Requisiti minimi di una civiltà
19.03.05
L'ecocidio è un suicidio. La civiltà stessa è diventata un'arma di autodistruzione di massa. Quando leggo queste affermazioni mi tornano alla mente le parole pronunciate da Gandhi in una celebre intervista. Un giornalista gli chiese: «Che cosa pensa della civiltà occidentale?» Dopo un momento di riflessione, Gandhi rispose: «Potrebbe essere un'idea».
Perché una civiltà possa essere definita tale, deve possedere un minimo di requisiti. In primo luogo la durata: non può definirsi civiltà un sistema che sfrutti la Terra in maniera tale da esaurire le sue risorse in pochi decenni. Sistemi che applicano il genocidio non possono definirsi una civiltà. Sono mondi privi di una dote essenziale: la "perpetua saggezza".
Le religioni giocano un ruolo fondamentale nelle civiltà. Ma queste religioni possono essere reinventate? Io credo che siano già state reinventate. Dobbiamo ri-reinventarle un'altra volta. Vorrei farvi alcuni esempi di reinvenzione delle religioni. Anni fa ebbi l'occasione di visitare alcuni musei della Toscana. Un pensiero mi girava per la testa: non riuscivo a capacitarmi che la Chiesa cristiana che io avevo conosciuto in India fosse la stessa Chiesa che trionfava nell'Europa del XV secolo. Scoprii una cultura religiosa affascinante: i dipinti che ne raccontavano le glorie avevano al centro un immaginario straordinario. La Madonna aveva un ruolo fondamentale. Ma era la natura ad avere un ruolo essenziale: nel Rinascimento la biodiversità era il fulcro dell'universo.
Eppure in quegli anni venivano anche soffocate le libertà e stava nascendo un meccanismo destinato a dominare mondi lontani dall'Europa.
Io mi stupisco sempre delle dotte discussioni attorno all'autorità del Papa. Siamo tutti preoccupati delle scomuniche verso le politiche di controllo delle nascite, ci allarmiamo per le opinioni della Chiesa sui preservativi, ma raramente ricordiamo che fu un pezzetto di carta, una bolla pontificia del 1492, ad autorizzare genocidi ed ecocidi. Quel documento papale legittimò i primi passi del colonialismo.
Trasformò una violenza terribile in un dovere cristiano. Quando andiamo a leggere i documenti che testimoniano le uccisioni dei nativi americani, scopriamo che la ragione per cui dovevano essere sterminati era il loro rifiuto del "progresso". Non volevano coltivare la terra per renderla merce e si ostinavano a trattarla come una madre. Queste società vivevano un equilibrio perfetto fra natura umana e non umana. Non commettevano un errore che noi facciamo spesso: è sbagliato parlare di rapporti fra uomo e natura. Gli essere umani fanno parte della natura, i guai sono cominciati quando gli uomini, alcuni uomini, si sono considerati al di fuori della natura. Oggi è essenziale radicarvisi nuovamente.
Ma per secoli e secoli, e spesso ancora oggi, il fatto che alcune società fossero parte integrante della natura è stato considerato solo una prova della loro arretratezza. Non aveva alcun valore che la filosofia, l'economia, l'agricoltura e la cultura di queste società fossero in simbiosi con la natura: dovevano essere sopraffatte ed eliminate perché inferiori.
Io porto il sari, sono cresciuta in una cultura in cui sei metri di stoffa sono la mia casa e la mia libertà. Il sari dovrebbe essere consigliato a tutti! E' un abito così fresco, ventilato: quando lo indossi non avverti mai troppo caldo o troppo freddo. Ebbene, c'è stato chi è venuto a chiedermi: come mai indossi il sari già da due giorni? Come ci fossero occasioni in cui il sari potesse essere fuori posto.
La reinvenzione della religione ha fatto sparire la natura, ha cancellato il ruolo della donna dalla società europea. Una scomparsa analoga si è prodotta nel resto del mondo a causa dell'errore cartesiano che ha spinto a non limitarsi a elaborare la scienza e la tecnologia, ma a plasmarle fino a farle diventare l'immagine della società. La diversità è stata ripensata in termini cartesiani.
