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Il petrolio fa ballare il mondo

Guerra in Libano, il primo uragano tropicale, le scorte Usa che diminuiscono più del previsto...Diminuisce la produzione del Messico, strategica per Washington
3 agosto 2006
Francesco Piccioni
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Toh, chi si rivede! La stagione degli uragani è appena cominciata e «Chris» - una tempesta tropicale che potrebbe essersi già trasformata nella notte le primo vero uragano del 2006 - già preoccupa il mercato del petrolio. Gli hurricanescaraibici, infatti, seguono di solito due o tre percorsi privilegiati, una dei quali investe in pieno le piattaforme petrolifere del Golfo del Messico. Nel 2005, come ricorderete, Katrina sommerse New Orleans ma, soprattutto, danneggiò seriamente  o distrusse un paio di centinaia di piattaforme, riducendo drasticamente la produzione e provocando il primo record oltre i 70 dollari al barile.
Ci assicurarono, anche allora, che passata la tempesta - letteralmente, almeno in quel caso - tutto sarebbe tornato normale e il prezzo sarebbe sceso. Come sappiamo, dall'inizio di quest'anno il greggio non è in pratica mai più sceso sotto quella soglia e ieri - complice anche un calo delle scorte Usa superiore alle attese - il Brent con consegna a settembre ha superato i 77 dollari; il Wti texano i 76. E non si neppure di nuovi record.
Naturalmente la meteorologia non avrebbe tutto questo potere economico se il mercato petrolifero non fosse «stressato» già di suo. Le due scuole di pensiero che provano a spiegare le difficoltà dell'«offerta» nel soddisfare una domanda crescente non potrebbero essere più distanti. Da un lato compagnie e paesi produttori, che accusano se stessi di non aver fatto abbastanza investimenti per aumentare le scoperte di nuovi giacimenti o massimizzare la produzione quando il prezzo del barile era basso. Dall'altro gli scienziati (geofisici, soprattutto) che il petrolio lo hanno cercato per decenni e ora, dicono, «siamo vicini al picco della produzione», vicini dunque al momento in cui l'estrazione non può più seguire una domanda in crescita.
Qualunque sia la risposta, la realtà quotidiana parla di problemi di dimensioni in fondo ridotte in grado però di scuotere il mercato globale. Il conflitto in Libano (e in Iraq, e in Afghanistan) presenta certamente un alto margine di rischio, anche se non sembra ipotizzabile che qualche paese arabo produttore di petrolio stia per lanciarsi nel conflitto. Più facile che Israele o gli Stati uniti «allarghino» il numero dei propri obiettivi (Siria e Iran).
In un quadro molto incerto, per esempio, diventa una notizia con forte valore indicativo quella che riferisce di un costante calo della produzione nei pozzi messicani di Cantarell, il più grande giacimento del paese. Solo due anni fa qui si estraevano due milioni di barili al giorno, che prendevano quasi per intero la via degli Stati uniti. Ora se ne tirano fuori solo 1,74. Questo giacimento «ha piccato». E non è una buona notizia per gli Usa, i più grandi consumatori di energia al mondo, che dicono di voler ridurre la propria dipendenza dal petrolio mediorientale (ma hanno attaccato l'Iraq per prenderne l'esclusiva).
Né è una buona notizia per l'Europa che gli Usa siano seriamente intenzionati a ridurre almeno un po' il loro gigantesco deficit commerciale con il resto del mondo (800 miliardi di dollari l'anno). Per farlo - spiega Martin Feldstein sul Financial Times -gli Usa dovranno ridurre le proprie importazioni, svalutare il dollaro e migliorare così la competitività internazionale delle proprie merci. L'export europeo verso gli States, perciò, sta per passare un brutto quarto d'ora proprio mentre la «ripresa», anche per l'eurozona, sembra consolidarsi. Il Fmi, ieri, accreditava l'Ue di un +2,1% per l'anno in corso, nonostante una «dinamica dei consumi interni» al Continente «ancora troppo bassa». Certo non potrà sostenere la «crescita» la decisione che oggi prenderà la Banca centrale europea (Bce): portare i tassi di interesse al 3% per «paura dell'inflazione».
Se ne sono accorti anche gli ultraliberisti e monetaristi del Fmi, che ora stanno consigliando alla Bce di «essere più prudente» su questa strada. L'economia reale, infatti, tollera male le forzature «ideologiche» che partoriscono decisioni di politica monetaria troppo restrittive.
Ma non si trova nessuno, tanto meno tra gli allineatissimi italiani, che riesca a farlo notare a quelli di Francoforte.

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