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Sachs: «Capitalismo costretto ad ascoltarci»

Lo studioso e attivista tedesco è ottimista sul possibile successo delle ragioni dell'ambientalismo. «La paura di non essere capaci di rispondere alle crisi ambientali è una porta aperta per noi»
14 settembre 2007
Romina Velchi
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

«Sento toni troppo riverenti verso il capitalismo, come se gli uomini e le donne dell'attuale capitalismo fossero esseri superiori e competenti. E non è così». Wolfgang Sachs, studioso e attivista tra i più noti dell'ambentalismo l'ha raccontato al Forum di Sbilanciamoic nei giorni scorsi: «Ci vuole saggezza strategica: capire, studiare la debolezza del nemico, non sopravvalutare le sue prospettive di successo». Come dire: cambiare l'attuale modello di sviluppo economico - energivoro, inquinante e iniquo - si può, anche perché i suoi difensori cominciano ad avere le idee un po' confuse. «I cambiamenti sono così veloci che loro stessi non sanno più come fronteggiarli, non sanno come dare risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi desideri - assicura Sachs - e non lo dico solo io: il capitalismo si trova di fronte alla sua sfida più grande, proprio perché globalizzata». Perciò, «la paura di non essere capaci di rispondere alle crisi ambientali, può essere la porta attraverso la quale possiamo entrare noi».
Un esempio? La legge tedesca (approvata nel '99) che impone alle grandi reti energetiche di acquistare a un prezzo prefissato (più alto) l'energia dei piccoli produttori indipendenti. Il suo effetto principale è stato un impulso all'eolico prima, alle biomasse poi e ora al fotovoltaico: con un incentivo sicuro (la certezza di poter di rivendere l'energia prodotta), ha reso conveniente investire in queste energie rinnovabili e ora stanno nascendo tanti piccoli produttori di elettricità. «E' una delle migliori cose fatte dal governo rosso-verde», commenta Sachs.
E poi c'è il fatto che i politici, specie quelli europei, si sono spinti troppo in là con le dichiarazioni d'intenti. Per dire: l'Europa si è impegnata a tagliare il 30% delle proprie emissioni entro il 2020, rispetto ai livelli del 1990; la cancelliera tedesca Merkel è arrivata a promettere che la Germania le ridurrà del 40% se gli altri si impegnano per il 30%. Magari c'è il trucco, ma sarà dura, in termini di credibilità della classe politica, non mantenere gli impegni (problema che non riguarda noi italiani...). «L'Europa è più avanti di quanto mi aspettassi e si è messa in trappola - considera Sachs - Perderebbe la propria credibilità mondiale se non tenesse fede alle promesse. Sta a noi fare pressione, metterli alle strette».
E quale sarebbe il provvedimento da fare subito per mettersi sulla strada giusta? Sachs non ci pensa su molto. «Attualmente il commercio delle emissioni si svolge attraverso permessi gratuiti. Questo sistema fa arricchire i più grandi e i più efficienti, quindi ha luci e ombre. Ma se si decidesse di mettere all'asta questi permessi, imponendo un tetto preciso alla quantità di emissioni che si possono immettere in atmosfera, beh sarebbe tutta un'altra storia. Sarebbe un ulteriore incentivo a "risparmiare" Co2 (grazie al tetto) e permetterebbe ai governi di disporre di nuove risorse da investire. I ministri delle finanze dei governi europei dovrebbero pensarci!» (qualcuno lo dica a Padoa Schioppa).
Però passare a un sistema efficiente e sostenibile, non più basato su carbone e petrolio, non è proprio una cosetta da poco. Sachs sembra avere le idee chiare anche su questo. Intanto, dice, nella disgrazia c'è una fortuna: che tutte le crisi - dai cambiamenti climatici all'esaurimento delle risorse - si stanno verificando contemporaneamente; in questo modo, il problema non è eludibile e oggi tutti devono farci i conti: «una fortuna», appunto. Ora, certo, noi siamo nella fase che lo studioso tedesco chiama «biforcazione»: le soluzioni che vengono adottate per fronteggiare le crisi ambientali non sono univoche. C'è quella che punta sull'esclusione (prezzi alti del petrolio per tenere fuori una parte del mondo più povero); c'è quella del «dirty business» (commercio di emissioni, piante geneticamente modificate per assorbire più CO2, ritorno al nucleare) e quella del «clean business», che invece punta sul miglioramento dei processi produttivi, sull'innovazione delle tecnologie; infine c'è quella della sufficienza, che punta a ridurre la domanda, e si avvicina molto ad un concetto di efficienza. Opzioni in conflitto, con obiettivi diversi e nell'interesse di gruppi diversi.
Una mano la potrebbe dare proprio il passaggio alle energie rinnovabili. Tali energie, spiega Sachs, sono «intrinsecamente pacifiste»: le tecnologie fossili implicano lunghe catene di approvvigionamento che sono ciò che rende il mondo instabile, laddove quelle rinnovabili accorciano le distanze tra produttore e consumatore, con cicli ravvicinati e, per forza di cose, decentrati e, quindi, con conseguenze importanti sulla struttura dell'economia. Ma soprattutto, è l'auspicio dello studioso tedesco, «dobbiamo uscire dalla schiavitù energetica, introducendo il concetto di sufficienza: per esempio, decidendo di produrre autovetture "moderatamente motorizzate", cioè che non superano i 100 km all'ora. Sarebbero macchine meno pesanti (perché non hanno bisogno di sofisticati sistemi di sicurezza), quindi avrebbero bisogno di meno materie prime, inquinerebbero di meno eccetera». Ma qui torna in campo la politica. Quella che decide.

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