Paure giurassiche, attacco a Kyoto
Nel suo ultimo romanzo, «State of Fear», uscito di recente negli Usa e di prossima pubblicazione anche in Italia, Michael Crichton si scaglia contro gli ambientalisti e sposa le tesi negazioniste a proposito del riscaldamento globale
12.03.05
Anche Crichton si è unito ai neocons? Non solo il suo ultimo romanzo, State of Fear, pubblicato alla fine del 2004 (HarperCollins), difende il boicottaggio americano del protocollo di Kyoto sposando le tesi «negazioniste» del danese Lomborg circa il cambiamento climatico (ribadite nel recente volume collettivo Global crises, global solutions), ma soprattutto presenta gli ambientalisti come pericolosi terroristi che scatenano artificialmente disastri naturali, per creare allarme mediatico, giustificare la propria funzione e finanziare il movimento. Nel libro la tesi del cambiamento climatico e del riscaldamento globale viene paragonata alle più aberranti teorie dei genetisti del ventesimo secolo, che approdarono alla selezione della razza, mentre gli scienziati dell'Ipcc (International Panel for Climate Change), che hanno concordato sugli effetti dell'attività umana sul clima, sono accusati di una «caccia alle streghe» contro chi la pensa diversamente. A differenza dei precedenti best-seller, stavolta Crichton abbonda in note a piè di pagina per dimostrare l'inconsistenza dei dati sul rialzo delle temperature e conclude con un messaggio in appendice intitolato «Perché la scienza politicizzata è pericolosa» e con una corposa bibliografia per documentare l'incertezza scientifica sul ruolo dell'anidride carbonica nel riscaldare l'atmosfera. Molti dei thriller di successo di Crichton sono basati sulla diffidenza verso la scienza e gli sviluppi tecnologici, dalle manipolazioni genetiche di Jurassic Park alle nanotecnologie di Preda, ma stavolta l'ambizione è di confutare lo stesso «principio di precauzione» che è al fondamento dell'impegno globale per la riduzione delle emissioni. E il tempismo di Crichton è tale che, anticipando lo tsunami di fine 2004, è uscito in libreria poche settimane prima, mettendo in scena un maremoto artificiale, miracolosamente sventato dal manipolo di eroi protagonisti della caccia ai diabolici ecoterroristi.
Lo scrittore si è talmente calato in questa sua crociata pragmatico-scientifica da trascurare il plot, in cui di solito è maestro. In State of Fear la trama è infatti mediocre e improbabile, tanto che il libro, a differenza dei precedenti, stenta a scalare le classifiche, e nel complesso le recensioni sono state negative, anche perché è fin troppo facile individuare i modelli a cui Crichton ha attinto per offrirne un'immagine caricaturale: da George Soros per il multimiliardario filantropo finanziatore del movimento ambientalista, a Martin Sheen, per l'attore protagonista di serial televisivi in cui impersona il presidente Usa, a Ralph Nader per il leader ambientalista che, pur di garantire il successo mediatico della sua conferenza, non esita a scatenare le catastrofi. Contro questi villains, gli eroi positivi - guidati da uno scienziato del Mit che è anche una sorta di 007 esperto di antiterrorismo - corrono da un angolo all'altro del pianeta per evitare all'ultimo minuto il distacco di un iceberg in Antartide o un'alluvione nel parco naturale dell'Arizona che rischia di travolgere comitive di scolaresche e scout.
I fan di Crichton e i teledipendenti della serie ER, da lui prodotta, rinunceranno comunque difficilmente a leggere il nuovo libro. Crichton è un ottimo divulgatore e leggendo i suoi romanzi/sceneggiature destinati a essere trasformati in film di successo, il lettore ha l'illusione di aver afferrato cosa sono le nanotecnologie, le modificazioni genetiche, o la competizione tecnologica tra Usa e Giappone. Stavolta lo scrittore divulga il credo anti-ambientalista, dandogli una veste di obiettività scientifica. Il personaggio «intermedio», un avvocato ingaggiato dal magnate ambientalista, e all'inizio convinto della buona causa, vede infatti smontate tutte le sue certezze dal professore del Mit e viene conquistato al dubbio (come dovrebbe succedere al lettore), fino a scoprirsi risorse di combattente contro gli ecoterroristi.
America scettica
Crichton è anche sempre molto attento ad aggiornarsi sugli ultimi sviluppi della società: basti pensare a E.R. e a come ci abbia offerto in concentrato tutta la casistica delle nuove coppie etero e omo, delle madri single, della procreazione assistita, dell'eutanasia, dell'Aids. Quando si discuteva di sexual harassment, lo scrittore ha mandato in libreria e poi al cinema Disclosure, con l'inversione dei ruoli e il personaggio della donna in carriera Demi Moore che perseguita il buon Michael Douglas. In Preda c'è la recente crisi finanziaria della società americana e il licenziamento del middle management, con il brillante esperto di computer relegato a ruoli casalinghi, mentre la moglie, ancora una donna in carriera, si lancia in pericolosi esperimenti. In Airframe c'è la crisi della grandi compagnie aree che cominciano a trascurare la manutenzione e le condizioni del personale. Di cosa parla allora State of Fear? Di un'America scettica sugli impegni e i valori e desiderosa di rassicurazione, un'America che non ha voglia di cambiare le proprie abitudini e che è stanca di sentirsi rimproverare, un'America talmente obnubilata dalla lotta antiterrorismo che non può concepire i propri critici che come terroristi, un'America diffidente dei liberals e dei media da loro dominati e in cerca di certezze: insomma l'America che ha votato per Bush.
