La sinistra non vede il pianeta Terra
Il 63,2 per cento degli italiani teme la distruzione dell’ambiente molto più che il terrorismo, la criminalità, la perdita del lavoro, e praticamente tutte quelle che solitamente si ritengono oggi le principali cause d’angoscia: cos’ secondo un sondaggio apparso tempo fa su Repubblica,
La cosa non può stupire se si pensa alla tremenda accelerazione dello squilibrio ecologico: calotte polari che si sciolgono; il livello dei mari che sale a ritmo doppio rispetto all’ultimo decennio; cicloni tifoni alluvioni sempre più numerosi e violenti; desertificazione che avanza in Africa, Sudest asiatico, Sudamerica (dove perfino il Rio delle Amazzoni è a secco) e nella stessa Europa. La temperatura del mondo continua a salire: il 2005 è stato l’anno più caldo da quando si fanno misurazioni del genere; e questo secondo l’OMS causa ogni anno 150mila morti e 5 milioni di casi di malattia. Intanto le emissioni di gas serra, responsabili prime di tutto ciò, sono aumentate del 30% dal ’90. Di tutto questo la gente, sia pur in modo confuso, senza una precisa consapevolezza dei fenomeni e delle loro cause, avverte il rischio, non può non aver paura.
Di recente d’altronde sono numerose le allarmate denunce di questa situazione. E non più provenienti soltanto dal mondo ambientalista o dalla sinistra critica, quelli che da anni accusano la follia di un mondo che va distruggendo se stesso; che da anni pubblicano libri intitolati “Disfare lo sviluppo”, “Obiettivo decrescita”, “Sobrietà”, “Il vicolo cieco dell’economia” , e simili. Che danno vita ad accesi dibattiti su crescita e consumi su giornali come Liberazione e il manifesto, lavorano in associazioni come “Altreconomia”, “Per un’economia diversa”, “Finanza etica”, e così via.
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Ora, a schierarsi su posizioni analoghe sono personaggi non sospettabili di propositi antisistema. “La miopia delle élite“, è il titolo di un fondo di recente firmato sul Corriere della Sera da Tommaso Padoa Schioppa. In cui si legge: “Le risorse della Terra non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L’equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se continuiamo a ignorare l’effetto serra.“ Sempre sul Corriere Giovanni Sartori ha denunciato insufficiente informazione sul fatto che la “Terra che si autodistrugge”, e accusato la “colossale rete di interessi economici tutta proiettata nell’assurdo perseguimento di uno sviluppo illimitato, di una crescita infinita.” Quasi contemporaneamente su Repubblica appariva un impegnato articolo di Umberto Galimberti dal titolo “Smettiamo di crescere”, occhiello “Miti d’oggi”, sommario “Consumiamo per consumare in una spirale infinita”. Mentre importanti convegni internazionali sollevavano seri dubbi sulla ricchezza quale garanzia di felicità, e interrogativi sulla bontà della crescita venivano posti e discussi dalla più qualificata stampa internazionale, da Time al Guardian, ecc.
L’unico a non accorgersi di quanto sta accadendo, o almeno a non darlo a divedere, è il mondo politico. Di sinistra non meno che di destra. Durante la campagna per le Primarie Prodi faceva circolare una sua brochure elettorale, in cui l’ambiente veniva “nominato” una sola volta , e non come problema, ma come una risorsa da sfruttare al meglio, insieme ai beni culturali e paesaggistici del paese. La valanga di elaborati programmatici via via sfornata dai partiti e partitini dell’Unione, non va molto oltre l’orizzonte dello “sviluppo sostenibile”, vecchia formula abbandonata da tutto l’ambientalismo più qualificato, in quanto in sostanza allineato con l’imperativo della crescita, quello che è causa dell’insostenibilità ecologica. Senza analizzare in dettaglio i diversi programmi, posso dire che, una volta di più, l’ambiente rimane il grande assente, e che addirittura i partiti maggiori tendono a cancellare o peggiorare le proposte di Verdi e Rifondazione, i più attenti alla materia, e non mancano di strizzare l’occhio al nucleare, al ponte di Messina, alla TAV. Una volta di più si dimostra che nessun soggetto politico ha affrontato finora il problema alla radice, assumendolo nella sua valenza determinante della nostra vita e dell’intero nostro agire. Per tutti lo squilibrio ecologico rimane una sorta di “a parte”, una problema forse anche di qualche rilevanza, ma che non ha nulla a che vedere con i grandi temi della Politica.
