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Buone Pratiche/4

Gli «elimina plastica» nel cuore della crisi

Caserta L'esperienza della Erreplast: dove le bottiglie diventano maglioni. Più che di buona pratica, bisognerebbe parlare di un buon business. Ma la storia della Erreplast merita a pieno titolo di essere indicata come una strada intelligente per contribuire alla riduzione dei rifiuti.
20 gennaio 2008
Cinzia Gubbini

E non in un posto qualsiasi, ma nell'occhio del ciclone: la Erreplast sorge infatti a Gricignano di Aversa, in provincia di Caserta. In uno dei cuori dell'emergenza rifiuti, la Erreplast ricicla bottiglie di acqua minerale in plastica e le trasforma in scaglie in Pet. Una materia considerata quasi come vergine e con la quale si fanno parecchie cose: dal tessile all'industriale.

In pratica nella zona industriale di Aversa si lavora affinché le super inquinanti bottiglie di plastica diventino maglioni e rivestimenti, ma anche fibra-fiocco, che serve a fare i mobili. I modi per utilizzare il Pet, poi, si stanno moltiplicando: termoformati, blister, tappeti in poliestere, cinghie industriali...Le aziende che usano questo materiale sono parecchie e nonostante il mercato principale della Erreplast sia quello italiano, a Gricignano arrivano clienti da tutta Europa. La ditta italiana, che gode di una buona reputazione, è riuscita ormai ad affermarsi come una dei primi produttori europei di Pet.

Ma il paradosso è che la Erreplast per funzionare deve rivolgersi fuori dalla Campania: delle 10 mila tonnellate di bottiglie di plastica all'anno macinate negli impianti, 7 mila arrivano dalle regioni del centro Italia. Perché in Campania non si riciclano i contenitori dell'acqua minerale, anche quando ci sarebbe un posto dove mandarle che non è un'inceneritore o una discarica: «E' un peccato, anche perché siamo dotati di un impianto che può lavorare 20 mila tonnellate. Dunque, lo sfruttiamo soltanto per il 50%», spiega Antonio Diana, amministratore delegato della Erreplast. E non è che i soci della ditta avessero deciso di fare un impianto così grande per sfizio. «Il nostro progetto si basava sul piano di sviluppo della Regione, non sembrava esagerato se paragonato al consumo di acqua minerale in bottiglie di plastica in Campania, pari a 45 mila tonnellate all'anno». Di cui, invece, solo 4 mila vengono recuperate.

E pensare che l'impianto di riciclo di bottiglie è nato nel quadro normativo del decreto Ronchi, con un finanziamento di 12 miliardi e ad inaugurarlo c'erano tutti, dal presidente della regione Campania Antonio Bassolino all'allora commissario per l'emergenza rifiuti Raffaele Vanoli. Era la fine del 2000 e il taglio del nastro sembrava dare grandi prospettive al riciclo campano e alla nascita di un'attività industriale capace di sfruttare le nuove tecnologie. Sette anni dopo Diana dice: «Il nostro fatturato annuo è mediamente di 6 milioni di euro, ma si potrebbe fare di più. Siamo ancora in fase di ammortamento. Se si riuscisse a sfruttare tutto il nostro impianto potremmo anche permetterci di assumere più personale, oltre ai 35 addetti che attualmente lavorano per noi».

Riciclo, business pulito e posti di lavoro. Non è impossibile. Ma come vede Diana l'emergenza rifiuti che ha travolto di nuovo la sua regione? «Ho l'impressione che non si sia ancora capito che bisogna imboccare strade nuove per rispondere al problema dei rifiuti. La corresponsabilità è evidente: i politici da un lato, e i cittadino dall'altro che non attuano buone pratiche. con molta onestà, segnali ci sono sia a livello regionale che nazionale. Ma io farei qualcosa di più efficace». Cioè? «Bisognerebbe introdurre una cauzione sugli imballaggi. Sì, insomma, come il vuoto a rendere. Chi compra una bottiglia di plastica lascia una cauzione. Quando la riporta, riprende i soldi e a quel punto c'è la certezza che la bottiglia verrà riciclata in modo sistematico. Per noi, significherebbe poter programmare la quantità di lavoro e essere più efficienti».

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