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Le eresie ambientali che incendiano gli Usa

Oltreoceano ci si accapiglia sul modello di sviluppo. L'altra faccia dello scontro tra Legambiente e Italia Nostra
Il caso Brand Polemiche sulla stampa americana per le tesi del «revisionista ambientalista», Stewart Brand. Meglio il nucleare dell'eolico
24 maggio 2005
F. C.
Fonte: www.ilmanifesto.it
22.05.05

Dal Massachusettes Institute of Technology uno si aspetterebbe un certo rigore: fatti, cifre, razionalità. E' dunque con una certa sorpresa che ci si imbatte in «Eresie ambientali», un articolo pubblicato nel numero di maggio della sua Technology Review il quale, fin dal titolo, mette in chiaro la sua intenzione primaria: far parlare di sé, facendo rumore. E l'obiettivo è stato raggiunto, dato che quell'articolo venne subito raccolto e amplificato dal New York Times, dal Washington Post e a ruota da molti altri quotidiani. Il pezzo in questione è stato così raccontato: anche gli ambientalisti, o almeno alcuni di loro, sono ormai favorevoli al nucleare. Ma è vero? Intanto Stewart Brand, l'autore "eretico", non ha affatto quel curriculum di ambientalista. E' semmai un noto e valido esponente del pensiero tecno-utopista californiano, secondo il quale per ogni problema c'è sempre una soluzione, basta attingere alle più avanzate tecnologie: «il miglior modo per controllare una tecnologia discutibile è abbracciarla». Ovviamente anche i tecnologi hanno diritto di parlare di ambiente e magari porteranno idee buone, ma da loro ci si aspetterebbero idee non approssimative. Invece l'articolo di Brand è ricco di sgradevoli banalità e di conoscenze approssimative presentate come certezze, ovvero quanto di pi+ antiscientifico si possa dare: 1. la crescita eccessiva di popolazione non è un problema, anzi sta frenando. E il motivo della frenata è l'urbanizzazione spinta che tutti i paesi conoscono. Dunque i verdi non si dovrebbero troppo preoccupare delle megalopoli e forse persino accoglierle con favore.

Gli Ogm sono da sviluppare perché risolveranno fame e carestie, basterebbe soltanto che le tecnologie siano "Open" come il software e non in mano alle multinazionali. Sfugge all'autore il piccolo particolare che gli Ogm sono primariamente sviluppati per assicurare un monopolio permanente alle suddette, grazie al meccanismo per cui le sementi ingegnerizzate si devono comprare ogni anno, in tal modo si intende rovesciare la geniale pratica inventata 10 mila anni fa dai primi agricoltori, quella di tenere per la semina successiva una parte del raccolto. Né sembra curarsi, l'autore, del fatto che le monoculture dilaganti sono ad altissimo rischio, dato che eliminano la diversità biologica, prezioso patrimonio cui fare ricorso quando emerga una malattia nuova o un cambiamento nell'habitat.

