La globalizzazione resta senza benzina
2.11.05
«Andavo male in geografia perché pensavo che non avrei mai viaggiato. Invece eccomi qui, cittadina del mondo. Posso spegnere la televisione per non vedere le ragazze decapitate dai terroristi, gli uragani e le guerre, ma resto cittadina del mondo e quindi corresponsabile, in bene e in male, di tutto ciò che accade». Così parlò Sharon Stone in quel di Rimini, davanti a ministri e sottosegretari, amministratori di corporation e professori di geologia, esperti d'investimenti e (pochissimi) ambientalisti. Ma cosa c'entra una star di Hollywood con il petrolio? Con l'abilità dell'attrice consumata, capace di dire cose molto intense su argomenti astrusi, Sharon ha alimentato il clima surreale di un apocalittico convegno tenutosi nella felliniana atmosfera del Grand Hotel di Rimini dove, più che confrontarsi, gli esperti di petrolio hanno recitato il proprio copione come la diva, invece di ragionare seriamente sulla crisi dietro l'angolo: la fine dei combustibili fossili e quindi dello sviluppo come lo conosciamo.
Un palcoscenico prestigioso, quello messo a disposizione dal Centro Pio Manzù, che il ministro Scaloja ha utilizzato per lanciare la sua idea di energia pulita: il buon vecchio nucleare appena riveduto e corretto. Non è stato certo il clou delle giornate internazionali di studio - la stampa internazionale infatti ha dedicato ben poco spazio ai fan dei reattori - ma era quello che aspettavano i giornali nostrani subito pronti a raccogliere l'annuncio del ministro delle Attività produttive sulla rinascita dell'Ansaldo nucleare (smantellata dopo il referendum del 1987) come fosse direttamente scaturita dall'acclamazione degli esperti dell'energia.
Ma di acclamazioni se ne sono viste poche - tranne quelle dedicate alla diva - e tanto meno per nuovi reattori che, per quanto più sicuri, non hanno affatto sciolto i dubbi degli esperti: sulla sicurezza - è stato menzionato più volte il rischio del terrorismo - sullo smaltimento delle scorie - un problema irrisolto anche per gli stessi francesi che hanno smesso di costruire da parecchio - ma soprattutto sui tempi e i costi stratosferici di un programma nucleare nazionale. Sempre che, naturalmente, non vengano presentati conti truccati. Per dirla in termini semplici: comparare il costo dell'energia prodotta con un reattore senza mettere in conto le spese di costruzione e quelle di smaltimento delle scorie è come voler parlare di pannelli solari facendo finta che crescano sugli alberi. Se poi a questo si aggiunge il problema dell'uranio, con la Cina che sta già facendo man bassa delle risorse mondiali, ecco che la questione appare in tutta la sua chiarezza: non un veto ideologico ma una follia economica da imporre ai contribuenti invece di adottare soluzioni più economiche e pulite.
Il tabù del picco
Che i tempi siano stretti è un dato di fatto riconosciuto dai rappresentanti delle grandi istituzioni internazionali legate all'energia, l'Opec e l'International Energy Agency, che hanno mandato a Rimini rispettivamente il Segretario generale Adnan Shihab-Eldin e il presidente Herman Frassen. Entrambi concordano sul fatto che la crescita della domanda insieme al "collo di bottiglia" delle capacità di raffinazione (troppo petrolio per poche raffinerie) stanno creando un clima d'insicurezza che proietta i prezzi alle stelle. Entrambi sostengono la necessità di investire in innovazione tecnologica e nuove raffinerie, con una maggiore attenzione per la sostenibilità ambientale che, a parole, è in cima ai pensieri di tutti. Adnan Shihab-Eldin approfitta per bacchettare le corporation, nemiche storiche dell'Opec, sottolineando che, «oggi gli unici che investono sul serio sono indiani e cinesi». Il segretario generale però, evita accuratamente di spiegare perché le imprese abbiano smesso di spendere nel cosiddetto downstream, ovvero a valle della produzione. Paradossalmente sia lui che gli americani - rappresentati da Karen Harbert Alderman, sottosegretario all'Energia per gli affari internazionali, e da un tipo del Dipartment of Energy con la faccia e l'accento di un compagno di scuola di Bush capitato per caso sulla poltrona in cui siede - evitano in ogni modo di affrontare il tema fondamentale di cui parlano tutti gli altri: la questione del picco petrolifero.
Ma come spiegare il comportamento dei mercati e la resistenza delle corporation a investire senza prendere in considerazione l'approssimarsi del picco, ovvero del momento in cui la produzione mondiale di petrolio comincerà a contrarsi? Perché le imprese dovrebbero investire nella costruzione di nuove raffinerie se, fra dieci o vent'anni, rischiano di non avere più niente da raffinare? Eppure, lasciando fuori gli exploit di Scaloja e gli articoli promozionali, per tre giorni geologi e manager petroliferi, rappresentanti governativi e ricercatori, esperti finanziari e ministri in pensione, si sono dati il cambio per presentare nuove tecnologie o piani d'intervento partendo tutti, ma proprio tutti, dall'esaurimento prossimo venturo. Si litiga sulla data - per i pessimisti il picco è stato l'anno scorso, ma per il segretario generale dell'Opec, ovviamente ottimista, se ne parlerà fra il 2035 e il 2045 - o si inventano definizioni terminologiche più rassicuranti - plateau invece di picco, ad esempio, o addirittura il vaghissimo "plateau fluttuante" - per mettere in evidenza l'andamento graduale del declino. Resta il fatto che l'evento, comunque lo si voglia chiamare, ha già come conseguenza un calo degli investimenti semplicemente perché le grandi corporation sono restie a puntare milioni e milioni di dollari sulla costruzione di raffinerie, pipelines o grandi progetti che richiedono dai tre ai cinque anni per venire completati quando le prospettive, di qui a una decina d'anni, sono alquanto buie. Ma se non si interviene ora è lecito aspettarsi una replica di quanto accaduto alla fine dell'estate, quando le autorità nazionali e internazionali state costrette a liberare le riserve strategiche di prodotto raffinato per compensare i danni prodotti dagli uragani nel Golfo del Messico.