In India tutto questo è evidente e terribile. La parola «indù» era l'identità di una regione. L'identità di un luogo chiamato «terra oltre l'Indo». Questo è stato vero nel XV secolo quando in questa terra arrivarono i musulmani afgani. Furono sconfitti, nel 1526, nella battaglia di Panipat. In quelle visite ai musei toscani, a un certo punto, mi sono ritrovata in una stanza colma di carte geografiche. La mia India era indicata come la terra del Gange: la nostra identità era data da questo fiume sacro. Il Gange è stato la nostra cosmologia e la nostra geografia: era la nostra immagine come veniva percepita dai cartografi di terre lontane da noi. Fino al momento in cui siamo stati colonizzati, noi eravamo «la terra del Gange», la nostra cultura poggiava sulle acque sacre di questo fiume. Furono i persiani a cominciare a parlare di Indostan, del fiume Indo. Il suo nome originale era Sindu: la terra che attraversava era conosciuta come Sindth. Per un tragico errore cartesiano era destinata a essere divisa fra India e Pakistan.
Quando Muhammad Babur, il fondatore Moghul, arrivò in India dalle steppe dell'Asia centrale, rimase affascinato dall'Indostan: «Un Paese meraviglioso dove c'è un primo, un secondo e un terzo clima» L'Indostan per il nuovo imperatore era diverso da ogni altro Paese. Gli alberi, le terre coltivate, gli animali, le piante, i linguaggi, le piogge, i venti: tutto era diverso. Una volta che si oltrepassano le acque del Sindu, tutto è «alla maniera dell'Indostan».
La maniera dell'Indostan era propria anche dei cristiani ortodossi dell'India meridionale. Tuttora vi sono cristiani sidian che hanno origini più antiche della Chiesa cattolica romana. Ma questa era anche la terra dei sufi, arrivati in India ben prima dei moghul: qui affinarono una grande spiritualità. Vi sono seimila tribù in India. Tutti noi eravamo indù.
Nel 1600 venne creata la Compagnia delle Indie Orientali. Nel 1757 questa società corruppe un generale e si impadronì del Bengala: fu la prima colonia inglese. Pochi anni dopo, la Compagnia corruppe anche l'ultimo moghul e gli impose il primo trattato sul libero commercio. Fu così che il termine «indù», che definiva un'identità ecologica, un'identità della terra, si trasformò in un vocabolo religioso: che escludeva i musulmani. Tutto ciò è annotato in un diario del governatore Warren Hastings, un funzionario coloniale destinato, come tutti i direttori della Compagnia delle Indie Orientali, a essere processato in Inghilterra per corruzione.
Hastings distrusse l'India dalle mille culture, la ridusse a una terra divisa. Con due culture artificiali che si escludevano a vicenda. Creò la struttura legale per una segregazione basata su una falsa identità religiosa, che ancor oggi ci opprime. Disse: dobbiamo governare gli indiani secondo le loro leggi. Però non ci consultò per sapere quali fossero le nostre leggi e decretò: il Corano governerà i musulmani - a quel tempo chiamati maomettani - mentre le leggi del Chasta, che significa «testo scritto», decideranno le sorti dei gentus (Hastings non sapeva nemmeno pronunciare la parola «indù»!) Ma l'India è così meravigliosamente caotica. Non ha alcuna fiducia in un testo scritto: è sempre stata la tradizione orale a essere sistema di governo. A seguito di quella finzione, la nostra terra è stata oppressa da identità che non erano mai state nostre. Questo ci divise, ci spezzò. Due milioni di persone vennero massacrate.
La mia musica preferita è il drupat, la più antica dell'India, la più antica musica classica tradizionale. La famiglia che suona ancora questa musica è di origine musulmana. Si chiama Dahgas. Ogni famoso musicista indiano, che si tratti dell'Ostadt Bismelokhan che suona lo sheehnhai, o di Hahlowet Inkah che ha composto Ravish Nikah Sitar, è devoto a Saraswati, dea dell'apprendimento. I musicisti avevano in casa immagini di questa divinità. Ma vennero tutte rimosse: a chi ci si poteva rivolgere per sapere quali fossero le nuove leggi? A bramini e mullah corrotti, gente staccata dalla società, dalle culture tradizionali. Non rappresentavano nessuno, ma le loro leggi continuano ancor oggi a opprimerci.