La cosa non è nuova d’altronde. Fino a qualche anno fa non pochi tra i cosiddetti “grandi della Terra”, e insieme a loro quasi la totalità del mondo economico (sia quello scientifico che quello operativo) addirittura negavano l’esistenza della crisi ecologica planetaria, considerandola poco più che ubbie di cassandre catastrofiste, o al massimo liquidando il problema come un fatto di scarso peso, da risolvere con qualche intervento legislativo e qualche correttivo tecnico. Le sinistre su questa materia non hanno mai fatto eccezione. Anzi la loro critica nei confronti dell’ambientalismo è stata sovente anche più dura, motivata da una (malintesa) difesa del mondo del lavoro, che in qualche modo avvertivano messo sotto accusa, come luogo di processi inquinanti e di aggressione agli equilibri ecologici. Cosa che ha dato luogo a un conflitto apparentemente insuperabile - e in realtà non ancora pienamente risolto - tra le ragioni del lavoro e le ragioni della natura.
Da qualche tempo però una qualche attenzione all’ambiente si va manifestando tra politici e economisti: un paio di G8 sono stati dedicati alla materia, e di essa s’è discusso con fervore a Davos, celebre luogo di convegno annuale dei meglio cervelli della scienza economica. Ma non illudiamoci. Non s’è trattato di un’improvvisa conversione ambientalista: in tutte queste occasioni il tema di interesse centrale è stata l’imminente fine del petrolio, e la crisi dell’intero sistema economico mondiale che rischia di seguirne. La necessità di sostituire il petrolio con altre fonti energetiche si è imposta pertanto come obiettivo primario, al fine di poter garantire la continuità della produzione e della sua crescita, secondo la forma economica oggi dovunque attiva sul pianeta: cioè quella che, secondo la quasi totalità della comunità scientifica internazionale, è causa prima del sempre più grave guasto ecologico. Ora non può certo stupire che tutto questo accada tra le destre. Conservare, difendere e valorizzare al massimo il modello neoliberista, cioè il capitalismo nella sua versione attuale, è loro compito. E questo fanno. Ma le sinistre?
“Sinistra” è una parola che non pochi negli ultimi tempi hanno dato per superata e ormai priva di senso. E però, a dispetto di tutti i suoi aspiranti necrofori, la sinistra continua a dar prove inoppugnabili di vitalità. Le folle del pacifismo internazionale in marcia per il mondo; l’irruzione dei movimenti giovanili altermondialisti, puntuali contestatori del neoliberismo e dei suoi istituti; le masse di lavoratori che sfilano denunciando sfruttamenti sempre più esosi, lesivi della loro stessa dignità; le piazze piene di quella che viene chiamata “società civile”, gente che non si mobilita per giochi di partito o interessi personali, ma solo in sdegnata risposta alla democrazia offesa. Che altro è tutto questo se non “sinistra”, viva e attiva?
E però se guardiamo a quella che dovrebbe rappresentare la sintesi politica e operante di tutto ciò, cioè la sinistra istituzionale, quella dei partiti e dei governi (che tra centrali e locali non sono pochi in Italia e nel mondo) non si può negare che la risposta sia francamente deludente. E non in Italia soltanto. Nel radicale mutamento che ha investito il mondo negli ultimi decenni, in presenza di quel fenomeno senza precedenti che chiamiamo globalizzazione, disuguaglianze sfruttamenti povertà (cioè i problemi costitutivi delle sinistre, ragione del loro stesso esistere) non si sono affatto risolti, anzi per certi versi si sono aggravati. Molti di essi però sono andati trasformandosi, assumendo forme completamente diverse da quelle delle storiche agende operaie; mentre numerosi altri ne nascevano e s’imponevano, e in qualche misura interagivano con quelli precedenti. Tutto questo vorrebbe un’attenta rilettura di tutti i problemi, vecchi e nuovi, e la necessità di affrontarli in tutt’altro modo dal passato.
