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L'Africa, terra di conquista

Pericolo verde

Molti governi africani puntano sulla produzione di biocarburanti. Ma l'ONU avverte: c'è il rischio di carestie alimentari e danni alle foreste
16 ottobre 2007
Marco Cochi
Fonte: Nigrizia Ottobre 2007

Negli ultimi anni la produzione di biocombustibili è in continua e costante crescita. Il ricorso a questa fonte di energia rinnovabile è stato favorito dagli alti prezzi raggiunti dal petrolio e dal problema del surriscaldamento e dell’inquinamento del pianeta. I carburanti coltivati si ottengono dalla fermentazione dei vegetali ricchi di zuccheri, come canna da zucchero, barbabietole e mais, da cui viene estratto l’etanolo, o alcol etilico, e possono essere utilizzati in sostituzione della benzina come combustibili per i motori a scoppio. Dalla lavorazione della spremitura dei semi di vegetali oleaginosi, come girasole, colza e soia, si può ottenere, invece, il cosiddetto biodiesel (vedi box).
Ciò che rende appetibili i biocarburanti è che hanno un impatto ambientale più basso rispetto ai prodotti ricavati dalla lavorazione dei combustibili fossili.
L’Africa ha di recente attirato l’interesse di molte compagnie, orientate alla produzione e al commercio su larga scala di questi carburanti. Gli investitori occidentali hanno già stanziato milioni di dollari per produrre bioetanolo e biodiesel nel continente. La zona individuata – perché più appetibile, viste le frequenti precipitazioni piovose – sembrerebbe l’area compresa tra Angola, Zambia e Mozambico.
Gli stessi governi africani stanno investendo nel campo della ricerca e dello sviluppo delle energie rinnovabili. Tra essi, spicca quello del Sudafrica che ad aprile ha approvato una bozza strategica per l’industria dei biofuel. Obiettivo della strategia è la realizzazione di un programma, valutato 828 milioni di dollari, con il quale, entro il 2013, Pretoria spera di coprire con i biocarburanti il 75% del target complessivo di energia rinnovabile del paese.
La Nigeria, l’anno scorso, ha assegnato due concessioni alla Inc. Natural Resources per realizzare un progetto, del valore di 4 miliardi di dollari, per produrre etanolo nello stato settentrionale di Jigawa; mentre il Kenya ha avuto accesso a ben la metà dei 67 milioni di euro di prestiti a favore delle aziende agricole subsahariane, messi a disposizione da una società di promozione dei nuovi mercati per stimolare i produttori locali a orientarsi verso attività diverse, come la produzione di biodiesel e bioetanolo. Grazie all’ingente somma, che dovrà comunque essere restituita, e alla sua produzione di canna da zucchero, di granturco e di piante erbacee come il sorgo, il Kenya potrebbe avere l’opportunità di diventare un grande esportatore di combustibili estratti da risorse naturali rinnovabili.