Nella mia India, nel maggio del 2004, si è votato. La decisione di convocare le elezioni fu comunicata, all'improvviso, a gennaio. Il governo che le convocò era salito al potere sull'onda di una ideologia anti-islamica. I suoi ministri dovevano aver letto le pagine di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà: sostenevano di sapere chi erano solo in quanto sapevano chi odiavano! Io provengo invece da una civiltà che dice: «Tu sei me, io sono te, quindi io sono - io esisto - grazie a te». La terra mi plasma, il cosmo mi plasma. L'ideologia indù, invece, per affermare la sua identità, è basata sull'odio verso il prossimo: essere indù significava «non essere musulmano».
Il governo andato al potere in India nel 1992 era diventato così potente solo grazie a un crimine: avevano fatto demolire la moschea di Babur, la moschea Ayodhya, dichiarando di avere così salvato il luogo di nascita di Rama. Uno dei punti di forza della politica di quel governo era una religione esclusivista, fondata su una identità falsa e forzata. La sua cultura era un nazionalismo culturale privo di profondità, ma, quasi come paradosso, a suo agio con i dogmi della globalizzazione economica. Un nazionalismo che esclude tutte le minoranze e le culture del proprio Paese si fa alleato di una globalizzazione che dice: «Abbiamo bisogno di più auto, di più autostrade, di cambiare il corso dei nostri fiumi, di mangiare da McDonald's».
Per la campagna elettorale del 2004, il partito di governo assoldò, per cento milioni di dollari, la Grey Global, una società pubblicitaria americana. Ma qualunque indiano avrebbe potuto suggerire come raccogliere voti: rispondere ai bisogni della gente, salvaguardare le risorse, porre fine alla crisi idrica, nutrire gli affamati, dare lavoro ai disoccupati.
L'agenzia non suggerì niente di tutto questo. Ma si inventò due slogan: «L'India che splende» e «Il fattore feel good». Quest'ultima espressione è intraducibile in hindi, in tamil o in guggurati, così che quando Advani, il ministro che aveva demolito la moschea, si recava nei villaggi, i contadini gli rispondevano: «Conosciamo il gurd, fatto con la canna da zucchero: è il nostro zucchero naturale. Ma quale pianta è il feel, con cui si fa quest'altro zucchero?»
Contro il partito di governo si schierò un'italiana, Sonia Gandhi, indiana per cittadinanza. Ha percorso 60.000 chilometri, ha incontrato la gente, ha viaggiato nella polvere, ha affrontato il tema della disoccupazione, ha parlato ai contadini. Non ha mai fatto cenno all'India shining, lo «splendore dell'India». Ha domandato: «Che cosa vuole la gente comune?» Sonia Gandhi ha posto sul tappeto il problema della vita quotidiana. Non è stata una sorpresa che il suo partito abbia raccolto tanti consensi.
Tutte le riflessioni contorte su come una donna italiana potesse vincere le elezioni non tenevano conto del fatto che gli indiani votavano per lei in quanto indiana. La stessa Corte Suprema aveva approvato la sua candidatura sostenendo che nessun cittadino può essere discriminato, né ritenuto inidoneo a ricoprire qualsivoglia carica o ufficio, sulla base di motivi religiosi, razziali o di luogo di nascita. La gente ha votato per Sonia Gandhi. La Costituzione ne riconosceva i requisiti per essere eletta. Siamo una cultura di appartenenza: e le elezioni del 2004, in India, sono state un voto a favore di questa antica tradizione che non esclude, ma include. E' stato un voto contro la globalizzazione, un voto per porre nuovamente l'accento sulle questioni che veramente riguardano il popolo: l'acqua, il cibo, i fiumi, le foreste, la terra.
Le capacità di un governo di reggere le sorti di un Paese con giustizia restano, purtroppo, un'altra cosa: la globalizzazione è una macchina potente, non esiste una democrazia economica, la gente non può decidere su come gestire i sistemi idrici e nemmeno cosa mangiare. Non può decidere come organizzare la produzione, come creare posti di lavoro, quali diritti esercitare sulle risorse. E questo, a parer mio, è proprio il punto da cui partire per ricomporre i legami con la natura. Dobbiamo muoverci verso una nuova democrazia economica se vogliamo essere capaci di stabilire una vera democrazia della Terra. Ed è necessario farlo, se vogliamo evitare l'ecocidio-suicidio-genocidio.
