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Notizia segreta per due anni

Corrente del Golfo in panne

E’ un allarme gravissimo: si rischia un rivoluzione del clima
31 ottobre 2006
Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it

- 29 ottobre 2006

E così, alla fine, è successo davvero. Il peggior incubo dei climatologi, l’arresto della corrente che trasporta le acque calde del Golfo del Messico verso nord rendendo possibile la vita nei paesi affacciati sull’Atlantico settentrionale, si è verificato nel 2004, e per ben dieci giorni.

La notizia è stata pubblicata dal britannico Guardian che ha ripreso l’allarme lanciato da Lloyd Keigwin del Woods Hole Oceanographic Institute nel Massachusetts. Se l’informazione fosse una cosa seria, la notizia dovrebbe campeggiare, a caratteri cubitali, sulla prima pagina di tutti i giornali del pianeta perché dimostra che siamo approdati in quella che alcuni ambientalisti illustri avevano descritto come la “fase due” del riscaldamento globale, quando gli effetti immediati dell’aumento della temperatura innescano una reazione a catena dalle conseguenze non completamente prevedibili ma che, di certo, non fanno sperare niente di buono. Ne ha parlato uno che di clima se ne intende: Jeremy Leggett, vent’anni a studiare il riscaldamento globale e a cercare di portare la voce dell’ambientalismo nei negoziati per la formulazione del protocollo di Kyoto come direttore scientifico di Greenpeace international. Nel suo recentissimo “Fine corsa” (Einaudi 2006) Leggett dedica un capitolo alle conseguenze indirette dell’effetto serra, settore che i ricercatori hanno appena cominciato ad affrontare. Il clima, sottolinea Leggett, è una faccenda alquanto complicata. L’aumento degli uragani, l’estendersi dei deserti, l’innalzamento dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacci, sono conseguenze dirette dell’aumento della temperatura. Ma, per quanto possa già sembrare disastrosa una simile prospettiva, l’ecosistema è regolato da meccanismi delicati e complessi nei quali anche un modesto incremento di uno o due gradi può innescare una reazione a catena di proporzioni inimmaginabili. Inimmaginabili anche per la scienza, abituata ad avere a che fare con fenomeni lineari e non con la complessità del clima. E fra i fenomeni di regolazione climatica, la Corrente del Golfo è uno dei più complicati.

Immaginate una sorta di gigantesco nastro trasportatore tenuto in moto dalla differenza di densità fra l’acqua salata proveniente dai Tropici e quella, più dolce, che deriva dall’incontro della corrente calda con i ghiacci polari.

Vent’anni fa alcuni ricercatori puntarono il dito su questo fenomeno. Attenzione, dissero, se la temperatura aumenta e il ghiaccio dell’Artico comincia a squagliarsi più del normale, la salinità dell’acqua oceanica è destinata a cambiare con il rischio di bloccare quel nastro trasportatore che lambisce le coste settentrionali degli Stati Uniti e del Canada, sfiora la Groenlandia e ridiscende accarezzando i paesi scandinavi e la Gran Bretagna e rendendo di fatto possibile la vita nelle zone temperate. Un blocco della corrente, avvertirono gli scienziati, potrebbe far precipitare la temperatura anche di dieci gradi, con effetti facilmente immaginabili sull’agricoltura e sull’abitabilità di quei paesi.

Vent’anni fa l’ipotesi venne liquidata come allarmismo fantascientifico. Le grandi corporation degli idrocarburi, invece di investire una modica quantità dei loro ingenti profitti nel miglioramento tecnologico e nella prevenzione dell’inquinamento, decisero di riversare una montagna di soldi nella guerra al timido tentativo di rallentare l’effetto serra noto come Protocollo di Kyoto. Ebbero successo. La cortina fumogena riuscì a mettere sullo stesso piano il pool di eminenti scienziati riuniti dalle Nazioni Unite per compilare il trattato e una ventina di ricercatori prezzolati che prima negarono l’evidenza del riscaldamento globale e poi, una volta che la negazione era diventata impossibile, sostennero che si trattava di una normale fluttuazione climatica che nulla aveva a che fare con l’attività umana.

