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Camorra di stato e Stato di Emergenza: il caso dei rifiuti in Campania

Pubblichiamo un articolo di Michelangiolo Bolognini che ripercorre le vicende campane evidenziando quali siano state le scelte capestro, politiche ed affaristiche, che hanno condotto ai disatri attuali. La vera emergenza rifiuti in Campania – si scrive – è dovuta alla presenza di un sistema camorristico di Stato, che si avvale, per funzionare “ordinariamente”, di uno stato di emergenza permanente.
10 gennaio 2008
Michelangiolo Bolognini (Medicina democratica)

Emergenza in Campania Il 9 marzo 2005 la Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti procedeva all’audizione dei piú importanti gruppi bancari italiani, Capitalia, Banca Intesa, San Paolo Imi e Gruppo Unicredito Italiano[1], preoccupati per i loro finanziamenti alle società Fibe e Fibe Campania del gruppo Impregilo, allora controllato da Cesare Romiti, facente parte del “salotto buono” della finanza, editore del maggior quotidiano italiano. Le banche avevano voglia di smarcarsi: si erano esposte per decine e decine di milioni di euro finanziando con la massima leggerezza Fibe e Impresilo. La relazione della Commissione afferma infatti: «non è chiaro come gli istituti bancari possano aver pensato, nel momento in cui fornivano i finanziamenti, di essere in condizioni di “normalità”, come espressamente affermato, posto che l’emergenza campana era pluriennale e nota a tutti; considerato, peraltro, che vi era piena consapevolezza del fatto che tale sistema, come proposto da Fibe, era “certamente pionieristico”, “il primo in Italia di queste dimensioni”»[2].

Il sistema a cui si riferisce la Commissione è la messa in atto, in modo generalizzato e “dogmatico” nella regione Campania, commissariata da oltre tredici anni, del cosiddetto «ciclo integrato dei rifiuti», assai propagandato dall’associazione ambientalista “parastatale” Legambiente e fatto proprio dalla quasi totalità delle forze politiche italiane.
Dietro un elenco delle azioni da intraprendere per gestire i rifiuti apparentemente corretto – partendo dalla riduzione, il riciclaggio e il recupero di materia, da effettuarsi con raccolta differenziata –, il sistema punta, però, tutto su quello che dovrebbe essere l’ultima e residuale azione, quella del cosiddetto recupero energetico, mediante la «termovalorizzazione», ossia l’incenerimento dei rifiuti.

Questo aspetto è stato gravemente inquinato da uno scandaloso sistema di incentivazione pubblica, previsto nel 1992 dall’allora Commissione interministeriale dei prezzi e conosciuto come CIP 6, che, tassando con oltre il 7% le bollette elettriche, ha finanziato e finanzia, con la scusa delle energie rinnovabili, soprattutto gli impianti di incenerimento. A titolo di esempio, gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2006, riguardo alle fonti «rinnovabili», assegnano agli inceneritori di rifiuti e biomasse 1.135 milioni di euro, quasi i due terzi degli oltre 1.758 milioni di euro erogati, a fronte di 40.370 euro assegnati al solare fotovoltaico, pari allo 0,00002% di quanto erogato – con buona pace della la retorica “ambientalista” e “solare”di molte delle forze politiche italiane.

È bene ricordare che il sistema dei contributi CIP 6 rappresenta, in risorse reali, la quasi totalità del sistema di finanziamento alle fonti energetiche «rinnovabili», ed è in questo modo che si è fatta, e si fa, concretamente, la politica energetica e ambientale in Italia – il che viene costantemente ignorato da politici e mezzi di comunicazione di massa. Ma il meccanismo di finanziamento dei CIP 6 era ben chiaro alle banche che finanziavano l’operazione «rifiuti in Campania». Sempre riprendendo il testo della Commissione, vediamo come «i profili vantaggiosi e positivi, dal punto di vista dei finanziatori, dell’iniziativa di finanziamento del progetto del sistema integrato del ciclo dei rifiuti proposto dalla Fibe in Campania erano stati riposti – a quanto emerso – nella produzione del Cdr, con i connessi benefici del CIP6»: «bruciare energia e venderla era parte fondamentale del business di FIBE» e per le banche «rappresentava il 60 per cento dei ricavi del progetto»[3].