Si commettono molti errori quando si parla di cambiamenti climatici, di riscaldamento globale, di sovrappopolazione. Non tollero che si dica che la popolazione mondiale è responsabile dell'inquinamento da anidride carbonica, da zolfo, da azoto: la gente comune, nel Sud del mondo, non vive certo in un'economia fondata sui combustibili fossili.
I piccoli contadini dell'Africa o dell'India sopravvivono perché nelle loro minuscole abitazioni producono rifiuti che vengono recuperati e bruciati, di notte, nella stufa. Si nutrono di quanto ricavano dalla foresta e dalle loro piccole coltivazioni. Questo tipo di economia biodiversificata non provoca certamente emissioni in atmosfera di anidride carbonica.
Le emissioni di gas-serra da combustibili fossili provengono da quel sistema che ha provocato gli «schiavi energetici». Se si vuole ridurre l'inquinamento atmosferico, responsabile dei cambiamenti climatici, dobbiamo ridurre il numero di questi schiavi dell'energia. Occorre diminuire il consumo energetico, è necessario passare alle fonti rinnovabili.
Dobbiamo cominciare a rispettare quelle culture che non considerano la combustione del legno come una forma primitiva di economia, che non giudicano il concime naturale uno stadio di sottosviluppo, che non prendono un vaso di terracotta per un simbolo primitivo. E' il frigorifero che sta cominciando a essere un simbolo di arretratezza. La sfida che ci troviamo davanti, a questo punto, sta nel reinventare la nostra umanità, reinventare ciò che significa «essere umano evoluto». Io ritengo che un parametro sia questo: più combustibili fossili usi, più sei arretrato e primitivo. Meno ne usi, più sei evoluto. Non posso accettare che si suggerisca di eliminare la popolazione del Sud del mondo, il più evoluto, a mio modo di vedere. Io sono certa che i contadini indiani hanno da insegnare molto all'Occidente. E anche se spazzassimo via cinque miliardi di abitanti del Terzo mondo, il cambiamento climatico continuerebbe a prodursi. Non è tollerabile che, ogniqualvolta si affronti il problema della sovrappopolazione, quasi si suggeriscano come soluzioni possibili qualcosa di molto simile al genocidio. Quando la Banca Mondiale scrisse il primo rapporto sull'Aids, in un minuscolo paragrafo si leggeva che avremmo dovuto «accogliere favorevolmente l'Aids, dato che serve per il controllo demografico». Qualcuno al summit di Rio de Janeiro, durante la prima Conferenza mondiale sull'ambiente, nel 1992, non esitò a sostenere che avremmo dovuto ritirare tutti i finanziamenti al Terzo mondo e lasciare morire i bambini: così si sarebbe risolto il problema del sovrappopolamento. E, di conseguenza, quello ambientale.
Quando suggeriamo «la scomparsa della maggioranza» ho l'impressione che una logica di sterminio si sia consolidata anche nella trincea più illuminata della società occidentale. Perché è solo così che un quinto della popolazione mondiale potrà continuare a guidare auto sempre più veloci e a utilizzare tecnologie inquinanti. Ma questo pianeta non appartiene a quel quinto di umanità: appartiene ai sei miliardi di persone che lo abitano, appartiene alle trecentomila specie che ci vivono. Ognuna di esse ha diritto alla sua parte di risorse.
Ci sono due insegnamenti che io traggo dalla mia cultura. Il primo dice: se consumi più di quanto hai bisogno, stai rubando la parte di risorse che appartiene a qualcun altro. Sia che si tratti di atmosfera, di acqua, o di biodiversità. Il secondo insegnamento è di Gandhi: «Questo pianeta ha abbastanza risorse per tutti, ma non ne ha abbastanza per l'avidità di pochi».
*Presidente commissione internazionale sul Futuro del Cibo
Testo tratto dal Libro "Cambiare aria al mondo. La sfida dei mutamenti climatici" di Claudio Martini edito da Baldini e Castoldi
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