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L'imperialismo ecologico

Il business è grande, ma dietro c'è un coté politico chiaro: obiettivi Chavez e il Sudamerica Bush e Lula Oggi celebreranno a Camp David la «partnership strategica» sulla «benzina verde»L'America latina e l'etanolo I biocombustibili, un affare che mette a rischio la sopravvivenza globale
31 marzo 2007
Maurizio Matteuzzi
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Al tempo della dittatura militare in Brasile un ministro degli esteri brasiliano divenne famoso per una frase: «Quel che va bene per gli Stati uniti, va bene per il Brasile». La frase divenne il simbolo della sottomissione non solo del Brasile ma di tutto il continente a sud del Rio Bravo - con la clamorosa e mai perdonata eccezione di Cuba.
Per una sorta di nemesi storica potrebbe sembrare che ora le parti si siano invertite. E che tocchi agli Stati uniti - e agli Stati uniti di George Bush, l'uomo del «grosso randello» su scala planetaria - invertire quella frase e andare incontro, se non proprio sottomettersi, agli interessi del Brasile e del suo (primo) governo di sinistra. Fallito il progetto strategico dell'Alca, ora è arrivato il momento dell'etanolo. Il «bio-combustibile ambientalista», la «benzina verde» di cui Stati uniti e Brasile producono oltre il 70% del totale. Basta con il petrolio e i combustibili fossili inquinanti e non rinnovabili, basta con la dipendenza da paesi ostili - come il Venezuela di Chavez o l'Iran di Ahmadinejad - o instabili e inaffidabili - come Nigeria, Angola, Sudan - e avanti tutta con «i propellenti alternativi», che non inquinano, non riscaldano il pianeta. Rinnovabili e naturali visto che vengono da canna da zucchero, mais, soia, palma africana, mandorle, girasole.
Per questo Bush e Lula, due sabati fa a Brasilia, hanno firmato il memorandum di una «partnership strategica» per la produzione dell'etanolo. Per questo oggi Lula avrà il grande onore di essere il primo capo di Stato latino-americano invitato a Camp David, l'esclusiva residenza dei week-end presidenziali nelle campagne del Maryland.
Per questo ma non solo.
Che l'etanolo sia il nuovo business del prossimo futuro non ci sono dubbi. I grandi gruppi del capitale internazionale - la «trilaterale» delle corporations petrolifere, delle imprese automobilistiche, delle transnazionali del mercato agricolo e delle sementi trasngeniche - vi si stanno buttando a pesce, con investimenti colossali, al pari dei grandi speculatori della finanza mondiale, come George Soros. Il solo annuncio della «partnership strategica» Usa-Brasile, l'annuncio di Bush di voler ridurre del 20% il consumo della benzina da petrolio entro il 2017 puntando sul «bio-fuel», ha già fatto schizzare in alto i prezzi del grano e del mais nella Borsa agricola di Chicago. Ieri il New York Times scriveva che i farmers Usa progettano di aumentare quest'anno le colture di mais a livelli record. E in Brasile, Alfred Szwarc, presidente dell'associazione dei coltivatori di canna da zucchero, gongolava facendo i conti che «se gli americani vogliono sostituire il 20% della benzina con l'etanolo noi dovremo triplicare la produzione per soddisfare la domanda del mercato Usa».
La corsa al mais, alla canna da zucchero come la corsa all'oro d'antan. Perché non correre? Ecco l'Italia di Prodi che giorni fa sempre a Brasilia ha benedetto con Lula la partnership fra la Petrobras e l'Eni per la costruzione di 4 impianti per l'etanolo. E non solo in Brasile. Nei paesi vassalli del Centramerica, in quelli perduti dell'Africa e dovunque ci siano terre da coltivare e sole da riscaldarle. Nel sud del mondo.
Nessuno sostiene che l'etanolo da canna sia peggio della benzina da petrolio. Anche se ci sono fortissimi dubbi sulla sua «sostenibilità ambientale» perché comporterà il boom, oltre che degli investimenti, della moncoltura, degli agrotossici, dell'espulsione di milioni di contadini, dell'uso delle terre non per alimenti ma combustibile. Forse Fidel e Chavez, i Sem Terra brasiliani e Via campesina esagerano nei calcoli sulla distruttività dell'etanolo. Forse la vedono troppo nera il cileno Miguel Altieri, esperto di agro-ecologia dell'università di Berkeley, che liquida i bio-combustibili come «imperialismo biologico»», e l'inglese George Monbiot che sul Guardian scriveva di un potere inquinante dei bio-fuels, per via delle inevitabili deforestazioni, «dieci volte peggiore del petrolio».
Ma dietro al green-washing, la mano di verde data al business dell'etanolo, dietro alla trionfalistica «dichiarazione di indipendenza energetica» lanciata da Bush a Brasilia e ai proclami suicidi del neo-lulismo di fare «degli 80 milioni di ettari dell'Amazzonia l'Arabia saudita del bio-combustibile», si scorge il coté politico. L'obiettivo di staccare il Brasile, facendogli balenare davanti il ruolo di «global player», dal resto dell'America latina impegnata in un arduo processo di liberazione-integrazione. Di rompere la «sintonia di sinistra» che finora ha tenuto insieme, bene o male e grazie alla petro-diplomazia di Chavez, governi così diversi come quelli di Brasile, Venezuela, Argentina, Cile, Bolivia, Uruguay, Ecuador. Di fermare la spinta aggressivamente antimperialista - e quindi anti-Usa - di Chavez, isolandolo dal contesto «moderato». Di ricreare, con l'alibi dell'indipendenza energetica, la nuova/vecchia dipendenza di sempre.

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