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Che fare della monnezza campana

L'emergenza rifiuti non è insormontabile. Basta volerlo fare davvero
Almeno 15 anni di «errori» e cattiva volontà degli amministratori hanno prodotto una situazione folle. Ma le vie per rimediare ci sono. Per cominciare, abolire gli imballaggi su tutti i prodotti confezionati, da subito
25 maggio 2007
Guido Viale
Fonte: Il Manifesto - 22 maggio 2007

La questione dei rifiuti in Campania è un concentrato di tutte le crisi del nostro paese: crisi culturale, politica, amministrativa, economica, occupazionale, ambientale, urbana, sanitaria, securitaria: insomma, una bancarotta della democrazia.
La crisi nasce innanzitutto da una sottovalutazione della questione dei rifiuti, che continua ancor oggi a essere considerata un ambito settoriale e non un tema che incrocia tutti gli ambiti della vita, sia quotidiana che istituzionale. Ci si riempie la bocca con le parole crescita e sviluppo, senza rendersi conto che una gestione lungimirante del ciclo dei rifiuti e delle filiere che li generano può trasformarsi in una fonte di occupazione qualificata, di impresa innovativa, di reddito e di qualità della vita e dell'ambiente. Ma anche senza rendersi conto che non saper gestire i propri rifiuti distrugge la principale industria del territorio, il turismo, e «l'attrazione degli investimenti»: quella capacità che oggi mette in competizione tutte le città-regioni del mondo. Così le ambizioni di Napoli, capitale del Mediterraneo, insieme al cosiddetto «Rinascimento napoletano», sono state definitivamente affossate sotto un cumulo di monnezza.
In materia, destra e sinistra non hanno fatto nulla che le distinguesse tra loro. Quindici anni fa la giunta Rastrelli (An) aveva varato un piano dei rifiuti che attribuiva la parte onerosa del ciclo (la raccolta) ai comuni e ai loro consorzi, e quella in cui si guadagna (gli impianti) ai privati. Anzi, a un privato, la società Fibe, che con un'unica gara (sulla cui correttezza sono stati avanzati molti dubbi) si era aggiudicata costruzione e gestione di tutti gli impianti previsti dal piano: tre inceneritori e cinque impianti di trattamento meccanico-biologico (Mtb), comunemente chiamati Cdr (da combustibile ricavato dai rifiuti: uno dei due prodotti, quello destinato ad alimentare gli inceneritori, che dovrebbero uscire da quegli impianti; l'altro si chiama Fos, frazione organica stabilizzata, ed è un terriccio usato per ricoprire cave e discariche).
L'infelice scelta di Acerra
Ma insieme agli impianti, alla Fibe era stato attribuita anche la scelta del sito in cui costruirli (per aggiudicarsi l'appalto i concorrenti dovevano già disporre delle aree) e questa, per convenienze sue, aveva scelto Acerra, l'area più infestata dai tumori di tutta l'Europa. L'amministrazione regionale aveva cioè abdicato da quella che è la funzione per eccellenza di chi ha responsabilità di governo del territorio, ma le due giunte successive (Bassolino) non hanno mai messo in discussione quelle scelte, nonostante che ve ne fossero tutte le condizioni (tanto è vero che il contratto con la Fibe alla fine è stato rescisso); e nonostante che i presidenti di tutte e tre le giunte fossero stati investiti dei poteri straordinari connessi alla gestione commissariale.
Per 15 anni si è lasciato che le cose corressero verso il baratro: percentuali irrisorie di raccolta differenziata; dieci milioni di «ecoballe» uscite dai Cdr: cioè balle di immondizia, vere e proprie bombe ecologiche, accatastate in immense piramidi, da fare invidia a quella di Cheope; quasi mille discariche illegali, ma non clandestine, di rifiuti industriali e ospedalieri provenienti da mezza Italia e gestite dalla Camorra; altre centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti che periodicamente si accumulano per le strade, fino a quando qualcuno non le incendia spargendo nell'aria più diossina di trenta inceneritori messi insieme; decine e decine di treni per portare nel resto dell'Italia e in Germania un gigantesco campionario dei nostri rifiuti made in Italy; decine di migliaia di lavoratori, un vero e proprio esercito, in cui si sovrapponevano gestioni comunali, appaltatori privati, consorzi a cui i comuni non hanno mai voluto cedere le competenze e, dulcis in fundo, Lsu (lavoratori socialmente utili) in carico alla giunta di destra, poi quelli delle giunte di sinistra; tutti ingannati con la promessa di lavorare a una raccolta differenziata che non si è mai fatta. A riprova del fatto che i rifiuti sono il ricettacolo non solo delle cose che non ci servono più, ma anche delle persone di cui ci si vuole sbarazzare: con politiche cosiddette di workfare senza capo né coda.
