il Petrolchimico di Porto Marghera si presenta così
Solo che lui sta di fronte a Venezia, e basta la parola. La città più straordinaria del mondo, antica, mezza sott’acqua (e a volte quasi tutta), con i suoi palazzi vecchi di secoli, le sue chiese, i suoi ponti. E quella roba lì, quel coso industriale che solo a guardarlo stride come le unghie sulla lavagna. Se non facesse paura e obbrobrio allo stesso tempo, se si trattasse di un modellino, se fosse un’opera artistica, sarebbe una fantastica accoppiata postomoderna. Ma fosse solo l’occhio a restare ferito, poco male: ci si abitua a tutto, e in Italia ne abbiamo viste di tutti i colori. E poi, che volete? La chimica è fondamentale, dà lavoro a migliaia di persone e noi viviamo in un mondo di plastica, guardatevi intorno e diteci se potreste farne a meno.
Pvc, Cvm, Ipa, Pcb, Ddt, Dde, Hcb, è inutile spiegare che cosa si nasconda dietro queste sigle: materiali plastici, residui della loro lavorazione, liquidi, gas, roba che finisce nelle nostre case, nelle auto, nei vestiti, nelle scarpe, nell’aria, nell’acqua. Non ci facciamo caso, non pensiamo a chi la produce, questa roba. Non pensiamo se produrla faccia male a chi la produce. Eccome se fa male, ma lo fa senza farsi vedere, lo fa senza uccidere sul colpo come alla ThyssenKrupp, come nei cantieri edili, come nelle stive quando vanno a fuoco e non funzionano le bombole per l’ossigeno.
Certo, a volte anche al Petrolchimico qualcuno è morto per un incidente di quelli che finiscono sui giornali. Ma qui, di fronte a Venezia, la morte è soprattutto un fantasma che non si vede, uno spettro che si aggira e uccide con calma, piano piano. Uno lavora un giorno e non sa che la sua vita si è accorciata non di uno ma magari di dieci, cento, mille giorni.
Non sa, o meglio non sapeva fino a pochi anni fa, che quelle sigle così fredde in realtà nascondono un’arma letale. Non lo sapevano gli operai e gli impiegati che hanno lavorato lì dentro una vita, non lo sapevano i 157 morti per tumore e i 103 ammalati. Forse non lo sapevano neanche tutti i dirigenti della Montedison e dell’Eni. Ma qualcuno sì, tanto che in cinque sono stati condannati in appello nel 2004, dopo essere stati assolti in primo grado con altri 23 imputati alla fine del processo Casson.
E tanto qualcuno di loro sapeva, che ricevette – ma chiuse in un cassetto – un rapporto del dottor Maltoni datato novembre 1972 in cui si denunciava la tossicità cancerogena del Cvm. All’epoca il Petrolchimico era della Montedison, e solo nel ‘74 fu stabilito a livello internazionale che quei prodotti potevano provocare il cancro. Due anni guadagnati dalla nostra azienda ma anche da tutte le altre multinazionali della chimica: è stato infatti scoperto un documento che impegnava tutte le società americane del settore a non rivelare il contenuto di quel rapporto (vedi il libro Petrolkiller di Maurizio Dianese, Feltrinelli, 2002).
L’ambiente o il lavoro? La salute o il lavoro? Contraddizioni in seno al popolo. Mai risolte, spesso neanche affrontate nonostante sia da almeno un quarto di secolo che se ne parla. La sinistra e il sindacato si sono svegliati tardi, e sono ancora in dormiveglia. Le loro ragioni sono semplici, diciamo pure elementari: se chiudessimo le fabbriche che avvelenano avremmo decine di migliaia di disoccupati e perderemmo enormi quote di produzione industriale. Le imprese ovviamente concordano. Piano piano, pianissimo, qualcosa tuttavia si è mosso: grazie alla medicina del lavoro negli Anni Settanta, agli ambientalisti poi, ai settori della sinistra più sensibili al tema. Qualcosa, ma ancora poco. Come dimostrano i morti di Torino, quelli di ieri e gli altri milleduecento che ogni anno riempiono le statistiche.
Gigantesca e spettrale, intanto Marghera è sempre lì. Con dentro i suoi veleni silenziosi, che magari tra cinque anni scopriremo aver provocato il cancro in chissà quanta gente. Però ci possiamo consolare col sito dell’Agip: «La raffineria Eni di Venezia ha raggiunto un importante traguardo: tre anni senza infortuni».
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