas e Ferrovie, della Società Stretto di Messina. Inoltre, le Ferrovie si accolleranno la bolletta più alta, obbligate dal Governo a pagare un canone annuo di 100 milioni di euro (che col passare del tempo diverrà sempre più caro) come “pedaggio” forfetario per il passaggio dei propri treni sul Ponte. Complessivamente le Ferrovie dovrebbero così sborsare circa 4 miliardi di euro in 30 anni e, come non bastasse, cui si deve aggiungere il costo di tutte le opere di collegamento, interamente a loro carico, e la rinuncia a 38 milioni di euro l'anno che ricevono oggi per svolgere il servizio di traghettamento dei convogli (e che saranno intascate dalla Società Ponte sullo Stretto di Messina). Che bell'affare, eh? Come faranno le Ferrovie, se questo scenario si dovesse davvero realizzare, a investire sul resto della rete, sul completamento del raddoppio delle linee ferroviarie Palermo-Messina e Messina-Catania ad esempio, è davvero difficile da immaginare. E come farebbe il Governo a giustificare questi aiuti pubblici di fronte all'Europa, che non li consente?

Un altro “leitmotiv” molto caro alla “lobby del Ponte” è che l'opera porterebbe molto lavoro: anche in questo caso, però, i dati mostrano una realtà tutta diversa. Con l'apertura dei cantieri arriverebbero, è vero, alcune migliaia di posti di lavoro “a tempo”, ma quasi altrettanti se ne perderebbero stabilmente nel settore dei collegamenti via mare, senza contare che a parità d'investimento la costruzione di opere pubbliche ex-novo produce un vantaggio occupazionale molto più basso che non la manutenzione e l'ammodernamento delle infrastrutture esistenti.
Oggi queste realtà sono diventate evidenti. Oggi il sì al Ponte è tra i simboli più efficaci di scelte fallimentari nel settore delle infrastrutture, non sostenute da alcuna seria e intellegibile politica dei trasporti e che rendono sempre più forte il predominio della mobilità su gomma, allontanandoci sia dall'Europa (non c'è in nessun altro grande Paese europeo un tale predominio del trasporto su gomma) e sia dall'approdo a sistemi di mobilità più sostenibili (senza un forte rilancio delle ferrovie, l'Italia non potrà conseguire quella sensibile riduzione dei consumi energetici indispensabile per centrare gli obiettivi di stabilizzazione del clima che ci impone il Protocollo di Kyoto).

Realizzare il Ponte sarebbe una decisione inconciliabile con l'obiettivo, che tutti a parole indicano come prioritario, di rendere il nostro Paese, e il Mezzogiorno in particolare, più moderni e più efficienti. Quest'opera che qualcuno ancora agita come una sorta di panacea per i mali del Sud, non proietterebbe la Sicilia e la Calabria verso il terzo millennio, semmai sottrarrebbe le risorse agli investimenti veramente utili per queste due regioni e le inchioderebbe a perpetuare definitivamente la peggiore “italietta” del passato.

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