Il Cdr era stato peraltro la trovata retorica per far digerire meglio la «termovalorizzazione» dei rifiuti: invece che bruciare il “tal quale” era meglio inventarsi un “combustibile” derivato dai rifiuti – questo è il significato dell’acronimo Cdr –,alla cui promozione si erano applicati una parti rilevanti del mondo “ambientalista” italiano, la solita Legambiente in testa.

Peccato che il Cdr prodotto dalla società Fibe – del gruppo Impregilo, finanziato dalle piú importanti banche italiane – negli stabilimenti realizzati in Campania, non rispondesse al minimo delle specifiche tecniche previste dalla normativa, per quanto riguardava sia l’insufficiente potere calorico, sia la presenza di sostanze tossiche, e ciò nonostante che in un primo tempo «i rilievi effettuati dalla Asl, dall’Arpa e dall’aggiudicataria, conducevano a una valutazione di conformità del Cdr nei limiti della normativa»; successivamente però, soprattutto a seguito dell’inchiesta giudiziaria, veniva rilevato che «il Cdr prodotto non risponde ai requisiti richiesti: tra le molte “anomalie”, nelle ecoballe sono state rinvenute percentuali di arsenico superiori ai limiti imposti, oltre che a oggetti interi (per esempio, una ruota completa di cerchione e pneumatico), fatto questo che acclara l’omissione della fase della lavorazione; inoltre la frazione umida ha presentato valori superiori ai limiti previsti nella tabella»; peraltro «anche il sovvallo e la Fos sono risultati irregolari, a ulteriore conferma che la gestione del ciclo integrato non è riuscita a rispettare il contratto sin dal momento del conferimento del rifiuto da parte dei Comuni. Situazione che non può certo essere spiegata unicamente in riferimento all’emergenza nell’emergenza (connessa ai sequestri delle discariche soprarichiamati) o come risultato di una cattiva metodologia di raccolta differenziata, ma che finisce per apparire vulnus strutturale del progetto, sia in relazione all’adeguatezza tecnica degli impianti, che riguardo al know how di settore che si sarebbe dovuto richiedere e pretendere dalla società affidataria»[4].

Le banche comunque riescono a smarcarsi, rinunciano a subentrare a Impregilo di Cesare Romiti e società collegate, in quanto una volta «ricevuta l’informativa dell’inadempimento di Fibe dal Commissario Catenacci, non hanno esercitato la facoltà di sostituirsi a Fibe», però «hanno in pratica finito per divenire gli interlocutori del Commissario in riferimento alle successive scelte che il Commissario ha poi dovuto assumere»[5].

Le banche, sempre nel 2005, fanno approvare da un governo compiacente un decreto di risoluzione del contratto che mantiene le società di Impregilo solo come esecutrici, mentre lo Stato, tramite il Commissariato per l’emergenza, si assume, da allora in poi, tutti i rischi imprenditoriali, con buona pace, questa volta, della retorica “liberale e liberista” imperante nella cultura politica ed economica italiana – esempio concreto e usuale di capitalismo assistito. Viene cosí azzerata la gara di appalto che aveva assegnato, a suo tempo, a Impregilo e società collegate la gestione di tutto il ciclo dei rifiuti in Campania.

Una strana gara di appalto, quella che le società del gruppo Impregilo di Cesare Romiti avevano vinto, nel lontano 1999, «promettendo servizi nettamente sottocosto» – secondo quanto giudicato da un esperto, come Walter Canapini, in un’intervista a un quotidiano[6]. Del resto i criteri di valutazione di quella gara d’appalto puntavano su bassi costi e rapidità nei tempi di realizzazione e messa in esercizio (300 giorni!), mentre alla qualità degli impianti era riservato un misero 10%, tanto che Impregilo e collegate avevano avuto per il «valore tecnico delle opere» il punteggio di gran lunga piú basso, rispetto agli altri partecipanti alla gara.