La gestione commissariale ha trasformato il cancro in metastasi, affidando la soluzione del problema alle stesse persone - i presidenti della giunta regionale - che, come titolari dell'ordinaria amministrazione ne erano stati esautorati. Ma anche quando la palla e passata al prefetto Catenacci (in una regione dove l'intreccio tra Camorra e rifiuti è il nodo da sciogliere) le cose non sono cambiate. Non perché lo scontro con la malavita organizzata sia stato troppo aspro, ma perché non c'è stato: per non disturbare i sindaci che non volevano «interferenze» nei loro feudi, fatti di appalti e gestioni dirette che spesso non arrivavano nemmeno al tre per cento di raccolta differenziata. Così abbiamo visto tanti sindaci indossare la fascia tricolore per mettersi alla testa di mobilitazioni contro le discariche decise dal commissario, ma nessuno fare la stessa cosa per impedire lo sversamento di rifiuti industriali mille volte più pericolosi nelle cave abusive gestite dalla Camorra, che tutti sanno dove sono e tutti sanno di chi sono.
Uno spirito di delega
Oltretutto, la gestione commissariale ha accentuato nella popolazione uno spirito di delega, per cui, a risolvere il problema, deve essere «lo Stato». Questo offusca la responsabilità diretta dei cittadini non solo rispetto alla raccolta differenziata (che con amministrazioni latitanti è peraltro impossibile fare); ma anche rispetto alla regolare riconferma di maggioranze e sindaci che nella gestione dei rifiuti vedono solo occasioni di malaffare e di clientele.
L'attuale gestione del commissario Bertolaso non promette di meglio, perché non sono cambiati i presupposti che ne definiscono gli obiettivi: cioè prender tempo - come si è fatto negli ultimi 15 anni - in attesa che siano pronti i tre impianti di incenerimento definiti dalla nuova gara di appalto da 4,5 miliardi di euro (avete letto bene: quattro virgola cinque miliardi di euro), divisa in tre lotti, ma andata deserta già due volte. Tanto che la Fibe, pur licenziata ed esclusa, è ancora lì al suo posto; a «finire il lavoro», come direbbe Bush. La Fibe, peraltro, si era aggiudicata la gara in project-financing, cioè anticipando il denaro dell'investimento, perché contava di recuperarlo con i proventi dell'inceneritore. Come ci insegna infatti il caso da manuale dell'Asm di Brescia, l'inceneritore è una macchina per fare soldi: non solo a spese degli utenti - i comuni che producono i rifiuti - ma anche dei contribuenti: attraverso i famigerati incentivi denominati Cip6. Ma ora che gli inceneritori sono stati finalmente esclusi dai benefici del Cip6, che senso ha continuare a costruirli?
All'incasso può ancora aspirare la Fibe, o chi la sostituirà; ma l'inceneritore di Acerra, se mai entrerà in funzione, avrà il suo daffare a bruciare - per i prossimi 15-20 anni: quanto è l'arco della sua vita utile - le «ecoballe» accumulate dagli impianti di Cdr; senza poter accogliere nemmeno un grammo dei rifiuti che verranno prodotti da ora in poi. E senza il Cip6 nessuno vorrà mai più finanziare con denaro proprio nuovi inceneritori. D'altronde, per costruirne uno, tra gare, progettazione, autorizzazioni e cantiere - ammesso, e ovviamente non concesso, che la popolazione non frapponga ostacoli - ci vogliono almeno quattro anni. Tutto il lavoro di Bertolaso per tappare i buchi in attesa dei nuovi inceneritori campani è dunque una fatica di Sisifo, che non farà avanzare di un palmo la situazione.
Che fare allora? La montagna di «errori» - per usare un eufemismo - accumulati negli anni sono una pietra al collo di chiunque si cimenti con il problema. La discarica che il nuovo commissario ha ottenuto di aprire a Serre (l'esito della vicenda dimostra comunque che ricorrendo fin da subito al negoziato si sarebbe probabilmente ottenuto lo stesso risultato in modo più rapido e meno traumatico) è appena sufficiente ad assorbire metà del milione di tonnellate di rifiuti che già ora si trova per strada. E poi?