A giustificare il titolo, interviene a un certo punto del romanzo un personaggio stravagante, il professor Hoffman, che si definisce studioso dell'ecologia del pensiero e si occupa di dinamica delle mode intellettuali: secondo Hoffman le idee di catastrofe ecologica, crisi finale e eventi estremi cominciano a prendere piede dopo il 1989, una volta esaurita la paura della minaccia comunista e della guerra nucleare. Il crollo del muro di Berlino avrebbe creato un vuoto e l'horror vacui viene riempito dall'idea della crisi ecologica: mentre il mondo si sviluppa, crescono ansie e fobie sulla tecnologia, l'alimentazione, l'ambiente che vengono nutrite dal sistema per continuare a tenere l'umanità appunto in uno «stato di paura». E ad alimentare quest'ansia è il complesso «politico-legale-mediatico» che ha sostituito il complesso «militar-industriale» del passato e che in tal modo manipola e governa, con l'aiuto delle università «neo-staliniste», pronte a inventare incessantemente nuovi terrori e nuove ansie.
En passant si accenna anche al terrorismo islamico e al dopo 11 settembre, come una reale causa di inquietudine, ma il vero bersaglio è il cumulo di false paure diffuse dagli ambientalisti. La conclusione è bonaria, ci vuole più ricerca, indipendente sia dall'industria che dagli ecologisti, e più ottimismo nelle «magnifiche sorti e progressive»: nel messaggio conclusivo Crichton si dice convinto che la popolazione mondiale del 2100 sarà molto più ricca di noi, consumerà più energia, sarà meno numerosa e si godrà la natura meglio di quanto facciamo oggi: «Non credo che dobbiamo preoccuparci per loro». Non occorre quindi avere paura per le future generazioni: le soluzioni si troveranno, e forse faremo a meno dei combustibili fossili senza bisogno di legislazioni, incentivi finanziari, o interminabili grida di allarme.
È un messaggio che può rassicurare tutti coloro che stanno mancando gli obiettivi di Kyoto e che di fronte ai richiami preoccupati rispolverano lo scetticismo. Non ci sarà da stupirsi quindi se in Italia il libro - in uscita a maggio - avrà buone recensioni tra i «kyotoscettici» nostrani, per confortare la posizione defilata rispetto agli impegni assunti dall'Europa e i risultati estremamente negativi del nostro programma di riduzione delle emissioni: il guaio è che l'impegno nelle energie pulite e rinnovabili fa parte di un salto tecnologico che Germania, Regno Unito e Francia stanno compiendo e da cui il nostro paese rischia di rimanere tagliato fuori, rafforzando il paventato declino industriale.
Quanto agli Usa, se da un lato rifiutano Kyoto, dall'altro hanno anche stati come la California che puntano a emissioni zero di combustibili da auto, mentre le industrie automobilistiche e petrolifere stanno differenziando comunque le opzioni, per prepararsi a un futuro di scarsità petrolifera in cui l'idrogeno potrebbe essere l'alternativa. Recentemente Rifkin, il guru dell'idrogeno, ha fatto un giro delle capitali europee, fiducioso che la vecchia Europa continui a perseguire la strada dello «sviluppo sostenibile», mettendo l'accento sulla sostenibilità energetica e annunciando l'inevitabilità del tramonto dell'era dei combustibili fossili. Anche lui è scettico su Kyoto, nel senso che non risponde all'entità del problema, e chiede un impegno accelerato e moltiplicato nella riconversione all'idrogeno, trovando ascoltatori attenti al Parlamento europeo e non solo nell'ala ambientalista.
Ambientalisti autocritici
Possiamo però chiederci se Crichton, con le sue antenne ipersensibili, non avverta una difficoltà del movimento ambientalista americano, ritrovatosi isolato nell'era Bush e sconfitto sul fronte della lotta contro il global warming: In effetti è in corso un bilancio autocritico, sintetizzato nel saggio di Michael Shellenberger e Ted Nordhaus The Death of Environmentalism (2004), frutto di venticinque interviste con leader di associazioni ambientaliste, che cerca di spiegare l'isolamento con un approccio tecnico e separatista, volto a risolvere problemi specifici di inquinamento, incapace di stabilire alleanze su un arco più ampio della società civile e con gli stessi comparti più avanzati dell'industria. Il saggio sta suscitando un ampio dibattito anche polemico, per il suo carattere eccessivamente liquidatorio della vecchia dirigenza formatasi negli anni Settanta. In particolare, viene contestata la sua conclusione: «Siamo convinti che l'ambientalismo moderno, con tutte le sue certezze non dimostrate, concetti obsoleti e strategie logorate, debba morire perché qualcosa di nuovo possa vivere». È sul fronte dei valori che gli ecologisti americani si rimproverano di non essere stati abbastanza persuasivi e sembrano imboccare con più decisione la strada dell'integrazione tra istanze di protezione ambientale e di protezione sociale, invitando ad apprendere la lezione dall'Europa.
In una recente replica sulla rivista Grist, Carl Pope, uno degli intervistati, direttore del Sierra Club, sottolinea come il problema del riscaldamento globale richieda una risposta altrettanto globale e orientata verso il futuro, che non è facile ottenere come reazione primaria: il rischio di cancro o l'intossicazione alimentare sono minacce immediate, su cui è facile mobilitare l'opinione pubblica, mentre sul cambiamento climatico c'è una battaglia culturale da condurre e una battaglia «su chi deve pagare» che si trova contrapposta la fortissima lobby del carbonio: il consumo di combustibili fossili, finora indicatore di sviluppo, deve essere percepito come indicatore di inquinamento e va applicato il principio «chi inquina paga». Ma non c'è una soluzione vincente immediata e per tutti: è un problema di riconfigurazione delle risorse mondiali, di «nuovo ordine economico» in cui ci saranno dei perdenti, e sicuramente molti dei gruppi attualmente al potere negli Usa.
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