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Container d'Asia, auto cinesi e "Us oil" la crisi ambientale e militare che verrà

Come cambia la geopolitca tra bisogni in conflitto di petrolio e rotte commerciali
29 luglio 2007
Oscar Marchisio
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Finalmente con l'entrata in gioco, nel processo di valorizzazione capitalistica del territorio sociale che vive sotto lo spazio del brand Cina, si apre, forse, una possibile fase critica dell'attuale capitalismo centrato sulla filiera auto/petrolio.
In altri termini si potrebbe quasi ipotizzare che una spregiudicata azione politica da parte capitalistica avrebbe dovuto tenere in maggior conto sia il mantenimento del Muro di Berlino che la vittoria della rivoluzione culturale come "eventuali" rallentatori della caduta tendenziale del tasso di profitto. Invece con l'entrata in gioco della Cina e poi dell'India si accelera e si dilata il percorso della valorizzazione, della "messa in valore" dell'intero tessuto sociale di questi paesi, dispositivo che porta all'estreme conseguenze i vincoli ambientali derivanti dalla forma di questo sviluppo capitalistico.
La forma di questo sviluppo, essenzialmente ciclo del petrolio come carburante della valorizzazione, sussumendo la dimensione della Cina rischia di cozzare contro i limiti fisici del pianeta. Attualmente infatti circolano poco più di 600 milioni di veicoli nel globo con disastroso effetto serra sull'ambiente e crisi tra pochi anni dell'approvvigionamento petrolifero. Orbene si presume che la Cina entrando in campo desideri realizzare lo stesso iter arrivando ad avere più o meno il rapporto auto-abitanti dei paesi occidentali come l'Italia ad esempio, dove a fronte di 57 milioni di abitanti abbiamo 32 milioni di veicoli. Fatte le proporzioni dovremmo avere come traguardo del nuovo sviluppo capitalistico della Cina, e non si capisce perché i cinesi non dovrebbero pretenderlo, circa 700-800 milioni di veicoli solo in Cina. Cifra impossibile sia per le riserve petrolifere, sia per il consumo di materie prime per l'acciaio, sia per i disastrosi effetti sull'ambiente della Cina e del mondo da cui ne deriva la crisi potenziale del nostro modello.
Ma tale crisi in potenza ha in effetti possibilità di manifestarsi molto prima dello sviluppo lineare di tale percorso perché in effetti i dispositivi di crescita della valorizzazione capitalistica in Cina aprono da subito, da ora, un ridisegno della geopolitica. L'esportazione della fabbrica cinese, dopo che in Cina si è delocalizzata buona parte della produzione americana e in parte europea, sta modificando le rotte e i porti del mondo mentre l'approvvigionamento petrolifero sta variando la mappa della logistica energetica con la Cina secondo buyer dopo gli Usa. E il circuito virtuoso per l'economia cinese tra l'esportazione dei beni e l'importazione delle materie prime ha determinato una nuova geopolitica dei trasporti che rappresenta la nuova divisione internazionale del lavoro.
Nel 2005 i primi tre porti cinesi, Hong Kong, Shanghai e Shenzhen, totatlizzavano più di 56 milioni di teu di merci, e sommando i primi nove porti del mondo tutti asiatici (da Singapore a Kaohsiung passando per i tre cinesi più Busan del Sud Corea) si giunge a più di 100 milioni di teu in partenza dall'Asia verso il mondo. Questa enorme massa di prodotti che intasa porti e strade del mondo già ora determina collassi e criticità in numerosi " choke points " del mondo: Panama, Suez, Gibilterra, Ormuz e soprattutto Malacca sono segnati da questo ridisegno delle rotte e dei punti di rottura della catene logistiche.
Anelli critici sottoposti ad usura dal nuovo traffico proveniente dall'Asia e sensori dunque dei nuovi confini della valorizzazione capitalistica e del conseguente potere politico-militare che li presiede.