Per fare solo qualche esempio (e tralasciando per il momento la crisi ecologica, tremenda novità che mette a rischio il futuro stesso della specie umana) pensiamo al fenomeno migratorio, che in nulla più somiglia alle migrazioni dei secoli passati, che oggi coinvolge enormi masse, blocchi di popolazioni, interi strati sociali, che lasciano un paese per raggiungerne altri, con conseguenze che vanno ben al di là delle questioni di ordine pubblico cui solitamente si tende a ridurle. Oppure le prospettive smisurate e per ora inimmaginabili, aperte dall’evoluzione tecnologica agli effetti non solo di mirabolanti imprese spaziali transgeniche e simili, ma riguardanti produzione, occupazione, salari, mercato: ad esempio che cosa può significare nel mondo del lavoro, nel rapporto tra persona e lavoro, e tra lavoro e mercato, la messa in opera di un computer da nove miliardi di operazioni al secondo, cosa ormai non più eccezionale? E il terrorismo, da tutto l’occidente affrontato nel modo più stolido e criminale, e che però ci sovrasta, e limita e condiziona libertà e diritti di tutti. E la guerra, che sempre è stata usata per il rilancio di economie stagnanti e per la soluzione delle più gravi crisi produttive, ma che oggi senza pudori viene teorizzata e “istituzionalizzata” sotto la specie di “guerra preventiva” contro le tirannidi: la guerra, di fatto ormai rimasta unico strumento di continuità vitale per il capitalismo.
E questo è forse ciò che più spiazza le sinistre. Il fatto che da tempo un buon numero di esperti del calibro di Gorz, Chomsky, Severino, Wallerstein, Bello, Passet, Gallino, Stiglitz, Deaglio (per citarne solo alcuni) parli di meccanismi di accumulazione inceppati, di dinamiche capitalistiche in panne, insomma di crisi strutturale dell’economia-mondo. E che tutti costoro si interroghino sul futuro, ma concentrando le loro ipotesi non su come riparare e rimettere in moto la macchina neoliberistica, ma puntando su come muovere dalla situazione attuale per tentare di cambiare le cose, convinti come sono che esiste “un disperato bisogno di esplorare possibilità alternative” (Wallerstein), che un mondo diverso “può definirsi solo in opposizione al capitalismo” (Gorz), e che la crisi va colta come “opportunità per la trasformazione del regime economico attuale” (Bello).
Tra le sinistre istituzionali nessun tentativo di riflessione del genere sembra esistere. E’ vero, una parte (una parte non piccola) delle sinistre sacrosantamente accusa il neoliberismo di perseguire disuguaglianza e esclusione come normali mezzi di politica economica; di scaricare sul lavoro tutti i costi che il mercato non sopporta; di creare insicurezza e impoverimento nei ceti medi; e anche (ma di questo pochi e di rado si ricordano) di rapinare e sconvolgere a fini produttivistici l’ambiente naturale. Ma sono poi gli stessi partiti, a volte le stesse persone, a invocare più consumi, più domanda, più produttività, più competitività, più crescita. Esattamente come le destre. Di fatto spronando il mondo produttivo ad adeguarsi al modello neoliberistico, ai suoi parametri e alle sue regole, dunque in modo più o meno esplicito legittimando il sistema neoliberistico (capitalistico cioè) e direttamente o indirettamente rafforzandolo. Salvo poi impantanarsi tra proposte di operazioni correttive: più salari, più occupazione, meno precarietà e flessibilità, più stato sociale, ecc.: proposte del tutto incompatibili con l’impianto economico che sostengono, il quale proprio nel massimo sfruttamento del lavoro trova uno dei suoi punti-forza.
Il fatto è che le sinistre, nella maggioranza, si illudono di poter tenere ancora in vita una linea politica a lungo, e non senza successo, praticata nella loro storia. Un’illusione appunto. Per un lungo periodo (un secolo e mezzo circa) la crescita produttiva, nella forma dell’accumulazione capitalistica, ha avuto ricadute largamente positive sulle classi lavoratrici dei paesi industrializzati, oggettivamente (sia pure tra iniquità e sfruttamenti) migliorandone le condizioni di vita. E’ accaduto per tutto il tempo in cui il benessere dei lavoratori (la loro accresciuta capacità di consumo) è stato funzionale all’accumulazione capitalistica, e ciò ha dato spazio a una sorta di patto non scritto, che affidava al capitalismo la produzione della ricchezza e alle sinistre consentiva di distribuirla il meno iniquamente possibile. Questo oggi non è più vero. Oggi una politica di redistribuzione del reddito non ha più corso. Il patto è scaduto.
