Un altro mondo possibile non potrà che essere solare
Un mondo diverso, se sarà, dovrà essere solare. Immaginare un pianeta liberato dalle ingiustizie e dalla violenza presuppone un cambio strutturale del sistema energetico, capace di fare a meno dei combustibili fossili.
Il nostro pianeta - diceva Georgescu Rogen - è immerso in un mare cosmico di energia. Tutto sta riuscire a utilizzarla. E' un obiettivo difficile, ma niente affatto «tecnicamente» fuori dalla portata dell'intelligenza umana. Comunque, non ci sono alternative. Né per ciò che riguarda la sostenibilità ecologica, né quella socioeconomica. Le guerre irachene, le guerriglie in Nigeria, i conflitti attorno al mar Caspio, le tensioni nei riguardi del Venezuela, l'emergere di regimi «petroautoritari» e «energofascisti» in Russia, Azerbaijan, Arabia Saudita, Iran..., per citare le regioni del mondo più ricche di petrolio, gas e uranio, stanno lì a dimostrare che man mano che si allarga lo squilibrio tra domanda (sempre in crescita) e lo stock di risorse non rinnovabili (in esaurimento) è inevitabile «la militarizzazione della lotta globale per il controllo delle risorse energetiche» (Michael T. Klare, «Blood and Oil», su Internazionale del 9 febbraio 2007). Il pericoloso «grande gioco» geostrategico in corso non si limita ai giacimenti, ma si allarga ai «diritti di transito», alle rotte delle petroliere e alle reti di pipe-line. «Gli oleodotti e i gasdotti sono lunghe corde che consentono alle grandi potenze di legare al proprio sistema geostrategico gli stati produttori» (Régis Genté su Le Monde Diplomatique, giugno 2007).
Cinque o sei major petrolifere guidano le danze nei paesi occidentali - come e più di sempre: Exxon (Stati uniti), Chevron (Stati uniti), British Petroleum (Gran bretagna), Royal Dutch Shell (Germania), Total (Francia), Repsol (Spagna), Eni. Ma queste riescono a controllare «solo» il 20% del petrolio e ancor meno del gas disponibile nel mondo. La loro forza si è potuta reggere grazie al rapporto di complicità con il tradizionale cartello dell'Opec (dominata dai paesi produttori arabi «amici»: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Quatar, Iraq occupato). Equilibri che sono entrati drammaticamente in tensione con il nascere delle nuove compagnie petrolifere di «autodifesa nazionale», a partire dalla russa Gazprom ri-nazionalizzata da Putin (prima produttrice al mondo di gas naturale e seconda di greggio), dalla compagnia nazionale statale venezuelana voluta da Chàvez, dalla China national petroleum, dalla Petrobras di Lula, dalla Samotrak algerina.
Una paurosa guerra commerciale sta riarmando le mani degli stati.
Per molto tempo ancora, per un secolo almeno, il capitalismo industriale non potrà fare a meno del petrolio, del gas naturale, del pericoloso uranio e persino dello sporchissimo carbone. I capi di stato europei (dopo il rapporto Stern), le agenzie dell'Onu (quarto rapporto Ipcc sull'effetto serra), i neogreen democratici americani e le lobby industriali più avvedute ci prospettano al meglio delle possibilità una lenta e faticosa transizione.
Un gigantesco progetto di riconversione energetico per l'introduzione di tecnologie più pulite, come una nuova (dopo quella informatica) rivoluzione industriale che però ha bisogno di investimenti enormi e di un lungo tempo a disposizione. I denari possono venire da una nuova «accumulazione originaria» che solo la centralizzazione del dominio sul mercato dei prodotti petroliferi può fornire sotto forma di plusprofitti, mentre il prolungamento dell'era neocoloniale è assicurata dal riarmo e dalla militarizzazione dei paesi consumatori di materie prime. Il «dividendo ecologico» futuro (la riduzione del consumo di combustibili fossili) è già ipotecato dagli investimenti in corso in armamenti.
Gli utili che le multinazionali dell'energia stanno accumulando sono senza precedenti. La logica perversa (irrazionale?) del mercato proietta il prezzo del petrolio verso la fantastica cifra dei 100 dollari a barile e ciò fa schizzare i valori e i rendimenti dei titoli energetici. La spiegazione è tutta nel crescente peso delle bollette energetiche e del pieno di benzina. E puzza di imbroglio l'improvvisa enfasi che governanti e aziende energetiche pongono sui cambiamenti climatici, sul risparmio e sulla sobrietà nei consumi.
Nuovi/vecchi «baroni» dell'energia si riposizionano sul mercato (sempre più dominato da pochi oligopoli) facendo profitti a palate. Il ritorno di molti governi di fede liberista a politiche di «imposizioni e controllo» sta a dimostrare il fallimento del mercato nel perseguire politiche energetiche condivise, di generale utilità.
Dall'11 al 15 novembre potremmo vedere al lavoro sotto i nostri occhi, a Roma, il World Energy Council, il congresso quadriennale delle company petrolifere. Non è esagerato dire che sono i veri domini del mondo e che le loro decisioni sono di quelle destinate a segnare la vita di tutti e di tutte. Non sappiamo se e cosa andranno a dire i rappresentanti dei governi. Sapremo invece bene cosa vorrebbero dire le società civili del pianeta. Condivido, quindi, l'appello lanciato sul sito http://www.otherearth.net/ da molte associazioni e organizzazioni per svolgere contemporaneamente un contovertice internazionale a Roma.
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