In questo snodo emerge una debolezza della Cina che non ha la " Blue Navy ", cioè la Marina Militare sufficiente e attrezzata per proteggere e garantire le rotte dei suoi prodotti e il suo approvvigionamento petrolifero. Sullo stretto di Malacca ondeggia pigramente la Viraat, la portaerei indiana, che al contrario della Cina ha una "flotta d'altomare" e presidia con la flotta americana le rotte cinesi nell'Oceano Indiano. Questo squilibrio navale è una delle possibili fonti di frizione nell'attuale quadro di sviluppo asiatico sia per conflitti regionali sia per l'emersione del conflitto centrale tra la crescita della Cina e gli interessi di mantenimento degli Usa. Squilibrio che si accentua con la spregiudicata e aggressiva politica di acquisizioni di interessi energetici e di accordi in particolare in Africa e in America Latina ma anche con la potente e vicina Russia da parte della Cina che sta provando a disegnare una mappa del mondo con i nuovi confini dettati dall'esigenze della sua crescita.
Questa contraddizione di fondo tra bisogno di crescita della Cina e bisogni energetici di mantenimento degli Usa si scontra anche con la distribuzione geopolitica del petrolio e con la sua ideologica rappresentazione "islamica" nelle sue varie forme e modalità.
La nuova domanda di energia cinese ed indiana rende più vicino dunque il "Peak of oil", cioè la crisi annunciata delle riserve petrolifere e inserisce ulteriori attori, molto dinamici ed aggressivi, nella complicata partita fra utilizzatori e produttori di petrolio. Non è un caso che la Cina abbia reali problemi di tensione nello Xinjiang, dove c'è petrolio e dove dunque si manifesta come per incanto l'estremismo islamico come forma del conflitto, confermando come l'agenzia "religione" sia tornata ad essere dopo la Guerra Fredda, una delle forma di rappresentazione dell'identità, in particolare alimentata dalla domanda e relativa crisi energetica. Abbiamo dunque uno scenario multipolare dove la crescente domanda di energia asiatica rende più acuta la crisi energetica e più complessa la matassa dei conflitti con i paesi produttori e in particolare con la divisione in " Dar al-Islam e Dar al-Harb , la dimora della pace e la dimora della guerra" (come profetizzava Huntington ne "Lo scontro delle civiltà") che ne fa "l'agenzia religiosa islamica".
In questo scenario l'acutizzazione mondiale, derivante dall'entrata in gioco della Cina e dell'India, potrebbe rischiare di essere prima che ambientale militare. Infatti nel complesso gioco che si articola attorno alla crisi del " peak of oil ", acutizzato dalla nuova domanda dei paesi emergenti si disegna una nuova interdipendenza che non "crea la pace" ma "al contrario, durante i periodi di transizione un'interdipendenza economica crescente può rappresentare una potente causa di guerra, dal momento che crea vulnerabilità" come scrive Shankar Jha,nel suo recentissimo "Il caos prossimo venturo" (uscito per Neri Pozza).
Proprio per questo l'entrata in gioco del processo di valorizzazione capitalistico in Cina apre una fase nuova del capitalismo, ovvero apre la crisi del modello attuale. Infatti non solo la filiera auto-petrolio ma tutta la gigantesca operazione di costituzione del consumo e dei "gesti" del consumatore diventa il territorio dove si manifestano in forma estrema tutti i processi di spreco e distruzione dell'ambiente tipici del mercato capitalistico.
Per questo la Cina si presenta come la piattaforma della laicizzazione del capitalismo senza l'orpello della democrazia liberale ma con la densa azione del "consumo" come religione dello sviluppo e dell'identità. Consumo come diretto "dispositivo" di governo, come macchina di controllo sociale e di modellazione del sistema urbano, facendo delle città cinesi lo spazio univoco della fabbrica e del " mall ", del centro commerciale e dell'officina.
Questa accelerazione della costruzione del mercato interno cinese come "spazio del consumo", non è solo una virata rispetto agli ultimi vent'anni di crescita costruiti sull'esportazione e sui vantaggi della bilancia commerciale in perenne avanzo ma pericolosamente dipendente dal consumatore americano, ma è anche una risposta alla critica politica e prefigura un'ipotesi di un capitalismo "senza democrazia borghese" ma cementato, nell'intuizione di Guy Debord, dal consumo e "dallo spettacolo… come fabbricazione concreta dell'alienazione". E se, sempre con Debord, "lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da diventare immagine", la Cina rappresenta la piattaforma teorico-pratica della valorizzazione capitalistica per analizzare come il modello auto-petrolio può far toccare i limiti fisici del globo e per indagare come consumo e spettacolo possano sostituire la "politica". E le Olimpiadi del 2008 saranno lo "spettacolo" del capitalismo cinese che si avvera e si celebra.

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