L’ipotesi che un alterazione del clima potesse causare conseguenze imprevedibili venne lasciata alla fantasia degli scrittori di fantascienza e dei registi di Hollywood. The show must go on, come si dice, ovvero lasciateci lavorare e non prestate orecchio agli uccelli del malaugurio.

Così, com’è noto, ben pochi paesi al mondo sono riusciti a rispettare le modeste riduzioni delle emissioni stabilite dal Protocollo di Kyoto - che, fra l’altro, lascia anche la possibilità di acquistare quote d’inquinamento dai paesi meno industrializzati, tanto per evitare il rischio che la trionfale marcia dello sviluppo rallenti anche solo di poco. Ed eccoci ai giorni nostri, al «cambiamento più brutale nell’intera storia dell’osservazione del clima», come il professor Keigwin ha definito l’arresto momentaneo della Corrente del Golfo. Secondo il climatologo, non solo il fenomeno potrebbe ripetersi in qualunque momento, ma può avere conseguenze drammatiche anche il semplice rallentamento di quel circuito virtuoso, un rallentamento che ormai sembra appurato. L’ha quantificato Harry Bryden, del National Oceanography Center di Southampton, calcolando che, fra il 1957 e il 1998, il flusso si è già ridotto di circa 6 milioni di tonnellate al secondo. In seguito, ben 16 stazioni di rilevamento distribuite sul fondo dell’Atlantico tra la Florida e il Nord Africa, hanno confermato che la tendenza persiste.

Ora, mentre va in scena la fine del mondo, sorgono spontanee alcune domande. La prima riguarda il fatto che la notiziola è vecchia di ben due anni, due anni durante i quali abbiamo allegramente continuato a bruciare petrolio, carbone e gas, a firmare protocolli e accordi economici, a stanziare fondi per nuovi oleodotti e nuovi giacimenti e, tanto per dare un contentino agli amanti della natura, a presenziare gli incontri della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici con i rappresentanti dei 140 paesi che hanno firmato il protocollo di Kyoto. Possibile che questi signori non siano stati informati che nel novembre del 2004 la corrente del golfo si è fermata per dieci giorni? A cosa servono le Conferenze delle parti, solo a diramare appelli accorati e a fornire un palcoscenico per i candidati delle varie campagne elettorali planetarie? Oppure hanno saputo e non hanno informato nessuno? Anche questa prospettiva, non è certo incoraggiante.

La seconda considerazione riguarda il successo di quella magnifica idea che si chiama capitalismo capace di darci - a noi che siamo nati dal lato giusto del mondo - una certa sicurezza economica e tanti bei gadget più o meno utili al modico prezzo della catastrofe planetaria, una catastrofe sempre più vicina, sempre meno reversibile e che riesce ad andare oltre alle peggiori previsioni dei più pessimisti.

Nel suo “Collassi”(Einaudi, 2005) Jeremy Diamond cercava, analizzando gli esempi del passato, di capire perché alcune società sono riuscite a sopravvivere ai cambiamenti del loro ambiente mentre altre hanno scelto l’estinzione pur di non modificare il proprio modello sociale ed economico. Nel saggio colpiva più d’ogni altra la storia dell’Isola di Pasqua dove, invece di tentare di salvare le foreste che consentivano la sopravvivenza nella sperduta isola del Pacifico, gli abitanti originari continuarono a costruire le loro enormi sculture di pietra. Come è possibile, ci si chiede leggendo quelle pagine, che gli antichi abitanti abbiano tagliato tutti gli alberi inseguendo la speranza di una salvezza che sarebbe dovuta arrivare dal mare richiamata, appunto, dalle gigantesche statue? Possibile che gli esseri umani siano così stupidi da causare la propria autodistruzione? Ora abbiamo la risposta: sì, è decisamente possibile e, forse, tragicamente probabile.

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