Del resto, proprio la gara di appalto svela il trucco della retorica dell’ambientalismo egemone “legambientino” del «ciclo integrato dei rifiuti»: da allora e per tutto il seguito della vicenda, si punterà tutto sulle soluzioni impiantistiche finalizzate all’incenerimento. Filippo Granara, Rappresentante di Banca Opi gruppo San Paolo Imi, che aveva posto in essere il project financing alla Fibe per circa 400 milioni di euro, riferendosi alla gara di appalto e all’inceneritore di Acerra, dichiarava alla Commissione che «era previsto nella gara espressamente il beneficio CIP6 per quell’impianto»[7], valutato, al 2005, solo per le «ecoballe» già stoccate, in «300 milioni di euro»[8]. E sarà però proprio questa delirante ortodossia inceneritorista che causerà la crisi.

L’ortodossia “ambientalista”, riproposta in modo martellante anche dai mass media e da frotte di politici ignoranti, vede la «termovalorizzazione» mediante incenerimento non solo come soluzione del problema rifiuti, ma anche come alternativa alle discariche – dato, quest’ ultimo, assolutamente fantasioso, in quanto se anche la «termovalorizzazione» fosse integrale per tutti i rifiuti, non li eliminerebbe fisicamente, ma si limiterebbe a ridurli a circa il 30% della massa iniziale, oltre a produrrne, a sua volta e in quota non irrilevante, un ulteriore 3-5% e di una tipologia estremamente pericolosa, e tutti questi rifiuti hanno a loro volta bisogno di discariche.
A dispetto delle retoriche inceneritoriste, la chiusura delle discariche allora esistenti e la mancata previsione di nuove discariche nel «ciclo integrato dei rifiuti» campano innescherà, nel proseguo, inevitabilmente la crisi e lo stato di emergenza.

Gli impianti realizzati dalle imprese del gruppo Impregilo di Cesare Romiti risulteranno essere di infima qualità – come dimostra la vicenda del Cdr diventato semplicemente «ecoballe» negli impianti realizzati e, ancora di piú, il progetto del primo impianto di «termovalorizzazione», quello di Acerra, per il quale non viene previsto, originariamente, nemmeno un soddisfacente sistema di abbattimento degli inquinanti, tanto che il gruppo di lavoro del ministero dell’Ambiente, che successivamente revisionerà il progetto, imporrà «adeguamenti» tecnici per un costo di 25 milioni di euro[9].

La qualità degli impianti veniva invece vantata dall’amministratore delegato di Impregilo, Alberto Lina, che dichiarava alla Commissione di avvalersi di know how tedesco proveniente da Deutsche Babcock Anlangen Gmbh, impresa collegata a Impregilo nell’affare “gestione rifiuti” in Campania, e che avrebbe avuto ben «570 referenze al mondo nel campo degli inceneritori»[10]. Queste affermazioni erano state evidentemente prese per buone dal ministro dell’Ambiente, retto allora dall’ambientalista di lungo corso Edo Ronchi, che il 31 dicembre 1999 esprimeva il parere finale favorevole di «compatibilità ambientale» in quanto «sulla base delle informazioni disponibili non si sono rilevati significativi elementi di incompatibilità ambientale e territoriale connessi con la costruzione e realizzazione dell’impianto»[11].

