«Nel nostro inceneritore no»
L’impianto per la termovalorizzazione dei rifiuti «Fenice» di Melfi - entrato in funzione nel 2000 - «assorbe una quantità di immondizia che non è possibile aumentare neanche di un chilogrammo»: l’ha detto il Presidente della Provincia di Potenza, Sabino Altobello, respingendo l’eventuale coinvolgimento della Basilicata nell’emergenza rifiuti in Campania. «Fenice» è autorizzato a trattare, ogni anno, 65mila tonnellate di rifiuti industriali e urbani, cogenerando circa 38 mila megawatt/ora di energia elettrica».
La costruzione dell’impianto è terminata nel 1999 e i primi rifiuti sono stati smaltiti nel 2000. Attualmente lavorano nella struttura 54 persone, tra operai e impiegati. Il termovalorizzatore, con un funzionamento annuo di circa 6.900 ore, è gestito da «Fenice», società per azioni del gruppo Edf (Electricitè de France), che nel 2006, in Italia, ha trattato 147 mila tonnellate di rifiuti.
Nell’impianto lucano sono attivi due forni: uno «rotante», per il trattamento dei rifiuti industriali del gruppo Fiat provenienti da tutta Italia, e uno «a griglia», per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani dell’area del Vulture-Melfese.
La Regione Basilicata, con una legge del 1995 poi modificata nel 2001, stabilì il divieto di stoccaggio e smaltimento - anche provvisorio - di rifiuti, diversi da quelli urbani non pericolosi, provenienti da altre regioni o nazioni. La Corte Costituzionale, con una sentenza del 2005 dichiarò poi l’illegittimità del divieto, permettendo all’impianto di ricevere e trattare materiale prodotto anche fuori dal territorio lucano.
Il «progetto Fenice», che prevedeva la costruzione del termovalorizzatore nell’area industriale di Melfi, poco distante dallo stabilimento della Fiat, generò negli anni Novanta una serie di proteste da parte degli ambientalisti che si opponevano prima alla realizzazione dell’impianto e poi allo smaltimento di rifiuti pericolosi non lucani.
Nelle province campane la situazione sanitaria è peggiorata a causa dello smaltimento fuorilegge. L’esperto conferma: «Dagli incendi gravi danni alla salute» Più mortalità vicino alle discariche illegali. Diossina dai roghi spazzatura
La presenza di discariche illegali ha già portato al peggioramento della situazione sanitaria nelle province di Napoli e Caserta, che in alcuni casi arriva ad un aumento della mortalità del 9% per gli uomini e del 12% per le donne nelle zone più a rischio. Lo ha rilevato una indagine epidemiologica coordinata dall'Istituto Superiore di Sanità presentata lo scorso aprile. «Questo studio è stato pensato per misurare l'impatto sanitario di 20 anni di smaltimenti illegali di rifiuti anche pericolosi - spiega Pietro Comba, epidemiologo ambientale dell'Istituto Superiore di Sanità - non c'è però ancora nessuna correlazione dimostrata scientificamente tra il problema di questi giorni, cioè la mancata raccolta dei rifiuti e un aumento delle patologie».
Lo studio ha diviso i comuni del territorio delle due province in cinque fasce di rischio. In quella più alta, che comprende otto comuni (Acerra, Aversa, Bacoli, Caivano, Castel Volturno, Giugliano, Marcianise e Villa Literno) si sono avuti gli aumenti maggiori. «C'è una larga sovrapposizione - si legge nel rapporto finale - tra l'area a maggior rischio per morti neoplastiche e quella maggiormente interessata dallo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi».
Nei comuni con maggior pressione ambientale la mortalità è maggiore del 9% per gli uomini e del 12% nelle donne rispetto a quelli con la pressione più bassa.La mortalità cresce del 2% dal gruppo a più basso rischio a quello più alto. Un rischio maggiore di mortalità in questi comuni si è registrato anche per tutti i tumori (1% in entrambi i sessi), e per tumore polmonare (2%) e gastrico (5%) negli uomini. C'è un aumento anche per i tumori del fegato (4% uomini e 7% donne). Al crescere della pressione ambientale cresce il rischio di malformazioni del sistema nervoso centrale, che nel peggiore dei casi è dell'84% in più. Per le malformazioni dell'apparato urogenitale invece l'aumento è dell'83% nei comuni più a rischio rispetto a quelli di riferimento.
Dai rifiuti bruciati nelle strade, inoltre, si sprigiona la stessa diossina che si assumerebbe in anni 'normalì. Lo spiega Ivo Allegrini, direttore dell'istituto sull'Inquinamento Atmosferico del Cnr, secondo cui la quantità di questa sostanza che si sviluppa dai roghi è notevolmente più alta di quella che si ottiene dagli inceneritori.
«È impossibile fare una stima di quanta sia la diossina che si sviluppa dai roghi - spiega Allegrini - perchè i rifiuti domestici hanno una composizione estremamente variabile. Certo è che finchè il rogo è in funzione chi sta nelle vicinanze ne assume una quantità che impiegherebbe anni ad avere normalmente. Noi ci preoccupiamo di pochi miliardesimi di grammo prodotti dagli inceneritori ma in questo caso si tratta di quantità molto più alte».
Della classe delle diossine fanno parte circa 210 composti diversi, ognuno con una sua pericolosità. Secondo l'esperto il maggiore pericolo si ha mentre gli incendi sono attivi, mentre dopo lo spegnimento le sostanze prodotte cominciano a viaggiare nell'aria:«La diossina si lega al particolato - spiega Allegrini - e può rimanere in atmosfera per diverse settimane, facendo spostamenti anche di parecchi chilometri».
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