Infine il nucleare, che è ottimo per combattere l'effetto serra, dato che non emette CO2 nell'atmosfera. Quanto allo smaltimento delle scorie, questo sarebbe «un problema superabile» (ma come egli non dice, aspettiamo ansiosi, così ci buttiamo nel business anche noi). A favore di un ritorno all'energia nucleare, per la quale si è pronunciato anche il presidente americano Bush, ci sono due fatti oggettivi, il riscaldamento globale (e il relativo protocollo di Kyoto che mira a ridurlo) e le incognite geologiche e geopolitiche sulla disponibilità di petrolio. L'ideale in verità sarebbe una fonte energetica a) non inquinante b) poco costosa c) non pericolosa d) non utilizzabile dai terroristi (stati o gruppi), ma proprio qui casca il nucleare, come tutti ben sanno, anche i suoi interessati quanto ipocriti profeti. Esso infatti soddisfa (e solo in parte) il primo requisito, dato che nell'aria non emette gas serra (ma produce scorie pressocché immortali). Invece i costi economici sono, e saranno, elevatissimi, se la contabilità viene fatta sull'intero ciclo di vita di una centrale e non già, truffaldinamente, sui soli costi di esercizio. Quanto alla sua sicurezza, essa è certamente migliorata negli ultimi anni, ma i cosiddetti reattori intrinsecamente sicuri non saranno disponibili prima di vent'anni.
Le tecnologie che si candidano per la IV generazione sono almeno sei, ma solo due, a detta degli esperti, appaiono vincenti; in sigla vengono chiamate Scwr e Vhtr. In tutti i casi il trucco per ottenere rese migliori e dunque costi più bassi del kilowattore, è di operare a alte temperature, dai 500 ai 1000 gradi, per ottenere una migliore conversione del calore in elettricità. La prima tecnologia (Supercritical Water Cooled Reactor) usa l'acqua come raffreddante, ma ad altissime pressioni, di modo che non evapori. La seconda tecnologia, Very Hight Temperature Reactor, viene attualmente provata in un reattore giapponese dove il raffreddante è l'elio e sono già state raggiunte temperature di 950 gradi. Tra i vantaggi ipotizzabili derivanti da queste tecniche c'è la possibilità di produrre anche idrogeno, staccandolo dalle molecole d'acqua con un processo termochimico. E proprio all'idrogeno molti guardano come al "carburante" del futuro per i mezzi di trasporto. In ogni caso, e al di là di ogni altra considerazione, i più ottimisti contano di avere dei prototipi provati non prima dell'anno 2030 e comunque uno studio del Mit ha messo seriamente in dubbio che dal nuovo nucleare possano derivare prezzi dell'energia competitivi con il carbone e il gas. Questo è il vero problema che mina la fiducia nella IV generazione. E non abbiamo parlato delle scorie né della minaccia terrorista.

La conclusione è che anche il Mit, nella sua rivista, pubblica della spazzatura e dunque anche al famoso politecnico di Boston si dovrebbe applicare il recente monito di Gianni Riotta: «Se non aiutiamo ciascuno a trovare il suo filo razionale nel labirinto globale dei media dove il Minotauro dell'ignoranza si nutre di rumore di fondo, i lettori reagiscono d'istinto, al volo. Smettendo di comprare i giornali» (Corriere della Sera (18 Maggio 2005). Più interessante semmai è la discussione che si è aperta nei mesi scorsi tra ambientalisti veri, dopo la vittoria di Bush alle presidenziali. Anche in questo caso il tono è acceso: «La morte dell'ambientalismo». In questo caso si tratta di una critica dura, ma per così dire da sinistra. I due Michael Shellenberger e Ted Nordhaus, sostengono che i movimenti ambientali americani hanno passato gli ultimi 15 anni a fare lobbying con il governo e con le comunità locali, ma senza ottenere risultati davvero significativi di fronte a una crisi dell'ambiente che ha caratteri globali.

Aggiungono allora che per conquistare i cuori e i voti degli americani occorre al movimento verde un'ambiziosa strategia, anche utopica. Dello stesso tono un altro intervento: «L'ambientalismo è morto?». L'autore è Adam Werbach, già presidente di una delle più storiche associazioni ambientali americane, il Sierra Club. Disse dunque Werbach nel dicembre scorso, a San Francisco: «Non voglio più definirmi un ambientalista ... l'ambientalismo è in gran parte morto perché non è stato capace di offrire una visione convincente e irresistibile (compelling) del futuro dell'America». La tesi è che il movimento verde deve "semplicemente" presentarsi come liberal e progressivo. Come è facile intendere, anche la recente polemica tra Italia Nostra e Legambiente è parente di questa discussione. Una discussione seria è, anche in Italia, la questione utopica, ovvero dell'orizzonte cui guardare. Tutte cose di cui a un ex ambientalista come Francesco Rutelli così come ai verdi politicanti non glie ne può importare di meno. Ma queste sono le miserie italiche, quelle che ci fanno sognare California.

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