Via gli imballi
Poi. Primo: bisogna ridurre drasticamente la produzione dei rifiuti. Non c'è alternativa: va vietata in tutta la regione, a tempo indeterminato e fino alla ricostituzione di uno stato di normalità, la vendita al dettaglio di prodotti imballati, sia alimentari che non (compresa l'acqua minerale e le bibite gassate), introducendo l'obbligo dei contenitori riusabili per la vendita dei prodotti sfusi, con esenzioni limitate ai soli casi in cui, per ragioni sanitarie, il rischio supera quello determinato dall'attuale accumulo di rifiuti per le strade. Si fa già da molte altre parti d'Italia e d'Europa. In Campania bisogna solo rendere generale e obbligatoria la cosa. Contestualmente, va fatto obbligo alla rete della distribuzione al dettaglio, e alle relative associazioni di categoria, di spacchettare i beni venduti e di avviare gli imballaggi agli impianti di recupero. Lo stesso deve valere per tutti gli inutili supplementi dei quotidiani e per la pubblicità cartacea. Da soli, gli imballaggi costituiscono il 40 per cento in peso dell'intera massa dei rifiuti urbani, ma fino al 60-70 per cento in volume.
Ne potrebbe anche nascere del buono. 1: la sperimentazione, da parte della cittadinanza, che si può vivere bene anche senza, o con molti imballaggi in meno; 2: la costruzione di canali di reverse-logistic (restituzione agli impianti di trattamento dei vuoti e dei prodotti dismessi) da parte dei commercianti e delle loro associazioni; 3: il potenziamento di detti impianti - molti possono essere realizzati e montati in pochi mesi; 4: lo stimolo per i produttori di beni di consumo - durevoli e non - a mettere in produzione articoli che comportino minor spreco di materiali. E' un esperimento che potrebbe far compiere alla Campania il salto di un'intera fase storica, trasformandola nel laboratorio di un'economia più sostenibile.
Secondo: la raccolta differenziata, per essere efficiente, deve essere fatta porta-a-porta, con una responsabilizzazione diretta non solo di ogni singolo utente ma anche, e soprattutto, degli addetti (alias, operatori ecologici). A questi spetta individuare le diverse tipologie di utenze servite, i loro problemi, e contribuire a trovare le soluzioni più acconce per ciascuna di esse con un confronto in seno ai rispettivi gruppi di lavoro.
E' una scelta organizzativa che professionalizza gli operatori, trasformandoli in lavoratori cosiddetti front-line. Richiede un'organizzazione capillare del servizio, la formazione continua degli addetti e, ovviamente, personale motivato, economicamente incentivato, e maggiori risorse: infinitamente meno, comunque, di quelle che sono state sprecate in anni di gestioni scellerate. L'esperienza insegna che si possono raggiungere percentuali di raccolta differenziata del 60-70 per cento anche in contesti urbani difficili in un anno o poco più. D'altronde alcuni centri della Campania questi obiettivi li hanno già raggiunti grazie agli sforzi dei loro amministratori: dunque, si può fare. La raccolta differenziata i cittadini la fanno volentieri e ne sono orgogliosi.
Terzo: la costruzione di nuovi impianti di trattamento meccanico-biologico e/o la riabilitazione di quelli esistenti deve mirare a un ulteriore recupero di materiali dal rifiuto residuo (frazione organica stabilizzata, plastica, cartaccia e metalli). Le tecnologie per farlo sono disponibili e già ampiamente sperimentate e il residuo da destinare alla discarica può scendere fino al 10 per cento di quanto prodotto. A questo punto il miraggio degli inceneritori che ci liberino finalmente (e quando?) dai rifiuti perde ogni ragion d'essere: sia ambientale, sia anche, e soprattutto, economica.
Come le piramidi di Giza
Quarto: il pregresso, cioè le montagne di ecoballe. Viene la tentazione di dire: che restino lì, come le piramidi di Giza; a perenne monito dei rischi connessi alla riconferma di sindaci inetti. E invece no. Qui, in presenza di un impegno concreto della popolazione campana, e di poteri sostitutivi nei confronti di tutti i comuni e i consorzi inadempienti, si può chiedere per l'ultima volta alle altre regioni italiane di farsi carico di una parte almeno del loro smaltimento: in impianti dedicati (inceneritori e discariche) e non (centrali a carbone,cementifici) che siano in grado di contenere gli impatti di quel disastro. E' un debito che le altre regioni hanno contratto nel tempo, perché la maggior parte delle discariche abusive che inquinano la Campania sono state riempite con rifiuti provenienti da fuori.
Quinto: per quanto riguarda l'ordine pubblico, le cause della montagna di rifiuti che invade la Campania sono Camorra e corruzione o, più spesso, la contiguità tra Camorra e amministrazioni pubbliche, a tutti i livelli. Per combattere entrambe non mancano le leggi (il codice penale), né gli strumenti (prefetti, polizia, carabinieri, guardia di finanza, magistratura).
Forse, qui come altrove, manca del tutto la volontà politica e, a monte, tra noi cittadini ed elettori, una cultura adatta ai problemi da affrontare.

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