Se la lobby europea dell'atomo s'inventa il nucleare ecologico
12.11.05
«Who is Lorenzo Cesa?». Tutto comincia con la domanda della collega inglese che mi prende di sorpresa mentre analizza i risultati del vertice Europeo di Hampton Court, sbandierato dalla presidenza britannica come il momento del rilancio dell'iniziativa europea dopo la battuta d'arresto di giugno quando non si riuscì a trovare un accordo sul bilancio dell'Ue. Vengo così a sapere che Cesa è l'unico italiano che ha firmato il manifesto dell'industria nucleare. Ringrazio la collega per l'informazione, e decido di approfondire la questione.
Il vertice di Hampton Court doveva discutere della comunicazione della Commissione su "Valori europei in un mondo globalizzato", un documento che conteneva, *fra le altre, la prima timida proposta di creare una «coerente e duratura politica dell'energia». In particolare si proponeva «una nuova impostazione in termini sia di uso, che di approvvigionamento energetico, che tenga in conto altre politiche europee, in particolare agricoltura, ricerca e ambiente e bio energia». E soprattutto che assicuri «una crescita economica sostenibile sul piano ambientale».
Richiamo la collega inglese e le suggerisco di chiedere spiegazioni in sede della conferenza stampa post-vertice che io seguirò in tempo reale dalla sala stampa di Bruxelles grazie a Europe by Satellite. Come già anticipato da Berlusconi, Tony Blair ammette che nel vertice di Hampton Court si è parlato di nucleare, e aggiunge: «C'è stata una discussione molto approfondita sul nucleare, alcuni stati membri sono totalmente contrari, e questa è una loro decisione e nessuno potrà obbligarli a fare quello che non vogliono fare. Ma quegli Stati che invece hanno o potrebbero avere interesse per l'energia nucleare, hanno anche in comune l'interesse a sviluppare ricerca, scienza e tecnologie in una comune politica energetica. E allora è importante discutere di ciò, visto che comunque dobbiamo importare enormi quantità della nostra energia». Parole che sembrano prefigurare la creazione di un club di stati membri pronto a ricominciare a investire nel nucleare. Ecco l'Europa che piace a Tony Blair, quella che reintroduce il nucleare. Interesting, very interesting...
Cerchiamo di vederci più chiaro e ci procuriamo le eleganti cartelline del Foratom, la potente lobby europea dell'industria nucleare contenenti la "Dichiarazione su cambiamento climatico e nucleare", firmata anche da Cesa. E' tutto un richiamo ai pericoli del cambiamento climatico, per poi arrivare alla conclusione che l'unico strumento per uscire dal 21mo secolo, quello dei combustibili fossili, è l'energia nucleare, ormai diventata sicura, pulita, economica. Conclusione: solo pregiudizi ideologici impediscono a questa forma di energia di diventare una priorità sia nei programmi di ricerca europei che nella pianificazione energetica del continente. Insomma, 25 eurodeputati (su 732), hanno inventato la teoria del "nucleare ambientalista".
A parte la scarsa rappresentatività territoriale - 10 paesi su 25 (metà sono cechi, slovacchi e finlandesi paesi notoriamente "nuclearisti") - e politica (sono quasi tutti del Ppe), balza subito agli occhi che si tratta di una strategia globale. Infatti gli uffici di Jeremy Rifkin a Washington mi informano che in America è partita una campagna di stampa per informare l'opinione pubblica che adesso l'Europa sta prendendo in considerazione una nuova generazione di reattori nucleari «sicuri, puliti e economici»... Sarà vero?
Ricorriamo agli esperti. Nicola Conenna, fisico, ex Greenpeace Italia, presidente di Europe Conservation e fondatore dello European Blu Network, esistono davvero nuovi reattori nucleari sicuri? «Per il momento no. Se tutto va bene potrebbero esserci fra dieci anni, e anche ammesso che siano davvero sicuri, richiederanno cifre spropositate sul piano della ricerca, cifre che sarebbe molto più sensato mettere a disposizione delle energie rinnovabili e dell'idrogeno. Inoltre i reattori nucleari per funzionare hanno bisogno di uranio, una risorsa ancora più scarsa del petrolio. Non ha senso uscire dalla "padella" del petrolio per entrare nella "brace" dell'uranio. E comunque stiamo parlando di tempi troppo lunghi per reagire alle emergenze climatiche e sanitarie create dal petrolio, emergenze che come dice Jeremy Rifkin, ormai colpiscono il mondo in real time, e in modo uniforme: alluvioni in Europa, uragani in America».