Il parere di «compatibilità ambientale» dovrebbe arrivare solo dopo una formale e corretta procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), che in questo caso non c’è stata, se si deve tener conto anche di quanto affermato dall’ing. Bruno Agricola, alto dirigente del ministero dell’Ambiente, a capo di un gruppo di lavoro ministeriale che, avendo avuto il compito di “aggiornare” il parere ministeriale, cosí dichiarava alla Commissione: «stiamo intervenendo in un processo in cui vi è una necessità di carattere generale che ha portato ad alcune decisioni, che per noi sono un punto di partenza. È ovvio che, se si fosse seguita una procedura non di emergenza, i risultati, a mio avviso, sarebbero stati sicuramente differenti, però non si può immaginare di cambiare le condizioni a monte, perché queste per noi sono un vincolo». Dichiarazioni che, da buon burocrate navigato tendente a smarcarsi da responsabilità ritenute esclusivamente politiche, ribadisce quando, di seguito, afferma: «quello che noi non possiamo fare è dire dove avremmo voluto o potuto mettere l’impianto. Noi dobbiamo dire se è compatibile o meno; abbiamo indicato le condizioni alle quali si ritiene compatibile: questa è l’opinione della commissione, poi vi è l’opinione del ministro. Sulla base di ciò si potrà dire se è compatibile o meno – il parere, alla fine, è del ministro»[12]. Comunque, per tutelare l’ambiente, e anche se stesso, il gruppo di lavoro ministeriale imponeva all’inceneritore di Acerra oltre gli «adeguamenti» tecnici anche l’esclusivo utilizzo di Cdr di qualità adeguata.

Del resto il Capitolato speciale di appalto prevedeva che i concorrenti si impegnassero «con mezzi finanziari propri» a «realizzare tre impianti produzione Cdr e un impianto dedicato alla produzione di energia mediante termovalorizzazione Cdr da porre in esercizio entro il 31 dicembre 2000, assicurando nelle more della messa in esercizio di detto impianto il recupero energetico del combustibile prodotto», oltre a «possedere e/o disporre immediatamente di sito per la realizzazione di impianto di termovalorizzazione»[13].

Si noti come la gara d’appalto – oltre a prevedere tempi “certi” di realizzazione, slittati però, per alcuni aspetti, di oltre 7 anni – conferissea la piena potestà all’impresa aggiudicataria, in barba a qualsiasi minimo criterio di pianificazione territoriale, di scegliere i siti per realizzare gli impianti.

Questo aspetto della vicenda darà luogo a strane vicende legate alla crescita estemporanea dei valori commerciali delle aree da destinarsi agli impianti, con compravendite effettuate da soggetti terzi, poco prima dell’acquisto definitivo da parte dalle imprese del gruppo Impregilo di Cesare Romiti[14].

A fronte delle incredibili carenze da parte delle strutture industriali “nordiste”, come delle amministrazioni locali e dei governi romani dai colori piú variegati, senza dimenticare gli apparati culturali “ambientalisti” e i mass media asserviti a concreti interessi economici, l’unica struttura che in questa vicenda è riuscita a essere adeguata ai compiti – insieme a gruppi di cittadini consapevoli, con i loro comitati –, è stata la magistratura napoletana che, perlomeno, ha evidenziato con chiarezza alcuni aspetti di questa gigantesca truffa, portando avanti alcune precise denunce, a cominciare proprio dalle «ecoballe» fatte passare per Cdr, fino al nodo, particolarmente importante, delle carenze impiantistiche e gestionali degli impianti, nodo che viene al pettine nel giugno 2007 quando il Gip del Tribunale di Napoli dispone il sequestro di circa 750 milioni di euro alle imprese del gruppo Impregilo, oltre alla interdizione ai contratti con la pubblica amministrazione per un anno.

Ma questa azione della magistratura era stata prevista in tempo utile dalle banche, a dimostrazione che il sistema bancario, in questa vicenda, si è dimostrato, nel concreto, piú accorto del velleitario sistema politico, non avendo voluto accollarsi un fallimentare sistema di gestione, a partire dal «termovalorizzatore» di Acerra.

Per il futuro vengono proposte alcune ricette per uscire dalla crisi, anche elaborate proprio da chi è stato la sua principale causa e, non a caso, sono precisamente queste a essere assunte da tutta la classe politica tradizionale.