Questa è una verità che le sinistre, per ritrovare se stesse, debbono avere il coraggio di guardare in faccia. Riuscire a recidere quella sorta di antica complicità con il “sistema” che ha sempre sotteso le lotte dei movimenti operai: secondo cui “morte al capitale!” era il grido di battaglia, ma “viva la fabbrica!” era inevitabilmente l’asse dell’agire politico. Ripensare seriamente lo sviluppo, così come è stato tenacemente perseguito quale indiscusso fattore di progresso, senza vedere quel mutamento che via via velocemente ne accentuava i valori individualistici, i contenuti quantitativi e acquisitivi, impoverendone la qualità sociale: fino a stravolgerne il senso e segnarne di fatto la piena identificazione con la crescita produttiva. Una vicenda che in pratica conduceva all’accettazione dell’ordine dato, con il mercato al centro, referente e misura di ogni rapporto, e la supina assimilazione dei ceti lavoratori alle lusinghe del consumismo più insensato: un sostanziale adagiarsi delle sinistre nella logica del capitale. Solo riflettendo su tutto questo credo sia possibile rompere con le vecchie ma tuttora vive certezze di sviluppo salvifico, smetterla di sperare addirittura in “un nuovo modello di crescita”, come qualcuno propone. Trovare il coraggio non solo di constatare tutto ciò, ma di dirlo ad alta voce, credo sia indispensabile anche per assumere finalmente una posizione corretta e utile nei confronti dell’ambiente.
La scarsa considerazione, quando non l’ostilità, riservate – come dicevo – dalle sinistre ai problemi ecologici, in gran parte proprio in questa storia trova le sue ragioni e in qualche misura il proprio alibi. Come ridurre produttività e crescita quando il mondo è ancora pieno di disuguaglianze, povertà estreme, fame? Questa è sempre stata l’obiezione rivolta dalle sinistre ai critici dell’ iperproduttivismo: nella sottintesa certezza che un impegnato perseguimento della crescita risolverebbe prima o poi queste questioni inoppugnabilmente prioritarie. Chiudendo gli occhi sul fatto che gli ultimi decenni, che hanno registrato un costante, se anche disuguale, aumento del Pil , sono quelli che hanno visto in tutto il mondo un drammatico crollo dell’ occupazione, un attacco sistematico allo stato sociale, un aumento crescente della distanza tra ricchi e poveri sia a livello internazionale, sia all’interno stesso dei paesi più affluenti. Ignorando cioè che la vecchia equazione “più produzione = più benessere” non vale più. Oggi (sostengono Wallerstein, Gorz, Bello) il mondo è rimpicciolito, sempre più scarsi si fanno gli spazi utili alla valorizzazione dei capitali, solo puntando al massimo su precarietà, attacco al salario, taglio dei servizi, mostruoso sfruttamento del Sud del mondo, e – sul versante della strategia internazionale – contando sulla guerra, il sistema riesce ad assicurarsi qualche aumento del Pil. Come contare su di esso per risolvere i problemi sociali?
Far chiarezza su tutto ciò aiuterebbe anche a vedere un aspetto del problema ambiente, che per sua natura dovrebbe interessare particolarmente le sinistre: il fatto cioè che lo squilibrio ecologico, nelle sue innumerevoli forme, colpisce sempre soprattutto i più poveri. Sono i meno abbienti che non riescono a salvarsi da uragani e alluvioni; sono gli operai a trattare processi industriali altamente tossici e spesso cancerogeni; sono loro e le loro famiglie a vivere nei pressi di fabbriche a rischio; sono gli agricoltori - specie nei paesi cosiddetti in via di sviluppo - a manipolare quantitativi massicci di pesticidi; sono i poverissimi (un miliardo e 200 milioni) a non avere acqua; sono masse di contadini e pastori in fuga dall’avanzare dei deserti, dalla perdita di pescosità di fiumi e laghi inquinati, da paesi distrutti da alluvioni e cicloni, da intere vallate destinate alla costruzione di dighe gigantesche. Si calcolano oggi sui 35 milioni i profughi ambientali, le previsioni parlano di 50 milioni nel 2030. E’ difficile immaginare che tra loro ci siano dei ricchi. Non dovrebbe tutto questo interrogare le sinistre? E magari indurle a guardare all’ambiente con attenzione diversa da quanto è accaduto finora?
Il fatto è che finora nessuna sinistra (nemmeno all’estero d’altronde) ha avuto il coraggio di dire quello che parrebbe una incontestabile ovvietà. E cioè che la produzione di qualsiasi tipo è consumo di natura - minerale, vegetale, animale - e come tale è inevitabilmente soggetta a limiti non valicabili. Il nostro pianeta è una quantità data e non dilatabile a nostro piacere: in quanto tale non è in grado di alimentare una crescita produttiva illimitata, e nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gasosi, che derivano in quantità crescente dall’aumento costante della produzione.