ENERGIA PULITA IN CASA

Alcuni paesi a sud del Sahara sono attivi anche in progetti focalizzati sulla produzione distribuita di energia rinnovabile da biogas. Un importante risultato è stato messo a segno, lo scorso 22 maggio, a Nairobi, dove nel salone dei congressi del Safari Park Hotel ha avuto luogo la conferenza sul tema “I biogas per una vita migliore: un’iniziativa africana”. Nel corso dei lavori è stato approntato un piano per la fornitura di energia rinnovabile a 20 milioni di abitazioni in 25 paesi africani, tra cui Benin, Etiopia, Ghana, Kenya, Mali, Nigeria, Rwanda, Senegal e Sudafrica. L’iniziativa sarà realizzata con il supporto di 12 organizzazioni internazionali e sarà coadiuvata dalla presenza di società tecnologiche olandesi, quali Snv e Hivos, già impegnate in progetti simili in Vietnam e Nepal. La prima tappa del programma è in corso di realizzazione in Rwanda, Etiopia e Uganda.
Piccole centrali di biogas hanno un costo contenuto e possono utilizzare come materia prima lo sterco degli animali. Oltre a essere facilmente distribuite sul territorio, sono poco lontane dai luoghi di consumo dell’elettricità e dai siti ancora non raggiunti dal servizio pubblico. Il programma varato nel corso dei lavori della conferenza di Nairobi consentirà la creazione di una filiera locale, quindi una maggiore occupazione non qualificata nelle aree rurali, ma, nondimeno, la diffusione delle centrali di biogas favorirà anche la produzione di carburante di origine biologica.
Un anno fa la società svedese Ericsson, leader nel campo della telefonia mobile, e la compagnia telefonica sudafricana Mtn, operante in 21 paesi tra Africa e Medio Oriente, lanciarono un ardito progetto volto a facilitare la diffusione del cellulare in Africa. Le due major proposero di sostituire i dispendiosi combustibili fossili con i biofuel ecosostenibili, derivati dalle colture locali, per alimentare le antenne radio. Il progetto si sarebbe dovuto realizzare a cominciare dal paese più popoloso dell’Africa, la Nigeria, che per il 75% non è coperta dalla rete elettrica. I piani delle due società prevedevano di estrarre combustibile dalle palme, dalle arachidi, dai semi di zucca e dalla jatropha. Le piante destinate alla produzione di biocombustibili dovevano essere coltivate vicino alle centrali elettriche, con la speranza di ridurre la dipendenza dalle fonti fossili anche per quanto concerne le esigenze di trasporto. Dopo la Nigeria, l’iniziativa avrebbe dovuto essere attuata anche in Uganda, Rwanda e Kenya. Ad oggi, però, non si è avuta più alcuna notizia sugli sviluppi del progetto Ericsson-Mtn.

I DUBBI

Nel continente africano c’è già chi comincia a prendere le dovute cautele per commisurarsi con l’arrivo degli investitori stranieri nel settore dei biocarburanti. È il caso degli agricoltori della Tanzania, i quali hanno organizzato un corso destinato ai produttori locali su come investire in carburante verde. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal rappresentante della Rete contadina per lo sviluppo e l’innovazione agricola (Mviwata), l’iniziativa è nata in risposta all’operato del governo, che avrebbe adottato una strategia che penalizza le fattorie. Non è un caso che sia stata proprio la Mviwata a organizzare il corso a Morogoro, nel centro-est del paese. La produzione di biocarburanti – in questo caso, di etanolo ottenuto a partire dal mais, dalla canna da zucchero o dal sorgo – richiede risorse e terreni estesi: condizioni che i contadini della Tanzania, abituati a lavorare su piccola scala, non sono in grado di sostenere. Anche se il ministro dell’agricoltura e della sicurezza alimentare, Matayo David, assicura che le terre non saranno portate via ai contadini locali, non possiamo non condividere la diffidenza degli agricoltori tanzaniani, consci del fatto che questo tipo di coltura rischia di impoverire il terreno e loro stessi.

