Quattro milioni di vite salvate se l'Africa passasse dalla legna al carbone
Nei prossimi 25 anni nell’Africa sub-sahariana circa 10 milioni di persone moriranno prematuramente a causa dell’inquinamento prodotto dall’uso della legna per cucinare e riscaldarsi. Tra queste, fino a 4 milioni potrebbero essere evitate utilizzando una diversa fonte energetica, come il carbon fossile o il petrolio, e tecnologie già disponibili. Questa semplice transizione energetica, inoltre, consentirebbe di abbattere le emissioni di anidride carbonica in atmosfera di 6,7 miliardi di carbonio da qui al 2050. La previsione è stata proposta nei giorni scorsi sulla rivista Science da Majid Ezzati, Daniel Kammen e Robert Bailis, tre ricercatori che lavorano a Berkeley, in California. E sebbene sia, come tutti gli scenari di questo tipo, soggetta a errori, a indeterminazioni e (a nostro modesto avviso) omissioni, l’analisi è di estremo interesse per almeno due motivi. Perché ci ricorda quanto pericoloso possa essere l’inquinamento dell’aria. E quanto difficile, articolata e a tratti contraddittoria possa essere il cammino verso lo sviluppo sostenibile.
Ma seguiamo l’analisi dei tre ricercatori americani.
Il 94% della popolazione rurale e il 73% della popolazione urbana nell’Africa sub-sahariana utilizza legna o carbone prodotto dalla legna come fonte primaria di energia, cioè per cucinare e riscaldarsi. Ogni anno i 650 milioni di abitanti a sud del Sahara bruciano 470 milioni di tonnellate di biomassa (0,72 tonnellate a testa).
L’uso della legna come fonte primaria di energia è tipica di un’economia molto povera. Nell’Africa sub-sahariana manca una rete elettrica diffusa, così come una rete di distribuzione efficace di combustibili fossili (gas, petrolio, carbone) per i consumi familiari. Cosicché la gran parte delle famiglie è costretta a raccogliere la legna per soddisfare i suoi bisogni energetici primari.
La raccolta è sempre più difficile. E sempre più dannosa. Molti studi hanno dimostrato che per trovare legna gli africani, anzi le donne africane, devono ogni giorno percorrere un tragitto più lungo. E che la raccolta determina un costante arretramento delle foreste e l’implacabile avanzata dei deserti.
Ma l’uso di quello che gli esperti chiamano «woodfuel» (legna più carbone prodotto dalla legna) non ha solo effetti negativi sull’ambiente. Ha anche effetti negativi diretti sulla salute. La combustione delle biomasse produce una gran quantità di inquinanti. E, poiché la combustione viene realizzata in casa, produce un formidabile «inquinamento indoor». In breve, ogni anno – calcola Majid Ezzati – al mondo muoiono 1,6 milioni di persone a causa della cattiva aria che respirano bruciando biomasse. Tra loro 400.000 sono persone che abitano nell’Africa sub-sahariana. La gran parte di queste morti premature sono di bambini e di donne.
In regime di «business as usual», ovvero se in quell’area del mondo nella cambia nel modo di soddisfare i propri bisogni energetici, tenendo conto di una serie piuttosto complessa di fattori, ivi incluso l’incremento demografico, il numero complessivo di morti premature nell’Africa saub-sahariana causate dalla combustione di biomasse da qui al 2030 potrebbe essere di 9,8 milioni.
L’uso della legna quale combustibile è, dunque, una causa importante di morte. Di morti evitabili. E, quindi, da evitare. Per questo motivo Ezzati, Kammen e Bailis hanno immaginato uno scenario diverso. Dove, con semplici accorgimenti, almeno una parte di questo imponente numero di decessi prematuri potrebbe essere evitato.
Hanno provato a immaginare una transizione dalla legna ad altri combustibili facilmente accessibili: il carbone e il petrolio. Nel primo caso, sostengono i ricercatori, passando dalla legna al carbon fossile dei 9,8 milioni di morti premature da qui al 2030 se ne potrebbero evitare da un minimo di 1,0 milioni a un massimo di 2,8 milioni. Nel secondo caso, passando dalla legna al petrolio, si potrebbero evitare da 1,3 a 3,7 milioni di morti premature. La transizione energetica è possibile sulla base del reddito e delle tecnologie disponibili, purché ci sia un’adeguata ricerca e un ancor più adeguata diffusione delle conoscenze.
Inoltre la transizione consentirebbe di abbattere le emissioni di carbonio in atmosfera di 6,7 miliardi di tonnellate di carbonio – quasi il 6% delle emissioni totali dell’Africa sub-sahariana – da qui al 2050.
Ma come, diranno molti, in occidente si parla di diminuire l’uso dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) e in Africa si propone di aumentarli? La contraddizione è solo apparente. La legna, infatti, è un pessimo combustibile. A parità di calorie prodotte, immette in atmosfera una quantità di anidride carbonica superiore ai combustibili fossili. Cosicché la transizione dalla legna al carbone o al petrolio consente, a parità di risultati energetici, un abbattimento delle emissioni di gas serra.
Tuttavia c’è un’altra obiezione, più fondata. Perché Ezzati e i suoi colleghi hanno puntato solo su carbone e petrolio? Perché non hanno provato a elaborare scenari con fonti energetiche alternative – come il solare termico e l’eolico – almeno altrettanto agili (e facilmente fruibili) e certamente meno inquinanti del carbone e del petrolio? L’Africa ha la necessità di riconvertire al più presto le sue fonti energetiche. Ma non deve necessariamente compiere gli errori dell’Occidente.
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