Bioetanolo, business molto incerto
I biocombustibili sono un crimine contro l’umanità». Questa inequivocabile dichiarazione è stata pronunciata qualche settimana fa da Jean Ziegler, responsabile Onu per il diritto all’alimentazione. Sui biocombustibili si gioca infatti l’ennesima partita tra Nord e Sud. Tra chi vuole più energia per mantenere uno stile di vita insostenibile e chi non riesce a soddisfare le proprie necessità alimentari. Il biocombustibile più comune, il bioetanolo, è ricavato per fermentazione dai semi di mais, dalla barbabietola e dalla canna da zucchero. Ngli Usa è un affare da 40 miliardi di dollari e 80 mila posti di lavoro.
I dividendi, dopo tutto, sono alti, il grande capitale si è gettato nella competizione e un anno fa l’Associazione dei Produttori di Biocombustibile è entrata a far parte del Nasdaq. Negli ultimi cinque anni il mais utilizzato per la produzione di bioetanolo è triplicato e la domanda di etanolo più che quadruplicata. Risultato: Usa primi produttori al mondo, seguiti da Brasile e Cina.
Nonostante questo successo commerciale, molti ricercatori e amministratori locali dubitano che i biocombustibili siano un’opzione praticabile sul lungo periodo e su larga scala. A causa della minore qualità rispetto alla benzina, tutto l`etanolo prodotto negli Usa soddisfa poco più del 2% del fabbisogno energetico interno. E il risultato peggiora se si calcola che per produrne un litro bisogna utilizzare quasi il 60% di combustibili fossili necessari a produrre un equivalente di benzina. Per soddisfare il fabbisogno energetico Usa con il bioetanolo, non sarebbe sufficiente tutta la superficie arabile disponibile.
Per questi motivi già nel suo primo rapporto sui biocombustibili, pubblicato nel maggio 2007, l’Onu insieme ai vantaggi - minori emissioni di gas serra e nuove opportunità lavorative per la popolazione rurale - ne denunciò anche l’impatto ambientale e l’effetto negativo esercitato sul mercato delle derrate alimentari.
Meglio andarci piano, dunque, come conferma una conferenza sui biocombustibili che si è svolta a pochi giorni fa a Minneapolis (Minnesota), il cuore della «cintura del mais» dove si produce quasi tutto il bioetanolo statunitense. Dall’incontro sono emerse speranze ma anche cautele.
I produttori di etanolo stanno sviluppando nuove tecnologie per produrre biocombustibili da residui agricoli e dalle piante erbacee, anziché da prodotti commestibili. Tuttavia, per la produzione dal legno bisognerà aspettare almeno dieci anni. Molto entusiasmo suscita la ricerca sulle alghe, capaci di immagazzinare energia solare con grande efficienza, ma mancano i dati sulla fattibilità del processo.
Le piante erbacee, invece, consentiranno di ridurre l’uso di risorse non rinnovabili nel ciclo di produzione, e i derivati dal legno avranno un impatto ambientale ancora minore. Tuttavia, si teme che saranno disponibili solo in tempi lunghi e a costi elevati.
La produzione dei biocombustibili sta poi cambiando il ruolo degli agricoltori, ora produttori potenziali di energia. La società rurale, come denuncia Bill Lee, direttore di una cooperativa di piccoli produttori di etanolo, è nel mirino delle grandi compagnie energetiche, interessate ad ottimizzare e a centralizzare gli impianti per la produzione di biocombustibile. Questo tipo di carburante è però una soluzione sostenibile solo su scala locale e in collaborazione con i cittadini.
Mark Stowers, direttore di una industria medio grande per la produzione di etanolo, rivela inoltre che gli impianti sono finanziati fino al 40% dal governo federale, e gli aiuti alla produzione, sia come sussidi agli agricoltori, sia come tasse sull`importazione, sono rilevanti. Viene dunque il sospetto che i biocombustibili non siano così efficienti, e che si stia finanziando un sistema inadeguato.
La palma del progetto più inquietante va però al responsabile dei parchi e delle aree protette del Minnesota, Mark Lindquist. In mancanza di zone arabili sufficienti per soddisfare il fabbisogno energetico, propone di sfruttare le aree protette per coltivare biomassa e sfruttare le foreste. Il concetto non è nuovo - la zonazione dei parchi esiste in Italia da molti anni - ma per la prima volta si propone di usare a fini energetici le poche foreste rimaste nei paesi industrializzati.
Se idee simili si fanno spazio anche nel paese primo consumatore di energia al mondo, è davvero il segno che abbiamo raggiunto i limiti di sfruttamento del nostro pianeta.
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