AFFAMATI DAL BIOFUEL

C’è anche chi pensa che l’utilizzo di bioenergie possa costituire una minaccia per i popoli autoctoni e tribali dell’Africa. L’allarme è stato lanciato nel maggio scorso a New York in occasione dell’apertura della sesta sessione dell’Istanza permanente sulle questioni autoctone, dedicata quest’anno al problema dei territori e delle risorse naturali. I 16 esperti della Commissione del forum permanente Onu sulle tematiche indigene (creato nel 1982) non hanno nascosto la loro inquietudine per l’espansione delle piantagioni destinate alla produzione di combustibili “puliti”, che spesso si realizza con l’espulsione delle popolazioni autoctone dalle loro terre. Victoria Tauli-Corpuz, presidente dell’Istanza, si è detta molto preoccupata dal fatto che è nuovamente nelle terre autoctone che si cercano le soluzioni e che potrebbero essere cinque milioni gli indigeni sloggiati dai biofuel.
Ma non sono solo gli esperti del forum delle Nazioni Unite a puntare il dito contro gli agrocombustibili. Di recente, Fidel Castro ha posto l’accento sul rischio di carestie alimentari dovute alla diffusione di carburanti coltivati. L’anziano leader cubano ha indicato in oltre tre miliardi le persone che potrebbero esserne colpite. La catastrofica previsione trova parziale conferma in recenti studi, che indicano come, per ogni aumento di punto percentuale del prezzo del mais, il numero degli “affamati” crescerà di circa 16 milioni di persone, per arrivare a 1,2 miliardi entro il 2025. All’inizio dell’anno in Messico c’è stata una vera e propria sommossa popolare a causa dell’etanolo, che ha fatto schizzare il prezzo delle tortillas da 7 a 18 pesos al chilo, mentre in Sudafrica il mais bianco, il più usato, costa il 40 % in più dell’anno passato, con pesanti ripercussioni sui consumatori più poveri.

I dubbi, però, non finiscono qui. Il taglio indiscriminato delle foreste, per far spazio alle coltivazioni estensive, può portare a un bilancio negativo sul fronte delle emissioni nocive, come è già accaduto in Indonesia. Inoltre, il maggior utilizzo di fertilizzanti e pesticidi, con maggiori consumi idrici e il rischio di semi Ogm, consiglia di interrogarsi sulla convenienza di questi nuovi combustibili verdi. Senza dimenticare che, nei mesi scorsi, buona parte del mondo scientifico ha più volte denunciato l’incoerenza ecologica dell’utilizzo dell’etanolo come combustibile per automobili. In primo luogo, le monoculture estensive hanno un effetto devastante dal punto di vista climatico: le precipitazioni, infatti, si riducono e si concentrano nel tempo, dando luogo a tempeste di pioggia, ristrette a brevi periodi dell’anno. C’è da mettere in preventivo, poi, che le monoculture possono provocare l’erosione della biodiversità animale e vegetale, se portate in regioni in cui questa è praticata.
Nel giugno scorso, il sociologo svizzero Jean Ziegler, relatore speciale delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ha puntato il dito contro i paesi occidentali che promuovono i cosiddetti biocarburanti provenienti da terreni agricoli in passato destinati alla produzione alimentare. La critica di Ziegler dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che la bioenergia può compromettere la sicurezza alimentare e danneggiare l’ambiente. Per questo è indispensabile che, nell’immediato futuro, la produzione di biocombustibili venga seriamente regolata e monitorata.

Note: Biodiesel ed etanolo

Spesso c’è confusione terminologica quando si parla di biocarburanti. Che cosa sono? Sono i carburanti derivati da organismi viventi o dai loro scarti. Due le grandi categorie in cui si concentra la ricerca: il biodiesel e l’etanolo.
Il primo si ottiene da oli vegetali come la soia, la colza, la palma, il cocco, le arachidi e i girasoli. Può essere usato sia come sostituto del gasolio, sia miscelato, in modo da ottenere un combustibile che non necessiti di modifiche agli impianti e ai motori esistenti. È completamente biodegradabile.
Il secondo, invece, è un alcol ottenuto dalla fermentazione di prodotti agricoli che contengono molti carboidrati e zuccheri. Vale a dire: cereali (mais, sorgo, frumento, orzo), colture zuccherine (canna da zucchero e barbabietola), frutta, vinacce e patate. Fino al 30% può essere miscelato alla benzina tradizionale senza doverne modificare il motore. Il contenuto energetico dell’etanolo sarebbe pari al 67% di quello della benzina e la produzione mondiale si concentra in Brasile. Il biodiesel, invece, ha un contenuto energetico pari al 90% del gasolio tradizionale e l’Europa è la principale produttrice mondiale. (Red.)

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