Rigassificatori: disastri annunciati
Non è l’Apocalisse ma lo studio preparato per il Pentagono nel 1982 dal fisico statunitense Amory B. Lovins che oggi fa parte del Comitato scientifico del Ministero della Difesa americano per la strategia energetica militare. In “Brittle Power”, il capitolo 8 è dedicato al GNL (Gas Naturale Liquefatto) ed allo scenario apocalittico in caso di fuoriuscita da una nave gasiera. Ma anche, aggiungiamo noi, da un rigassificatore. Perché, spiega Lovins, una perdita di GNL non resta inerte come il petrolio. Il GNL è un gas naturale raffreddato a – 160 gradi centigradi per essere trasportato, liquefatto, su navi gasiere criogeniche ed essere scaricato nei rigassificatori dove viene riportato allo stato gassoso.
Il GNL ha un volume 620 volte inferiore di quello in forma gassosa, è meno denso dell’acqua ma è più denso dell’aria. Se il petrolio brucia, non si espande. Se, invece, il GNL viene a contatto con una fonte che cede calore (caldaia, incendio e, soprattutto, la superficie marina) in pochissimi minuti ribolle per riprendere il suo stato gassoso ed essendo più denso dell’aria si trasforma in nube. Che in pochi minuti si estende per chilometri. Un metro cubo di GNL si trasforma in 620 metri cubi di gas naturale che si miscela all’aria. Una miscela tra il 5 ed il 15 per cento di gas con l’aria è infiammabile.
Se la miscela gassosa incontrasse una qualsiasi scintilla, l’enorme nube si incendierebbe creando una serie di incendi ed esplosioni. Se esplode su una città il disastro è sicuro. Se esplode su raffinerie o impianti ad alto rischio si innesca l’effetto domino. E’ strage. Una strage che finirà solo quando tutto il gas sarà esaurito. Sono leggi della fisica. Considerando che una nave gasiera standard trasporta 125.000 metri cubi di gas liquefatto non meravigliano frasi come “L’energia contenuta in una nave gasiera di GNL standard equivale a circa 55 bombe di Hiroshima” (“Brittle Power”) o “L’esplosione di una gasiera di GNL è simile ad una esplosione nucleare” (“Science and Environmental Policy Project”, 2001).
In barba a tutto questo, il governo Berlusconi ha autorizzato il primo rigassificatore al mondo offshore, su nave galleggiante, davanti a Livorno e Pisa (a pochi chilometri dalla base americana di Camp Darby con i suoi depositi di esplosivi) ed ha abolito, con un colpo di spugna, il divieto di allibo (il travaso di metano da nave a nave), che dal 2006 non è più pericoloso.
Miracoli della politica. Che piacciono anche al governo Prodi che, come Berlusconi, vuole trasformare l’Italia nell’hub del Mediterraneo. Ed ha strafatto: 14 nuovi impianti e l’ampliamento dell’unico esistente, a Panigaglia-La Spezia. Con 15 impianti l’Italia sarebbe la seconda, al mondo, dopo il Giappone (ne ha 25), e, ovviamente, la prima nel Mediterraneo dove ci sono “solo” 8 rigassificatori (Spagna 3, Francia 1, Italia 1, Grecia 1, Turchia 2). Non solo.
Con l’art. 46 del decreto collegato alla finanziaria, da oggi, i rigassificatori in Italia non saranno più gli impianti a rischio di incidente rilevante delle direttive comunitarie “Seveso” perché potranno essere costruiti “anche al di fuori di siti industriali”. Una bella pensata del trio Bersani-Di Pietro- Pecoraro Scanio. Da oggi, quindi, tutte le coste italiane saranno a “rischio richiesta” da parte dei colossi del gas (Eni, Endesa, Gas Natural, British Petroleum, Qatar Petroleum).
Intanto, in tutto il mondo “civile”, i rigassificatori sono ancora considerati impianti a rischio di incidente rilevante perché trattano una sostanza altamente pericolosa, il gas, al 2° posto nella classificazione IMO (International Maritime Organization) dopo gli “esplosivi” e, sempre al 2° posto, dopo le raffinerie di petrolio e di gas, nella Convenzione di Aarhus, quella che garantisce la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche ambientali, ma che in Italia non è applicata.
Di incidenti, da quando è nata questa tecnologia, negli anni ’40, ce ne sono stati. Molti: per valvole o guarnizioni difettose, errori umani, fulmini, tempeste in mare, collisioni, cedimenti strutturali dei serbatoi, incendi in sala macchine. Troppi, considerando che nel mondo ci sono solo 51 rigassificatori e 257 navi gasiere GNL contro 7.354 petroliere. Più rigassificatori, più gasiere circolanti (ma ce ne sono a sufficienza?), più pericolo di incidenti.
Il più grave, dopo quello di Cleveland-Ohio (deposito GNL) con 131 morti e 225 feriti nel 1944, avvenne nel 2004 a Skikda, Algeria (27 morti e 74 feriti), in un moderno impianto di liquefazione dove una fuga di GNL, a contatto con la caldaia, provocò una serie di esplosioni a catena. La catastrofe fu evitata solo perché il vento cambiò direzione.
Secondo il Rapporto Sandia del 2005, in caso di peggiore incidente, con venti di 2 metri al secondo, la nube arriverebbe a 7 miglia di distanza. Dove arriverebbe la nube potenzialmente esplosiva a Livorno, dove soffia un Libeccio che supera i 100 chilometri l’ora (27 metri al secondo) o a Trieste, dove sono previsti due rigassificatori, dove la bora arriva anche a 120 km/h? Che succederebbe considerando che tutti i rigassificatori sono stati progettati in aree portuali dove insistono già numerosi impianti a rischio di incidente rilevante, tra cui le raffinerie con le fiammelle sempre accese sulle torrette, e ben 5 impianti (La Spezia, Livorno, Taranto, Brindisi e Trieste) in altrettanti porti a rischio nucleare?
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