Secondo Michele Serra, di cui sono amico e ho grande stima, i morti sulle strade - 5-7.000 all'anno in Italia, oltre mezzo milione all'anno nel mondo, da 15 a 30 milioni, a seconda delle stime, dall'inizio dell'era dell'automobile; non solo automobilisti, ma anche, e sempre più spesso, pedoni e ciclisti - si dividono in due categorie: quelli fisiologici e quelli eccedentari («Quando l'auto diventa un'arma», pubblicato sulla Repubblica di ieri).
I primi sono necessari: non se ne può fare a meno in una società fondata sulla mobilità. I secondi superflui: sono quelli indotti «dall'asocialità, dalla stoltezza, dall'aggressività». Che siano le automobili, e le regole che presiedono alla produzione e vendita di auto sempre più potenti e a una congestione che non lascia spazio agli uni se non portandolo via agli altri, isolandoci in tante corazze di lamiera, a generare «asocialità, stoltezza, aggressività», non viene minimamente preso in considerazione.
È un po' come dire che in una società che da sessant'anni e più convive con la mafia, anche i morti ammazzati dalla criminalità organizzata si dividono in fisiologici e superflui. Ma la mafia, direte voi, non è un bene pubblico e necessario come la strada. Come la strada no. Ma con l'automobile ha molte affinità. Enormi guadagni, grande impegno di risorse umane, enormi danni per la collettività, enorme capacità di convogliare consenso e di distribuire reddito, controllo capillare del territorio e, dulcis in fundo, molti più morti ammazzati.
L'auto uccide. È un'arma. Una volta tutti i membri - maschi - di una comunità, o tutti coloro che venivano ritenuti degni di appartenervi, avevano il diritto di portarne una. Chi non l'aveva o non poteva portarla era un servo, un paria, un bandito. Ora non è più così.
In una società in cui i vettori del controllo sociale si sono diluiti fino alla dissoluzione, il diritto del cittadino di portare una o più armi esiste ormai solo negli Stati Uniti; con le conseguenze che tutti vediamo. Nel resto del mondo questo diritto è regolamentato e limitato a chi ne può dover fare uso per esigenze di servizio (polizia, soldati, vigilantes, persone particolarmente esposte al rischio di aggressioni o rapine) e solo in servizio o nell'esercizio delle proprie funzioni. Ma che tutti abbiano invece diritto di avere un'auto e di usarla quando dove e come vogliono non viene messo in discussione da nessuna parte.
Certo, l'auto non è solo uno strumento di mobilità: come le armi, è anche e sempre più anche strumento di ostentazione, di sopraffazione, di autogratificazione; ma anche le armi non rispondono solo a esigenze di difesa o di offesa legittime. Quelli della mia generazione hanno visto centinaia di loro compagni appropriarsi, esibire e poi anche usare delle armi per cercare di dimostrare, maschi o femmine che fossero, di «avere le palle»: forse insicuri di poterlo dimostrare altrimenti. Ne è nata una storia tragica.
Tuttavia, quello che emerge chiaramente da una situazione come quella degli Stati Uniti, dove c'è in giro più di un'arma per abitante, è quanto sia difficile «rientrare» da una situazione del genere a una di più o meno estesa «normalità». Con l'auto, ovviamente, è ancora peggio.
Dato che l'auto non uccide solo per contatto diretto - leggi incidenti - ma anche con le sue emissioni e lo stress che la congestione ingenera, sarebbe ancor più necessario che con le armi limitarne l'uso a chi ne ha strettamente bisogno per motivi di servizio, e solo per il tempo in cui questo motivo sussiste, affidando la soddisfazione delle nostre esigenze di mobilità, che giustamente Michele Serra ci ricorda essere alla base della società moderna, ad altri mezzi: al trasporto pubblico di massa e al trasporto flessibile e personalizzato. Costerebbe meno, inquinerebbe meno, ucciderebbe meno.
Certo il rientro nella «normalità» da una situazione eccezionale e destinata a finire quando finirà il petrolio o quando l'effetto serra ci avrà irreversibilmente soffocati è più difficile che disarmare 300 milioni di cittadini americani. Ma perché disperare?
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