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Il cartello tra Usa, Australia, Cina e India contro l'accordo sul clima

C'è un piano di Washington che vuole seppellire Kyoto

29 luglio 2005
Sabina Morandi

Bush Per cinque ore gli attivisti di Greenpeace a bordo della mitica Rainbow Warrior sono riusciti a bloccare il porto australiano di Newcastle, il più grande scalo marittimo mondiale per l'esportazione del carbone. Non ci poteva essere modo migliore per celebrare il varo l'ennesimo piano proposto dall'amministrazione Bush in alternativa al protocollo di Kyoto, e fatto subito proprio, tra gli altri, dal premier australiano John Howard, fedele suddito in visita alla Casa Bianca. Nell'annunciare al mondo le meraviglie dell'Asia-Pacific Partnership for Clean Delevopment and Climate (Partnership Asia-Pacifico per lo sviluppo pulito e il clima), il murdocchiano The Australian non ha mancato di criticare il famoso protocollo che l'Australia, come gli Stati Uniti, rifiutano di firmare, protocollo che il quotidiano definisce definitivamente superato «dall'accordo segreto» fra le principali potenze economiche della regione, ovvero Cina, India e Sud Corea. Indubbiamente riuscire a far ragionare i paesi responsabili del 40 per cento delle emissioni globali sarebbe davvero un grande progresso se il piano non fosse appunto segreto e se le misure fossero significative, e non semplicemente una mossa propagandistica del governo di Camberra, alle prese con la più grave siccità della storia del paese.

Siccità, tempeste tropicali e ricorrenti alluvioni hanno infatti costretto il governo Howard a commissionare uno studio sul cambiamento climatico dal quale sono emersi dati a dir poco allarmanti. Di qui al 2070 le temperature in Australia potrebbero innalzarsi da 1 a 6 gradi, a fronte di un aumento globale della temperatura che si aggira sullo 0,6 per cento negli ultimi cento anni ma che ha già provocato non pochi disastri. Considerando che il boom asiatico è alimentato principalmente dal carbone e dal gas australiani, il paese era ovviamente chiamato a in causa, soprattutto ora che padron Bush ha ammesso l'inammissibile dopo anni di accanita rimozione dell'effetto serra. Finalmente i sudditi possono dire ad alta voce che il pianeta si riscalda e che bisogna fare qualcosa, ma non pensino di affidare decisioni e programmi ai ricercatori indipendenti e agli accademici che hanno lavorato alla stesura del Protocollo di Kyoto, con il rischio di resuscitare quel minimo di autorità che ancora rimane alle Nazioni Unite.

Ecco allora le trattative segrete - pare fossero in corso già da qualche mese - gli scambi di favori - vedi l'incontro fra il primo ministro indiano e Bush, che hanno fruttato all'India il va libera al nucleare civile - e le trovate promozionali. Ed ecco, naturalmente, le iperboli sulle mega innovazioni iper tecnologiche che salveranno il mondo senza cambiare di una virgola il nostro stile di vita. Si parla ad esempio di «gassificazione del carbone» e di «cattura e conservazione dell'anidride carbonica» entrambe tecnologie timidamente esplorate dalle imprese petrolifere e ancora in fase sperimentale: per essere impiegate in modo significativo sono necessari anni di costose ricerche e montagne di sovvenzioni governative.

Certo, almeno nella parte resa pubblica, vengono citate en passant anche energie rinnovabili come solare e vento, e viene ricordato al pubblico che «bisogna tendere verso un futuro pulito», ma la misura più efficace e rapida, un drastico piano di risparmio energetico in grande scala come quello attuato negli Stati Uniti dopo lo shock petrolifero degli anni '70, non viene nemmeno menzionata. In compenso, dal mare del segreto emerge la punta dell'iceberg di un progetto che, più che ambientalista, sembra esclusivamente commerciale: il ruolo decisivo dell'Australia nell'esportare uranio verso l'India e la Cina.

Ancora una volta i leader mondiali dimostrano di navigare a vista quando si tratta di affrontare una crisi considerata epocale dalla maggior parte degli osservatori, con un occhio alla strategia geopolitica e l'altro agli interessi - a breve termine - di alcuni gruppi industriali, in particolare i produttori di carbone, come ha ricordato ieri il leader verde australiano Bob Brown. Eloquenti, a questo proposito, sono le dichiarazioni del cosiddetto ministro per l'Ambiente della federazione australiana, il senatore Ian Campbell, che considera «l'energia nucleare come parte della soluzione» e si dice certo che «l'Australia può giocare un ruolo importante nella riduzione dei gas serra producendo tutto l'uranio che serve al mondo». L'altra soluzione, secondo Campbell, è dedicata agli amici del biotech: soltanto le piante transgeniche consentiranno «alle imprese agricole di adattarsi al mutamento climatico riconvertendosi a colture più resistenti alla siccità». Peccato che, anche in questo caso, la ricerca sia ancora a "caro amico".

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