Questa è la causa prima della crisi ecologica planetaria. La contraddizione tra la popolazione umana che continua ad aumentare di numero e a moltiplicare i consumi, e un pianeta che crescere non può. E’ lo scontro tra i limiti fisici della Terra e il sistema economico dovunque operante, il capitalismo, fondato sull’accumulazione, cioè sulla crescita esponenziale del prodotto. Oggi si calcola che per mantenere il nostro livello di produzione e consumo, ci occorrerebbe un Pianeta e mezzo. Continuando a crescere, e tenendo conto del portentoso sviluppo dei paesi emergenti, presto sarebbero necessari quattro o cinque Pianeti.
Un paradosso che gli scienziati dell’ Ipcc (International Panel for Climat Change) hanno tradotto in cifre, calcolando sul lungo periodo un aumento della produzione industriale sulla base di un +3% annuo del Pil, come dai più auspicato: nel giro di 23 anni ciò comporterebbe il raddoppio del volume industriale; in un secolo lo moltiplicherebbe per 16; in due secoli lo moltiplicherebbe per 250; in tre secoli per 4000. E vien fatto di pensare a uno dei grandi padri dell’ambientalismo, Kenneth Boulding, il quale nel 1967 scriveva: “Chi ritiene possibile una crescita infinita in un mondo finito non può essere che un pazzo. Oppure un economista”.
Ciò dato, è possibile continuare a ignorare il rischio ambiente nella sua enorme portata? Continuare a considerarlo come una variabile marginale, che interferisce solo occasionalmente con l’economia, e non come qualcosa che la riguarda direttamente e la condiziona, che ne rimette in discussione i meccanismi e gli obiettivi, sia nella concretezza del suo operare, sia nel suo stesso impianto teorico, basato appunto sulla crescita esponenziale del prodotto, e sulla illimitata disponibilità della natura? Possibile non essere almeno attraversati dal dubbio circa la bontà del nostro modello economico e sociale? E chi dovrebbe porsi questi interrogativi se non la sinistra?
Francamente, di fronte a un problemi di questa portata si desidererebbe qualcosa di diverso dal nostro litigioso e asfittico politichese, intriso di personalismi, arrivismi, piccole rivalità, ma soprattutto pigramente aggrappato a vecchie certezze, incapace di uno sguardo adeguato alla realtà di oggi e al suo vertiginoso mutare. Si desidererebbe intravvedere non si dice un progetto alternativo definito e compiuto, ma almeno un’ipotesi da proporre e verificare via via, almeno la consapevolezza della sua necessità, almeno il coraggio di interrogarsi in proposito.
Difficile? Difficilissimo, certo. Anche perché, in un mondo globalizzato, un progetto di questa portata non è pensabile in un solo paese, e (come la maggioranza dei massimi problemi d’oggi d’altronde) può trovare soluzione solo a livello sovranazionale. Ed è probabilmente proprio la magnitudine dell’impresa a deviare lo sguardo della politica, a rinviare indefinitamente un possibile impegno in questa direzione.
E tuttavia, qualora si riuscisse a mettere a fuoco un’idea del mutamento necessario, che proponga valori diversi da quelli del mercato e del consumo, forse non sarebbe impossibile tenerla presente come una sorta di orizzonte stretegico a cui via via adeguare, per quanto possibile, le scelte minori operate sull’orizzonte ravvicinato dell’agire politico quotidiano. Il nostro non è tempo di sovversioni politiche traumatiche, di rivoluzioni armate e sanguinose. Di tutto ciò abbiamo avuto abbastanza. E d’altronde oggi non esistono Bastiglie da abbattere o Palazzi d’inverno da espugnare. Oggi occorre rimettere in causa e delegittimare un sistema-mondo che con il suo dogma iperproduttivistico e iperconsumistico, opportunamente usando la potenza persuasiva della comunicazione di massa, ha capillarmente penetrato e inquinato cultura, costume, coscienze, fino a determinare in sua funzione comportamenti, desideri, progetti di vita. Delegittimarlo è possibile solo mediante una rivoluzione dolce ma radicale, consapevole e decisa, da attuarsi per gradi ma con costante tenacia, con un’azione molteplice, continua e differenziata, presente anche nel quotidiano minore, fermamente orientata a contrastare i valori oggi dominanti, nel deciso rifiuto di una sinistra sostanzialmente incapace di una politica diversa da quella delle destre.
