Prendi i soldi (dello Stato) e scappa: la corsa al profitto delle sorelle del petrolio
Non ci volevano quei geni del Fondo monetario per accorgersi che il prezzo del petrolio è destinato a restare alto per molto tempo. Era sufficiente dare un’occhiata ai giornali di questi giorni per scorgere, se mai, uno scenario molto simile a quello dipinto dai teorici del picco petrolifero che accusano le grandi compagnie di nascondere i dati reali sulle effettive scorte e di lasciare andare tutto in malora per non investire soldi che potrebbero andare perduti con l’esaurimento dei giacimenti.
Da qualche giorno sul banco degli imputati c’è la Bp, il secondo gruppo energetico europeo che appena l’anno scorso aveva abbracciato entusiasticamente una nuova stagione di responsabilità sociale e ambientale. L’impegno della compagnia britannica nella transizione al di fuori dei combustibili fossili era testimoniato dai forti investimenti nella ricerca sulle energie rinnovabili e dalla decisione di cambiare addirittura il nome dallo storico “British Petroil” a “Beyond Petroil”, ovvero “Oltre il petrolio”. Peccato però che, all’atto pratico, Bp abbia mostrato tutti i limiti delle Sorelle più cattive: scarsa manutenzione degli impianti e delle pipeline, sopravvalutazione delle riserve e poco rispetto per i problemi ambientali.
L’ultima, in ordine di apparizione, è la notizia atterrata ieri sulle prime pagine dei media economici provocando un rimbalzo che ha fatto aumentare il prezzo del greggio di un dollaro: il super-mega-giacimento di Thunder Horse, nel Golfo del Messico, non comincerà a funzionare almeno fino alla metà del 2008. Un ritardo di ben 18 mesi rispetto al previsto dovuto alle enormi difficoltà che si riscontrano a trivellare in acque profonde e sempre più infestate di uragani, la cui frequenza e violenza sono incrementate dal cambiamento climatico provocato, appunto, dai combustibili fossili. La cosa è aggravata dal fatto che il Thunder Horse, che doveva essere l’asso nella manica della Bp, si sta rivelando meno ricco del previsto: da un miliardo e mezzo di barili stimati siamo passati a 600 milioni, e c’è chi dice che scenderanno ancora.
Nel frattempo Lord Brown, il chief executive della Bp, è costretto a rendere conto al Dipartimento di giustizia statunitense e ad altre numerose agenzie governative su due questioni che Bp si trascina dietro da un anno: l’incidente dell’anno scorso alla raffineria di Texas City e lo stato dell’oleodotto dell’Alaska, bloccato questa estate dopo numerose perdite. Sia l’incendio alla raffineria - nel quale morirono 14 operai - che le perdite nella pipeline di Prudhoe Bay sarebbero frutto della scarsa propensione della compagnia a investire in manutenzione e sicurezza dei vecchi impianti, un disimpegno che è sotto gli occhi di tutti anche se soltanto i teorici del picco lo legano dall’esaurimento del petrolio. Resta il fatto che le compagnie petrolifere - tutte impegnate a polverizzare ogni record di profitto - sono molto più propense a buttare soldi in progetti nuovi nei quali possono dividere il peso finanziario con le istituzioni pubbliche e le agenzie di prestito internazionali, piuttosto che riparare i propri oleodotti o costruire nuove raffinerie.
Ieri comunque non è andata male soltanto ai petrolieri inglesi. Mentre l’Opec e l’International Energy Agency riformulavano al ribasso le loro previsioni, dall’altro estremo del pianeta arrivava un’altra notizia di un certo peso: il blocco della costruzione della megapipeline di Sakhalin per mancato rispetto della normativa ambientale. Secondo il ministro delle Risorse naturali russo, l’oleodotto che Royal Dutch Shell sta costruendo nella penisola di Sakhalin, territorio russo affacciato sul nord del Giappone, non rispetta gli standard fissati per preservare una regione di grande importanza ecologica, come sostengono da anni gli attivisti delle comunità locali che vivono di caccia, pesca e turismo. Inoltre, l’oleodotto da 20 miliardi di dollari metterebbe a repentaglio uno degli ultimi santuari della balena grigia del Pacifico, problema che ha attirato l’attenzione delle organizzazioni ambientaliste statunitensi e giapponesi. Sarebbe stata infatti la campagna internazionale in difesa delle balene ad avere spinto le autorità russe a fare marcia indietro. Naturalmente la cosa viene letta dai petrolieri come un tentativo di riprendere il controllo delle risorse energetiche nazionali da parte di Mosca e, com’è noto, non c’è eresia peggiore, sia a quelle latitudini che alle nostre.
Resta il fatto che, anche nel caso del decantato petrolio (e gas) siberiano, la realtà è molto diversa dagli annunci promozionali. Mentre il Sakhalin 2 della Shell se la vede con le normative ambientali, e la francese Total (che partecipa al consorzio) viene denunciata dalle autorità russe per avere violato la normativa ambientale, il costo dell’impianto off shore che la Exxon Mobil sta costruendo sempre nella penisola di Sakhalin aumenta di un buon del 33 per cento. Pare che Exxon, che l’anno scorso ha registrato il più alto profitto della storia degli Stati Uniti, abbia sottovalutato l’aumento del prezzo dell’acciaio che ha fatto lievitare il preventivo dell’impianto da 12 a 17 miliardi di dollari. Attendiamo il ridimensionamento dei giacimenti che, anche da queste parti, sono stati gonfiati per attirare gli investitori.
Ricapitolando: alcune delle più ricche compagnie del mondo lasciano andare in rovina i propri impianti anche quando sono situati in zone ecologicamente sensibili come l’Alaska o quando, come nel caso della raffineria di Texas City, mettono a repentaglio la vita dei lavoratori. Le suddette compagnie ottengono ingenti finanziamenti per lo sfruttamento di giacimenti la cui reale entità viene scoperta solo molto tempo dopo che i soldi dei contribuenti sono stati generosamente elargiti. I nuovi progetti sempre più faraonici hanno costi che lievitano a una velocità pari a quella al prezzo del petrolio e ricadute ambientali pesantissime mentre, dal punto di vista occupazionale, non sono assolutamente in grado di riassorbire i lavori tradizionali che vengono spazzati via, dall’agricoltura alla pastorizia, dalla pesca al turismo. Qualunque tentativo da parte dei governi di far rispettare le timide leggi ambientali viene attaccato con violenza e liquidato, di volta in volta, come rigurgito vetero-comunista (nel caso della Russia), come anti-americanismo viscerale (nel caso della Bolivia o del Venezuela), o come vendetta islamista (tutti gli altri).
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