Liberalizzazioni elettriche: sicuri aumenti delle bollette
Un fallimento annunciato. Peggio, una pericolosissima mina sociale e ambientale in un silenzio assordante distratto solo dalle aggressive campagne pubblicitarie delle aziende. L'ultimo tassello della liberalizzazione del mercato elettrico, con l'apertura della concorrenza nell'offerta alle famiglie, era uno dei banchi di prova più importanti per giudicare il centrosinistra al governo. E alla prova dei fatti merita una sonora bocciatura. Un appuntamento noto da anni a cui si è arrivati in ritardo e senza idee. Al punto che nessuna voce si è alzata per contrastare la richiesta di spazzare via un sistema di tariffe che aveva una chiara impronta progressista e ambientalista: tariffe basse per gli utenti che consumavano poco e per le prime case, mentre le tariffe crescevano (e di molto) per tutti gli altri: seconde case, grandi consumatori, imprese. Quello che le aziende elettriche stanno chiedendo, e che presumibilmente nei prossimi giorni otterranno, è di individuare alcune limitate categorie «sociali» a cui lasciare tariffe scontate e invece sulle 18 milioni di famiglie che fino ad oggi consumavano poco lasciar fare al mercato. Con la prevedibile conseguenza di avere tariffe più alte, premiare con sconti il maggiore consumo (come avviene per la telefonia), aumentare il disagio economico di tante famiglie e insieme produrre un rilevante aumento dei consumi energetici. Possibile che nessuna delle tante anime dell'Unione si renda conto dei rischi di quanto si sta sotto silenzio realizzando?
Nel 1962 il centrosinistra si convinse a nazionalizzare l'energia elettrica proprio perché in questo settore si concentravano problemi e inefficienze che mettevano a rischio la modernizzazione del paese causate dal «cartello» sui prezzi dell'energia e dai mancati investimenti rispetto ai grandi guadagni realizzati ma dirottati altrove. A rileggere le violente discussioni di allora, le appassionate argomentazioni di Riccardo Lombardi, si comprende in tutta la sua evidenza l'inadeguatezza dell'attuale confronto pubblico e politico rispetto agli obiettivi della liberalizzazione energetica in corso. Perché da quando - alla fine degli anni '90 - si è chiusa la stagione del monopolio dell'Enel nella produzione di energia è difficile sostenere che qualcosa sia cambiato in meglio nella gestione, nella sicurezza o nell'efficienza del sistema. Anzi i prezzi sono in costante ascesa malgrado le tante promesse ascoltate in questi anni. Quello che invece ricorda molto il periodo a cavallo tra gli anni '50 e '60 sono i clamorosi guadagni da parte delle aziende a fronte di investimenti ridottissimi, perché questo chiedono il mercato e gli azionisti, guadagni a breve e redditività delle azioni. Non interventi per aumentare l'efficienza degli impianti o ridurre le bollette. Non è semplice trovare risposte, aumentare la trasparenza delle tariffe e dei bilanci aziendali, vincolare le aziende a realizzare investimenti, ma passa di qui il cuore delle politiche di innovazione. Eppure lo spazio per una riflessione meno ideologica sulle virtù del mercato oggi sarebbe possibile, visto che nessuno è disposto a difendere una borsa elettrica che doveva ridurre i costi dell'energia e invece è tornata in mano ai cartelli.
Anche all'idea che con il carbone si ridurranno finalmente le bollette dei cittadini non crede più nessuno, visto che finiranno per aumentare i guadagni delle aziende e tornare come voce di costi legati ai ritardi nella realizzazione degli obiettivi del protocollo di Kyoto. Immaginare una risposta a questi problemi è una sfida a cui non ci si può sottrarre, almeno per provare a immaginare nuovi attori e comportamenti nell'arena del capitalismo italiano. Occorrerebbe uno scatto di fantasia capace di dare risposta a problemi concreti e dimostrare come il cambiamento è un percorso praticabile. Da dove partire? Intanto si potrebbe utilizzare la leva fiscale per spingere gli investimenti in efficienza e tassare le fonti più inquinanti, anche a costo di subire infamanti accuse da quello straordinario circolo di innovatori che è la Confindustria italiana. Oppure avviare un'incisiva politica di risparmio energetico che utilizzi la rilevante quota di tasse che pesa sulle bollette per premiare il risparmio e la diffusione delle rinnovabili. Purtroppo però le lobby energetiche hanno già vinto la battaglia dentro il governo, per cui non ci sarà né alcuna indicazione per le aziende nelle offerte ai cittadini - per carità deve essere il mercato a decidere - né modi di orientare verso l'innovazione.
In un contesto di questo tipo avanziamo una proposta tanto semplice quanto destabilizzante: perché non ridare un senso all'esistenza di aziende municipalizzate o partecipate in larga parte da stato e enti locali che oggi servono solo a distribuire poltrone e dividendi agli azionisti? Quando nel lontano 1909 il sindaco di Roma Nathan propose di creare l'Azienda Elettrica Romana (l'odierna Acea), i problemi a cui doveva far fronte erano proprio quelli di un mercato che produceva solo grandi guadagni per le imprese. Solo un'azienda comunale avrebbe consentito di dare l'illuminazione pubblica a tutta la città, raggiungere con la rete tutti i cittadini (non solo quelli più vicini e facoltosi) e abbassare il costo dell'elettricità.
Oggi il contesto è diverso ma i problemi si assomigliano molto: tornare a ragionare di obiettivi sociali e ambientali, di qualità del servizio ai cittadini e di modernizzazione legati all'energia è davvero l'unica chiave possibile per guardare al futuro.
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