Un’azione del genere forse non sarebbe impossibile da attuare, soprattutto ad opera dei governi locali, comuni, province, regioni. Magari muovendo dal capovolgimento del dogma produttivistico che insegue una crescita del tutto indiscriminata (crescita non importa di che cosa, in risposta a quale bisogno, con quali conseguenze, purché il Pil aumenti); e dunque esigendo una politica economica severamente “discriminatrice”, che di volta in volta sottoponga ogni proposta operativa a una serie di domande: se e quanto serva ciò che si vorrebbe produrre, se la cosa risponda a bisogni reali o non si tratti di produzione destinata al consumismo più futile, oppure prevista in omaggio al dettato della modernizzazione ad ogni costo, e simili; se non esistano altre più importanti necessità insoddisfatte, quindi con diritto di priorità; e soprattutto quali siano le ricadute dell’ opera in questione, sul piano ecologico, sanitario, culturale, sociale, umano. Una molteplicità di scelte, anche minori e minime, operate a questo modo, potrebbero segnare i primi passi di una rivoluzione non traumatica ma incisiva, in quanto netta, continua e sistematica negazione dei criteri che guidano l’economia capitalistica, basati unicamente su quantità e profitto. Potrebbe forse essere l’avvio di una sorta di accumulazione sociale.
Per questa via, in una realtà come la nostra, straripante di merci ma gravemente carente sul piano dei servizi pubblici e sociali, sarebbe forse possibile progressivamente spostare il baricentro dell’economia dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni sociali. Le conseguenze, anche se inizialmente limitate, sarebbero però tutt’altro che trascurabili, anche nell’immediato. Sul piano occupazionale innanzitutto: perché mentre nell’industria la tecnica sempre più largamente va sostituendo le persone, nessuna attività sociale può prescindere dalla presenza umana. E ai fini degli equilibri ecologici: perché la produzione sociale, a differenza di quella industriale, non inquina. Ma sarebbe anche l’avvio di un diverso modo di progettare, pensare, vivere il lavoro, e quindi la produzione e il consumo.
Vi sembrano sogni, pii desideri?
Certo sono ipotesi azzardate, in un mondo dominato da un lato dai grandi potentati economici, dall’altro dall’inquinamento sociale indotto, e quindi dalla resistenza delle stesse vittime del sistema che si vuole colpire. Ma soprattutto credo che un mutamento di questa portata, che certo richiede l’azione capillare di cui ho appena detto, abbia necessità anche di un’azione a dimensione sovranazionale. E questo - lo accennavo prima - non riguarda solo il problema ambiente, e il modello economico che ne è causa, ma tocca tutti i più grossi problemi d’oggi: terrorismo, guerra, migrazioni, povertà, disuguaglianze, rapporti tra Nord e Sud del mondo, non credo possano trovare soluzione se non livello sovranazionale. E credo (qua dovrei aprire tutto un altro grosso discorso, che posso appena accennare) credo che solo l’Europa - nonostante l’economicismo, il burocratismo, l’appiattimento totale sul paradigma neoliberista, che oggi la caratterizzano negativamente - potrebbe essere il soggetto in grado di farsi protagonista di questo obiettivo: non certo per contrapporsi allo strapotere degli Usa (cosa assurda e stolta al solo pensiero) ma per distinguersi dai valori che l’America esporta nel mondo, per tentare la messa in cantiere di un modello diverso. Come certo sapete, è nato di recente un partito internazionale che si chiama Sinistra Europea, e forse potrebbe avere una funzione non secondaria a questo fine.
Anche tutto questo è certo molto difficile. Però anche molto necessario. E non dimentichiamo i tanti che parlano di evidente, grave, ormai forse irreversibile crisi del capitalismo. Lo so, dire queste cose significa sentirsi rispondere da persone di non sospetta sinistra: “E’ una vita che contiamo sulla morte del capitalismo. E, guarda un po’, eccolo qua, sempre vivo e vegeto.” E però oggi, a me pare che proprio lo sconvolgimento degli equilibri naturali si ponga come evidenza indiscutibile dell’impossibilità per il capitalismo di continuare sugli stessi parametri, insomma come la dimostrazione della sua insostenibilità. Forse a riprova che crescita illimitata non può esistere, non è mai esistita, né in natura né nella storia. Forse anche a ricordarci che dopotutto il capitalismo è un fenomeno storico, e come tutti i fenomeni storici ha avuto una nascita e avrà prima o poi una fine. E’ una verità che le sinistre una volta tenevano presente, a supporto del loro stesso esistere e agire. Una verità forse da recuperare.
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