l Protocollo di Rimini
Di fronte al declino della produzione il protocollo di Kyoto, proiettato su altri centocinquant'anni di petrolio, rischia di venire archiviato prima di ottenere qualche risultato. Nel corso delle giornate del Pio Manzù si sono sentite ipotesi di ogni genere, da quelle matematicamente esatte ma socialmente dissennate, come andare a trasferire tutta l'industria pesante europea e americana nel Golfo per catturare le emissioni inquinanti utilizzando il gas prodotto in loco, alle molto più convincenti misure di risparmio ed efficienza energetica. Rinnovando strutture e infrastrutture - dai trasporti alle produzioni industriali, passando per l'edilizia - nel corso di una decina d'anni si potrebbe arrivare quasi a dimezzare i consumi, ovvero a liberare tanta energia quanta non se ne potrebbe produrre nemmeno se si riempisse il Belpaese di reattori. Se all'efficienza energetica si aggiunge un serio impegno sulle energie rinnovabili come solare o eolico - magari spostando gli sconti fiscali destinati ai petrolieri sui produttori di pannelli e mulini - non c'è bisogno di alcun faraonico progetto per gestire l'uscita dai combustibili fossili.
Prevalentemente su misure di questo genere si basa la proposta di Colin J. Campbell, studioso del picco, lanciata per la prima volta a Rimini nel 2003. Campbell ha stilato un Protocollo per i governi che non vogliono farsi trovare impreparati dalla penuria d'energia: ridurre ogni anno i consumi del 2 per cento l'anno, ovvero del tasso con cui diminuisce la produzione globale, con ogni mezzo, anche il nucleare esistente, tenendo conto che il declino secondo lui è cominciato nel 2004. Resta da vedere se i politici europei che hanno accolto il Protocollo - a Rimini era presente l'ex ministro per l'Ambiente britannico Michael Meacher - troveranno il modo di spingerlo senza spaventare i fautori della crescita a ogni costo. Perché tale è il nocciolo della questione: per quanto le tecnologie possano aiutarci a prolungare il plateau, l'esaurimento innesca contraccolpi economici che rischiano di chiudere sul nascere la breve stagione della globalizzazione. Non ci sono proiettili magici, hanno ripetuto gli esperti, ma tecnologie e misure che possono consentirci di far durare più a lungo possibile delle scorte destinate a finire, magari ri-localizzando le produzioni industriali e alimentari più vicino ai consumatori.
Il gas di transizione
Non proiettile magico, dunque, ma energia di transizione, il gas naturale si è conquistato il palcoscenico quando Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, ha reso noto l'impegno dell'azienda in questa direzione. Si chiama gas la nuova frontiera dell'energia a buon mercato e, com'è noto, l'Eni la cavalca con entusiasmo guardando verso i grandi giacimenti russi. Effettivamente il gas è molto abbondante perché lo sfruttamento intensivo non è ancora incominciato - anzi, fino a poco tempo fa, veniva addirittura bruciato come prodotto di scarto dell'estrazione dell'oro nero - inquina meno del petrolio e molto meno del carbone. Ma anche il gas è una risorsa fossile non rinnovabile e pertanto è destinato all'esaurimento con l'aggravante che, essendo un gas, il declino sarà tutt'altro che lento. Quando? Anche in questo caso le datazioni sono molto problematiche e gli esperti non esitano a fornire informazioni discordanti. Tim Lambert, direttore per la consulenza energetica alla Wood Mackenzie, ha fatto una panoramica dei contratti che sono stati firmati dalle repubbliche ex-sovietiche per la fornitura di gas fino al 2028 o addirittura al 2035. Peccato che subito dopo abbia mostrato dei grafici dai quali si evince che gli enormi giacimenti di gas del Kazakistan sono destinati a "piccare" nel 2016, mentre quelli del Turkmenistan addirittura nel 2010.
Occorre dunque valutare bene la situazione prima di investire nelle costose infrastrutture necessarie per portare il gas dai produttori ai consumatori, sofisticati gasdotti sotto pressione costante oppure enormi stabilimenti di liquefazione e rigassificazione da costruire vicino ai porti. Perché, oltre che nelle repubbliche ex sovietiche, il gas viene prodotto abbondantemente anche nel Pacifico (Timor Est, Indonesia) dove viene liquefatto e stoccato in apposite navi criogeniche - leggi frigorifere - anch'esse costosissime da costruire. Se si pensa che tutte le navi criogeniche del mondo bastano appena a rifornire di gas gli Stati Uniti per una settimana, è facile capire quale mole di investimenti sia necessaria per cominciare a sfruttare una risorsa considerata, appunto, di semplice transizione.
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