L'industria dei roghi organizzati costa all'Italia mezzo miliardo
Il fuoco ha un costo. Quello che ha bruciato per tutta l'estate il meridione d'Italia costerà allo Stato, e cioè alla comunità nazionale e ai contribuenti, più o meno 500 milioni di euro... all'anno. E poi si riparte con la ricostruzione: una vera e propria industria con la sua scia di morti sul lavoro, qualcuno che ci rimette le penne per caso, chi perde la casa, chi vede andare in fumo i risparmi di una vita, e chi... ci guadagna.
Qualcuno infatti, come in tutte le industrie, ha il suo bel tornaconto da tutto questo "fuoco grande" di roghi organizzati. Non quelli di isolati piromani o irresponsabili mitomani o noncuranti mentecatti, ma quelli oculatamente pianificati dalla malavita locale o dalla criminalità organizzata in combutta con amministratori corrotti che, se non sùbito perché le leggi lo impediscono (ma possono impedire l'abusivismo?) sul medio e lungo periodo sanno aspettare e sollecitare il cambio di destinazione urbanistica di terreni e appezzamenti martoriati dalle fiamme.
Cinquecento milioni di euro, afferma Legambiente, perché, quando il fuoco si spegne e il fumo si dirada, lì comincia il business: duemila euro a ettaro per il rimboschimento, e nel 2006 sono bruciati 16 mila ettari di bosco. Poi, su quei terreni liberati, c'è chi deve ricostruire la casa, o costruirla proprio in forza delle nuove aree provvidamente rese disponibili, o magari un albergo, un agriturismo, o uno spaccio-campeggio-parcheggio, tanto per piantare un insediamento che poi verrà rivendicato e puntualmente sanato.
Infatti, sostiene l'organizzazione ambientalista, soltanto il 6% dei comuni italiani colpiti dai roghi estivi applica pienamente la legge 353 del 2000 nota come legge-quadro antincendio, secondo la quale i comuni dovrebbero censire ogni anno in un apposito catasto i terreni incendiati. E', questo, il primo adempimento delle amministrazioni per applicare nei 15 anni successivi il divieto di modificare la destinazione d'uso (ad esempio da boschivo a edificabile, da agricolo a residenziale, eccetera) o nei 10 anni succcessivi all'incendio di costruirvi alcunché o esercitarvi la caccia o il pascolo.
Per Legambiente, in Italia sarebbero solo sei comuni su cento ad aver rispettato la legge, non solo con il censimento catastale ma anche con i divieti tassativi, mentre soltanto 24 enti locali su cento avrebbero appena provveduto a istituire il cosiddetto catasto antincendio. Ma da qui ad applicare la legge ce ne corre,soprattuto al Sud. In Sicilia nessuna amministrazione applica la legge, né ha istituito i catasti speciali, contro il 60% dei comuni della Liguria che hanno catastato i terreni bruciati come non edificabili. Non a caso ieri Legambiente ha denunciato: «In Sicilia opera l'industria del fuoco: in questa regione si registra il maggior numero di roghi e la metà (30.745 su 68 mila) degli operatori stagionali antincendio italiani».
Altre possibilità di profitto - dal verbo approfittare - sono, dice Legambiente, l'abusivismo edilizio, l'allargamento fraudolento di zone di allevamento o di coltivazione, il bracconaggio, il rimboschimento con la creazione di condizioni per l'allargamento dell'utilizzo di addetti forestali stagionali.
Per non parlare della moltiplicazione del valore dei terreni che passano da bosco bruciato a futuro insediamento abitativo, veicolato dagli appetiti di costruttori legali come di imprese illegali. «Si va dagli interessi dei singoli pastori a quelli delle mafie», ribadisce Simone Andreotti che di Legambiente è il responsabile nazionale per la protezione civile. «Del resto - insiste - già nel 2001 (annus horribilis anche quello per gli incendi boschivi) il Sisde denunciava il coinvolgimento della criminalità organizzata nella ricostruzione e nella speculaizone edilizia delle zone devastate dalle fiamme». Figuriamoci quest'anno, aggravato dai cambiamenti climatici che hanno elevato di molti gradi le temperature estive in molte aree del Mezzogiorno.
Così vanno in fumo quei 500 milioni di euro, mangiati dalle fiamme e dal costo del personale impiegato dal Corpo forestale dello Stato, dall'uso di Canadair ed elicotteri della Protezione civile, dal ricorso ai mezzi di soccorso, del pronto intervento, eccetera.
A questi c'è da sommare i danni per il turismo, non escluso il crollo di "immagine" - difficilmente sanabile, si pensi a quello che è successo a Peschici - di un Paese il cui territorio offre sempre meno appeal e sembra sempre più insicuro e in balìa di un controllo più in mano alle mafie che alle amministrazioni locali, le quali, mai come quest'anno, si sono rivelate colpevolmente o dolosamente impotenti.
Ci sarebbero poi da calcolare i cosiddetti "costi ecologici", cioè la perdita di polmoni verdi, di tutela e drenaggio dei suoli, l'allargamento nel disequilibrio sull'emissione di anidride carbonica. E questo quanto costa? Secondo Egidio Pedrini, dell'Italia dei Valori, «un ettaro bruciato libera in atmosfera 300 tonnellate di Co2. Moltiplicata per 40 mila ettari fa una quantità di Co2 pari a quella che l'Enel ha promesso di risparmiare spendendo 4 miliardi di euro».
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