I mobili Ikea vanno a petrolio
Nei giorni scorsi Vecchiano [in provincia di Pisa] si sono svolte alcune importanti assemblee cittadina per discutere la richiesta di Ikea di aprire a Migliarino una mega-area commerciale, nella quale non ci sarà solo il suo ipermercato, ma anche quelli di altre società che vendono computer, abbigliamento sportivo, attrezzi per bricolage e forse anche prodotti alimentari.
A fronte degli 850 posti di lavoro che Ikea sventola per ottenere l'approvazione, sono emersi gli stravolgimenti sociali e ambientali che il progetto provocherà: caos, intasamenti stradali, rumore, aumento delle poveri sottili, umiliazione del parco naturale. Lo specchietto per le allodole non funziona. È stato confortante ascoltare argomentazioni tanto mature, ma ne sono uscito con la convinzione che hanno il limite di essere troppo localistiche e che fuori dalla frazione di Migliarino non faranno proseliti. Se la questione si riduce a un contenzioso fra potenze commerciali e il disagio subito dagli abitanti di Migliarino, la partita è già segnata. Le forze politiche si piegheranno all'interesse supremo delle multinazionali. Eppure sono convinto che esistano ragioni di natura universale per opporsi all'apertura di questo mostro commerciale. Prima fra tutte la salvaguardia del clima. Nei mesi appena trascorsi si sono susseguiti vari rapporti che pur essendo stilati da soggetti diversi - scienziati, governi, istituzioni internazionali - contengono le stesse affermazioni: il globo si sta surriscaldando con conseguenze drammatiche per clima, l'innalzamento dei mari, carestie alimentari; il surriscaldamento è dovuto a un accumulo di anidride carbonica proveniente dalla combustione di sostanze fossili, primo fra tutti il petrolio; se vogliamo salvare il pianeta dobbiamo ridurre le emissioni di anidride carbonica del 60 per cento.
Quando il medico ci espone con precisione diagnosi, cause e cura, di solito prendiamo provvedimenti immediati. Non in questo caso. Riconosciamo la drammaticità del momento, ma solo nei telegiornali e nelle università, quasi si trattasse di un tema di carattere culturale. Poi quando torniamo alla concretezza dell'economia continuiamo con gli stessi atteggiamenti suicidi, come se provassimo gusto ad assistere alla nostra agonia davanti allo specchio. Sappiamo che se vogliamo salvare il pianeta dovremo ridurre l'uso dell'automobile che contribuisce per il 30 per cento alla produzione di anidiride carbonica. Il che non significa solo potenziamento dei mezzi pubblici, ma anche riprogettazione delle città, creazione dei posti di lavoro in ambito locale, consumo locale per ridurre gli spostamenti di persone e merci. Ma tanto per mantenerci allenati nella nostra schizofrenia progettiamo altri centri commerciali che si basano sullo spostamento su grandi distanze di milioni di persone. Ikea è stata chiara: ha pensato a Migliarino perché c'è uno svincolo autostradale che richiamerà clienti da Spezia a Grosseto. Il suo progetto prevede un parcheggio con oltre 6 mila posti. Due milioni di clienti l'anno peggioreranno le sorti del clima e condanneranno a morte i loro figli perché sgasseranno in autostrada pur di comprarsi una sedia pieghevole a qualche euro di meno.
Nella stessa logica si colloca la natura multinazionale di Ikea. Un'impresa che sposta la produzione dove la produzione costa di meno, ossia dove è più alta la licenza di sfruttare e di violare l'ambiente, noncurante dei drammi sociali che lascia nei luoghi abbandonati e delle migliaia di tonnellate di petrolio che brucia per rifornire i propri ipermercati da un capo all'altro del mondo.
È inutile che le multinazionali ci mostrino dati costruiti ad arte per mostrare la loro sensibilità sociale e ambientale. Sono i fatti che parlano non i rapporti sociali stilati su carta patinata dagli addetti alle pubbliche relazioni. In Cina, dove Ikea produce il 18 per cento dei propri prodotti a marchio, il salario minimo è poco più di un dollaro al giorno, la stessa cifra cha la Banca mondiale considera come soglia della povertà assoluta. L'Organizzazione internazionale del lavoro, che Ikea cita come un organismo col quale collabora, ha denunciato la drammaticità di un miliardo di persone eufemisticamente definiti working poors, poveri che lavorano, semplicemente perché guadagnano salari troppo bassi per vivere dignitosamente.
Se non vogliamo che il mondo intero faccia la fine dell'isola di Pasqua, è tempo di scelte coerenti e nell'attesa di effettuare le rivoluzioni nel modo di produrre energia elettrica, nel modo di organizzare le città, l'abitare, la produzione, che lo stesso Chirac ha sollecitato, cominciamo a smettere di peggiorare le cose, dicendo un no secco a chi vuole perpetuare un modello che in nome del proprio profitto ci porta nel baratro.
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