Vittorio Prodi, eurodeputato della Margherita e coordinatore del Manifesto europeo per l'idrogeno verde, redatto con Jeremy Rifkin, lei non ha firmato il manifesto pro nucleare. Non crede al potenziale di questa tecnologia? «E' una tecnologia che esiste ma appartiene al passato, non è adatta a rispondere ai bisogni di un'Europa affamata di energia ma anche sprecona, che ha bisogno innanzitutto di risparmio energetico. E poi c'è una questione ancora più importante, quella della democrazia dell'energia: non so se i nuovi reattori nucleari siano davvero più o meno sicuri di quelli vecchi, ma anche se lo fossero, non sarebbero comunque il modo più interessante di reagire alla crisi del petrolio perché essi perpetuano un modo centralizzato e non democratico di produrre energia, controllato da pochi potentati mondiali, concentrato nelle loro mani esclusive, e fuori della portata del singolo individuo, degli enti locali, delle regioni, delle comunità. La crisi del petrolio ci dà invece l'occasione di cambiare radicalmente sistema energetico, a cominciare dall'Europa, valorizzando le fonti rinnovabili di energia, che sono presenti sul territorio, e dunque nella nostra disponibilità, a cominciare dalla bio massa che per il momento è una risorsa ancora quasi completamente inutilizzata. Ma senza dimenticare gli incredibili potenziali di crescita dell'eolico, del fotovoltaico, delle correnti marine, della geotermia, specialmente se moltiplicate dal vettore idrogeno, che permetterà di sfruttarne al massimo le possibilità non solo per la produzione di elettricità ma anche come carburante da autotrazione».
«Un potenziale che non è solo produttivo, ma anche occupazionale - aggiunge l'eurodeputato Roberto Musacchio, Prc, anche lui firmatario del Manifesto Europeo per l'idrogeno verde - Infatti, mentre la produzione di elettricità e carburanti in modo convenzionale è centralizzata e capital intensive (cioè presuppone l'impiego di ingenti capitali, e dunque la generazione di ingenti profitti), la produzione della stessa energia con fonti rinnovabili e idrogeno, è decentrata e labour intensive; presuppone cioè l'utilizzazione di nuove competenze professionali (come tecnici per la produzione, l'installazione e la riparazione di pannelli solari, turbine eoliche, impianti di bio massa, elettrolizzatori per la creazione di idrogeno, celle a combustibile per la generazione distribuita. Insomma tutto un nuovo mondo). Queste nuove figure professionali dovranno essere create e sfruttate localmente, quindi non sono delocalizzabili in Paesi dal basso costo del lavoro. Il tutto a patto che si decida di "cambiare sistema" e di cominciare a pensare in un modo completamente diverso in materia di energia».
La questione necessita certamente di un maggiore approfondimento e non è escluso che il dibattito si accenda dopo le recenti dichiarazioni rilasciate dal ministro Scajola in favore del carbone e del nucleare in occasione delle giornate di studio di Rimini della fondazione Pio Manzù. «E' apprezzabile che il ministro voglia azzerare il consumo di petrolio, ma dobbiamo farlo a vantaggio delle energie rinnovabili e dell'idrogeno, non del carbone e del nucleare, perché così non ci guadagnamo niente, o meglio ci guadagnano sempre i soliti. Basti pensare che con i soldi necessari per una sola centrale nucleare, si potrebbe far partire l'economia dell'idrogeno verde su tutto il territorio nazionale, e gli unici a guadagnarci sarebbero i contribuenti, e non certo le grandi multinazionali dell'energia» conclude Nicola Conenna.
Il tramonto del petrolio delinea dunque per l'Europa (e per l'Italia), due strategie energetiche totalmente opposte e incompatibili che non ammettono compromessi di sorta: o continuare con la produzione centralizzata in grandi impianti e distribuita con grandi reti e grande dispersione, rimanendo comunque dipendenti da fonti in via di esaurimento, o cambiare totalmente indirizzo e investire da subito nelle fonti rinnovabili e nell'idrogeno. Berlusconi, Cesa e Tony Blair la loro scelta sembrano averla fatta. E noi?
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