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Fa discutere l’ultimo pamphlet del sociologo francese Serge Latouche, teorico dei no global: «Basta con la crescita. E per il Terzo Mondo occorre pensare a un modello alternativo»

Processo allo sviluppo

Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell'immaginario economico alla costruzione di una società alternativa
Autore: Latouche Serge
Anno 2005
Editore: Bollati Boringhieri
Collana: Temi
Prezzo: € 9,50
20 novembre 2005
Edoardo Castagna

copertina libro Crescere è un male. L'ultimo pamphlet dell'economista e sociologo francese Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati Boringhieri, pagine 106, euro 9,50), ribalta un luogo comune che permea i modelli, economici e non, dominanti nel mondo d'oggi. Puntare allo sviluppo, a crescere sempre e comunque, secondo il teorico del movimento no global non paga. I programmi per il Terzo mondo dei Paesi occidentali, delle Nazioni unite - ma anche delle organizzazioni non governative e dei progetti "alternativi" - peccano tutti della stessa sudditanza a un modello sbagliato. Latouche lancia la provocazione: è inutile sognare uno sviluppo alternativo, è ora di cercare un'alternativa allo sviluppo. Che, nella sua prospettiva, si chiama "decrescita conviviale".

Sviluppo e sottosviluppo non sono un dato oggettivo ma un modello di pensiero; un mito moderno, perfetto per l'Occidente nato dalla Rivoluzione industriale ma che non rappresenta affatto il dover essere dell'intera umanità. Dello sviluppo noi occidentali, che ne siamo figli, abbiamo una concezione mitica: tutto ciò che cresce è bene, ciò che decresce, si ferma o anche solo rallenta è male. Eppure questo sviluppo non è che «sfruttare, valorizzare, ricavare profitto dalle risorse naturali e umane. Processo aggressivo nei confronti della natura come nei confronti del popolo», il concetto di sviluppo è anche viziato di eurocentrismo. La civiltà occidentale è cumulativa, accatasta saperi e beni che, dal nostro punto di vista, rendono il presente sempre migliore del passato, più ricco semplicemente perché possiede sempre qualcosa in più. Ma quest'idea è nostra e solo nostra, tanto che in molte lingue del Terzo mondo non esiste nemmeno una parola che la traduca correttamente. La fede cieca nello sviluppo presuppone uno sguardo rivolto al futuro che non è affatto una caratteristica universale dell'umanità: molti popoli stimano di più il passato, sede del sapere solido e acquisito, e svalutano di conseguenza il futuro fumoso e incerto. Allo stesso modo, soltanto nella nostra fetta di mondo la natura è correntemente intesa come qualcosa a nostra disposizione, da sfruttare a piacimento.

Quest'illusione concettuale costa cara. Cinquant'anni di programmi per lo sviluppo lo dimostrano: l'ambiente soffre, il divario tra ricchi - noi sì, sempre più ricchi - e poveri è aumentato a dismisura. Lo "sviluppismo" è una malattia che colpisce allo stesso modo le eminenze grigie del Fondo monetario internazionale e gli alternativi delle ong: per Latouche non si tratta di cambiare il modello di sviluppo, renderlo "sostenibile" o "durevole", ma più radicalmente di smetterla di ragionare in termini di crescita. Si può migliorare anche senza crescere.

L'alternativa proposta da Latouche è la "decrescita conviviale": non riduzione del benessere né impossibili ritorni al passato, ma abbandono della centralità accordata al campo economico. «Il doposviluppo è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modi di realizzazione collettiva nei quali non viene privilegiato un benessere materiale distruttivo dell'ambiente e dei legami sociali». Anche per Latouche l'obiettivo resta la miglior qualità della vita, ma è ora di imparare che questa non coincide affatto con il modello consumista che oggi domina la società occidentale - e, per contagio di "sviluppismo", tutto il mondo - e la sua economia, enfatizzata al di là di ogni limite ragionevole. La felicità non va perseguita accumulando il più possibile, ma soddisfacendo «una quantità giudiziosamente limitata di bisogni. Per concepire la società della decrescita serena e accedervi, è necessario uscire, senza mezzi termini, dall'economia. Questo significa mettere in discussione il dominio dell'economia sulla vita, nella teoria e nella pratica, ma soprattutto nelle nostre teste».

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