Un esempio è quello che suggeriva, a suo tempo, l’amministratore delegato di Impregilo Alberto Lina: modificare la normativa sul Cdr e rendere finalmente utilizzabili e profittevoli, come combustibile, le «ecoballe» stoccate. Queste le sue parole: «a questo punto bisogna andare avanti e realizzare, il piú velocemente possibile, i due termovalorizzatori – noi o altri, se ne può parlare – e, in essi, bruciare le ecoballe che si sono accatastate. Non mi sembra che queste ecoballe possano essere smaltite presso degli inceneritori di terzi e quindi dovremo bruciarle noi. Per questo, basterà solo aggiungere qualche copertone e, sicuramente, nei termovalorizzatori della Campania queste ecoballe diventeranno combustibile e produrranno energia. Quindi, in questo momento, stiamo producendo non materiale inutile, bensí rifiuti che il sistema, nel suo complesso, discrimina e ci dice che non sono a norma e che non possono essere stoccati. In realtà, dobbiamo uscire da questa situazione abbastanza intricata e assurda»[15]. In tal modo si supererebbero anche le prescrizioni pilatesche dei tecnici del ministero dell’Ambiente, che avevano vietato l’utilizzo delle «ecoballe» perlomeno nell’inceneritore di Acerra.

Questa soluzione diventa piú solida se, adesso e anche per il futuro, l’incenerimento di queste «ecoballe» verrà incentivato come energia prodotta da «fonte rinnovabile», proprio per la presenza di frazioni significative di rifiuti biodegradabili, frazione che in un sistema decente di gestione rifiuti dovrebbe essere destinata alla produzione di compost e non certo incenerita.

L’incentivazione all’incenerimento della frazione biodegradabile dei rifiuti viene invece prevista dall’ultima Legge finanziaria, art. 2, comma144 e comma 145, nella misura di 22 centesimi di euro per kWh, in misura uguale all’energia idraulica e in misura maggiore rispetto all’energia geotermica e ai gas prodotti dai processi di depurazione o ai gas di discarica: in questa ottica il detto camorrista “a monnezza è oro” diventa legge dello Stato.
Dall’esame dei fatti dovrebbe risultare chiaro quale è la camorra che sta dietro all’emergenza rifiuti della Campania.

Piú che la locale e tradizionale malavita – che si è occupata di gestire i rifiuti industriali e tossici per conto del sistema produttivo nazionale –, la vera camorra è quella finanziaria-industriale dei “salotti buoni” milanesi, padrona dei governi romani e dell’editoria nazionale – e che poi è lo “stato” che governa gli italiani. Il fatto che questo “stato” sia padrone dei mezzi di comunicazione di massa risulta essere particolarmente utile per scaricare le vere responsabilità su un’indeterminata malavita e su una classe politica locale – peraltro assolutamente indifendibile. Meglio poi se l’operazione viene eseguita da eroici e minacciati scrittori dalla barba incolta o da giornalisti professionalmente intenti a fustigare la morale politica – tutelando, nel contempo, l’immoralità e la criminalità economica ufficiale e istituzionale.

La soluzione proposta, invece, dai gruppi di cittadini consapevoli e dai loro comitati, riassumibile nella strategia «verso i rifiuti zero», non sembra avere, al momento molte possibilità, sia perché non è abbastanza dispendiosa – non prevedendo la realizzazione degli impianti di incenerimento che, se sono quelli piú pericolosi per la salute, sono però anche i piú lucrativi per la realizzazione e gestione –, sia perché responsabilizza il sistema produttivo a un uso piú sostenibile delle merci e dell’energia, senza ricorrere alla faciloneria di soluzioni impiantistiche, che promettono miracoli e poi, nel concreto, comportano il piú delle volte danni non previsti, oltre che, in alcuni casi, veri e propri disastri.

A ogni modo, in Italia sono ormai milioni gli abitanti di Comuni o Consorzi che hanno realizzato concretamente questa strategia; partendo dalla raccolta differenziata «porta a porta» si raggiungono risultati quali la minore (intorno al 20%) produzione di rifiuti pro capite, le maggiori (fino al 75%) rese di raccolta differenziata, i minori (mediamente del 15%) costi del servizio. Questi dati risultano dallo studio effettuato dall’Ecoistituto di Faenza, confrontando, con dati del 2005, 918 Comuni di Lombardia e Veneto, per un totale di 6.750.734 abitanti, che effettuavano la raccolta «porta a porta», con 110 comuni, per un totale di 1.749.734 abitanti, che effettuavano invece la tradizionale raccolta stradale[16] – e si deve rimarcare come questi dati rendono del tutto superflua una specifica impiantistica di trattamento del residuo mediante la combustione dei rifiuti, combustione che comporta sempre rischi sanitari non trascurabili.
Si deve anche ricordare che le scelte virtuose in materia di rifiuti non sono iniziate per volontà dalla classe politica tradizionale, compresi i sedicenti “amici del popolo” o “amici dell’ambiente”, bensí per volontà di cittadini consapevoli, che si sono organizzati in liste civiche proprio per evitare la realizzazione di inutili impianti nocivi o scempi territoriali.

Un primo esempio è quello di Sernaglia della Battaglia, in provincia di Treviso dove, nel 1987, a fronte di un’amministrazione che, dopo aver venduto il territorio ai cavatori, lo voleva poi rivendere all’azienda dei rifiuti di Padova onde riempire i buchi con milioni di tonnellate di rifiuti, un comitato dei cittadini, non limitandosi a organizzare i blocchi delle strade di accesso alle cave, ha dato vita a una lista civica che, dopo aver spazzato via i vecchi amministratori, ha realizzato, tra i primi in Italia, la raccolta «porta a porta» – arrivata, nel frattempo, anche oltre l’80%. Un secondo esempio è quello di Montebelluna, sempre in provincia di Treviso, dove, contro il progetto di un inceneritore perseguito da una precedente amministrazione, due liste civiche sono riuscite nel 2002 a insediare un sindaco che, dopo aver bloccato quel progetto, ha puntato sul sistema di raccolta «porta a porta» – arrivato al 75% di raccolta differenziata.
Come si è potuto rilevare, la vera emergenza rifiuti in Campania – ma non solo rifiuti, e non solo in Campania – è dovuta alla presenza di un sistema camorristico di Stato, che si avvale, per funzionare “ordinariamente”, di uno stato di emergenza permanente. Uno stato di emergenza che va superato, partendo dall’azzeramento di una classe politica e imprenditoriale completamente fallimentare, per arrivare alla messa all’ordine del giorno della democrazia, di un’“ordinaria” e necessaria democrazia.

È cosí che allo “stato di eccezione” deve essere opposto il diritto alla resistenza, come del resto aveva previsto l’esponente cattolico Giuseppe Dossetti come specifico articolo della Costituzione Italiana[17]: «quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino».

Michelangiolo Bolognini

Note: [1] Tutti i resoconti della Commissione sono reperibili nel sito
http://www.camera.it/_bicamerali/nochiosco.asp?pagina=/_bicamerali/leg14/rifiuti/home.htm
[2] Relazione territoriale sulla Campania della Commissione bicamerale, approvata il 26 gennaio 2006.
[3] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 9 marzo 2005.
[4] Relazione territoriale sulla Campania della Commissione Bicamerale approvata il 26 gennaio 2006.
[5] Seduta della Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.
[6] Intervista del 4 gennaio 2008 al quotidiano «il manifesto».
[7] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 9 marzo 2005.
[8] Dichiarazione del Commissario Tommaso Sodano nella Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.
[9] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti dell’8 febbraio 2005.
[10] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.
[11] Relazione territoriale sulla Campania della Commissione bicamerale approvata il 26 gennaio 2006.
[12] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti dell’8 febbraio 2005.
[13] Relazione territoriale sulla Campania della Commissione bicamerale approvata il 26 gennaio 2006.
[14] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.
[15] Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.
[16] Reperibile nel sito
http://www.ecoistituto.com/file/studi/Lombardia-Veneto%20confronto%20sistemi%20di%20raccolta.doc
[17] G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003, pp. 20-21.

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